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Autore: DarkYuna    16/02/2016    1 recensioni
"Trovate l’Argus Apocraphex.".
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Argus Apocraphex*








 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
       
Il freddo innaturale ci aveva colto ad un certo punto della perpetua notte infinita. Era calato inaspettato sulla città, innalzando una nebbia fitta che ci inglobò, costringendoci a ripiegare il più in fretta possibile in un rifugio sicuro. Nell’arco di una manciata di respiri, eravamo passati da una fresca estate ad un inverno secco.  
Non scoprii mai cosa era entrato nella tavola calda, ma fui piuttosto felice di non saperlo.
 
 
Shannon accese un piccolo falò all’interno dell’appartamento al terzo piano, adoperato come nascondiglio, usò i mobili del soggiorno per alimentarlo ed impedirci di morire assiderati. Avevamo sprangato tutte le porte, per evitare brutte sorprese, mentre ci riposavamo.
Dalla finestra, la foschia aveva trangugiato ogni costruzione, la terra ed il cielo. Sembrava meno notte adesso.
 
 
<< Cosa accadrà se non riusciamo ad andarcene? >>. Tenevo le mani tremolanti ferme al petto, per impedirgli di constatare quanto spaventata fossi.
 
 
Con un bastone metallico attizzava il fuoco, sistemando la legna in modo tale da non far propagare le fiamme in ogni dove. Non avevo la più pallida idea di dove avesse preso le pietre per serrare il falò.
 
 
<< Accadrà che continueremo a fuggire, Jennifer. Non abbiamo altra scelta. >>. Ci comportavamo come se fossimo amici da anni, invece che conoscenti di poche ore… sempre se di ore si poteva parlare.  
 
 
Tirò giù la zip della tuta, la tolse disinvolto e la gettò a terra, accanto ai due materassi trascinati nella stanza. Teneva una maglietta sdrucita, larga, senza maniche e dalle quali si potevano vedere perfettamente i fianchi scolpiti. Sotto l’orecchio  sinistro era tatuato una sorta di triangolo con una linea che lo divideva esattamente al centro. Un secondo tatuaggio raffigurava le Americhe nella parte inferiore della nuca. Tre teschi disposti in cerchio sopra la parte superiore del fianco destro. Furono gli altri due tatuaggi che non riuscii ad interpretare in alcun modo. Uno era una raffigurazione astratta e colorata sulla spalla sinistra e che si estendeva fino ad un certo punto del braccio. L’altro era diviso in quattro simboli sconosciuti che sfumavano dal rosso al nero, in un primo momento credetti fosse una scritta in una lingua straniera, poi mi ravvidi e ponderai che avessero un significato diverso.  
 
 
Buffo che notassi quanto seducente ed affascinante fosse, solo ora che si stava svestendo. Il fisico era palestrato, non troppo, il giusto, i muscoli guizzavano veloci sotto la pelle rosata e destavano interessi che non pensavo di possedere. Rappresentava la parte meno nobile e controllata del mio essere e lo spasmodico desiderio di toccarlo, annusare la pelle e sentire che sapore avesse, fu una brama infuocata difficile da reprimere.
 
 
Maggiore era la durata in cui rimanevo incastrata qui e più la razionalità veniva affogata dall’impetuosità della follia, come se questa città fosse il nucleo pulsante dello squilibrio ed infettava i suoi abitanti con l’identico morbo incurabile. Forse era proprio questo che era accaduto ai cittadini di questo incoerente posto, erano impazziti e la pazzia portava solo ad un unico finale: la morte.
Se la mia tesi era esatta, eravamo in un mare di guai e lo psicopatico con il martello era l’ultimo dei nostri problemi.
 
 
Strofinai le mani sulle braccia infreddolite e mi strinsi nella coperta blu, non avevamo trovato altri vestiari, gli armadi di questa casa erano vuoti, così come i pensili in cucina e il frigo, anche se tracce di vissuto erano sparse in varie stanze, tra le foto ricordo e disegni di bambini. Come faceva un’intera famiglia a sparire nel nulla così?
 
 
Shannon si sedette sul materasso, tolse le scarpe ed abbassò finalmente la guardia. Era stanco, sfibrato, nervoso, però la mia presenza pareva rincuorarlo, doveva aver cercato altri essere umani come lui per molto, molto tempo, chissà quante ne aveva passate? Lo facevo sentire meno solo e perduto, stessa cosa provavo io, grazie a lui.
 
 
<< Dormiremo a turni. >>, organizzò zelante, anche se appariva più rilassato, non smetteva di essere responsabile. << Io faccio il primo turno. Cerca di dormire qualche ora, Jennifer. Non appena riprenderemo completamente le forze, inizieremo delle ricerche… non possiamo andare avanti per molto in questo modo. Dobbiamo capire, ci servono risposte. >>.
 
 
Mi allontanai dalla finestra, per accostarmi all’invitante fuoco acceso, restai in piedi per poco, poi sprofondai nel materasso comodo.
<< Hai in mente qualcosa? >>.
 
 
Gettò un altro pezzo di legno, distese le gambe e poi incrociò i piedi nudi sulla moquette crema. Il bagliore delle lingue rossastre gli si rifletteva sul volto affascinante, le iridi divennero smeraldine, la bocca umettata brillò e le pieghe dei muscoli si adombrarono.
<< Niente di attendibile, ma prima di incontrarti stavo provando ad entrare in quello che mi pareva il Partenone di Nashville… >>.
 
 
<< Nashville? >>, interruppi disorientata. <<  La capitale dello stato del Tennessee? >>. Come potevano trovarsi pezzi di altri città, raggruppati in un solo luogo sperduto, da cui non ce se ne poteva andare? Niente era come appariva.  
 
 
<< Proprio quello. Quando stavo per investirti, stavo scappando da uno di loro. >>. Con “loro” intendeva i tizi dalla forma umanoide che ci inseguivano per ucciderci. << Credo che non volesse che entrassi lì, quindi ci deve essere qualcosa di relativamente importante, che non vogliono farci scoprire. >>.
 
 
Sfregai i palmi e mi protesi verso il falò. Il contesto aveva dell’inammissibile e più mi dedicavo alla spiegazione e più questa mi sfuggiva, obliata da particolari superficiali, come se la mia stessa mente mi remasse contro e provasse in tutti i modi possibili a confondere il cervello, mettendo davanti ai miei occhi futilità che non servivano a niente.
Più cercavo e più mi perdevo.
Il problema, fondamentalmente, ero io stessa.
 
 
<< Magari c’è il modo per andarcene. >>, supposi assorta. La mia pelle era ancora pallida come quella di un cadavere. Portai le ginocchia al torace ed abbracciai le gambe, per detenere il calore del corpo.
 
 
<< O magari no. >>. Doveva trovarsi qui da molto più tempo di me, per aver perso così la speranza, ma se cessavamo di cercare, se non proseguivamo in questo viaggio ingannevole, non ne saremmo mai venuti a capo. Non potevamo permetterci di smettere di cercare, era l’unico modo a nostra disposizione per salvarci.
 
 
D’istinto allungai la mano, per prendere la sua ed infondergli un briciolo di coraggio. I polpastrelli erano callosi, duri al tatto, come se avesse fatto un lavoro manuale e questi erano i risultati. Scottava, ma sembrava stare bene, non aveva l’aria di una persona con la febbre.
 
 
<< Non dobbiamo disperare, Shannon, ci deve essere una ragione, un perché, un modo. Mi rifiuto di credere che resteremo qui per sempre! È inconcepibile! >>, confortai, sfortunati complici di un infausto destino. << Ci deve essere qualcosa, qualsiasi cosa! Un segno, un messaggio, un indizio! Forse siamo troppo stanchi, impauriti e confusi per giustificare gli eventi, forse abbiamo bisogno di dormirci sopra e di ragionarci… insieme. Due menti pensano meglio di una sola. >>.
 
 
Annuì poco convinto, non potevo biasimarlo e neppure dargli torto, era legittimo perdere di vista la meta finale, se il viaggio in sé si prospettava difficile, in salita e con elementi contrastanti, ciò nonostante o ci provavamo o non ci saremmo riusciti mai.
<< Dove ti sei risvegliata? >>, aveva bisogno di chiacchierare, svagarsi, di una parvenza di ordine in cotanta irragionevolezza. Gli occhi sfumavano dal verde, al miele, fino ad essere incolore o a possedere in sé tutti i colori del mondo.
 
 
“Perché proprio “risvegliata”? Ciò implica che mi sono addormentata per lungo tempo?”.
 
 
<< In un ospedale. >>. Gli mostrai i tre buchi violacei nell’incavo del braccio sinistro. Inutile chiedersi il perché: non lo ricordavo. << Ma non credo di avere una qualche patologia particolare, insomma sto bene. È lì che ho incontrato lo psicopatico con il martello. >>.
 
 
Inarcò un sopracciglio, stupito.
<< Martello? >>.
<< Sì martello, perché il tuo non aveva un martello? >>. Quindi la mia teoria era esatta: ce n’era più di uno.
 
 
Fece lentamente di no con il capo.
<< La mia era una donna, vestita interamente di lattex nero, con corna di uguale materiale e brandiva un’ascia. >>, raccontò e pareva di essere finiti nella trama di un film horror. Per senso di paura, la sua, batteva di gran lunga lo psicopatico con il martello.
 
 
Basandosi sulla mia cartella clinica, ero morta all’età di otto anni e, a rigor di logica, sarei dovuta morire anche dopo l’incredibile salto dall’ospedale, così come, Shannon, sarebbe dovuto morire, o almeno riportare qualche graffio, a causa dell’incidente in moto. Il punto stava proprio in questo, era strano essere ancora vivi, invece mi sembrava tutto molto naturale e semplice.
Poi, d’un tratto, rammentai la creatura mostruosa che mi aveva ordinato di svegliarmi e balzai in piedi. No, non ero giunta a nessun esito ingegnoso, ero scombussolata di come le stranezze fossero divenute normali e la normalità era irregolare.
 
 
<< Che ti prende? >>, domandò speranzoso, scrutandomi dal basso all’alto. La faccia s’illuminò. << Ti sei ricordata qualcosa? >>.
La fastidiosa impressione di non riuscire a rivelare la decifrazione dell’incognita, come se essa fosse esattamente innanzi ai miei occhi ciechi, ma non riuscissi a percepirla, era alquanto snervante ed inconcludente. Mi aggrappavo disperata al senno e lui mi stava ineluttabilmente guizzando via, come acqua tra le dita che non si poteva afferrare. Stavo smarrendo il controllo.
C’ero vicina… all’orlo della follia e della soluzione.
 
 
Schioccai la lingua al palato, battei spazientita il piede sulla moquette e sbuffai.
<< È come se mancasse qualcosa, come se… non lo so. >>.
 
 
<< Non è facile da capire, non abbiamo niente su cui iniziare. Ci troviamo qui, ma qui dove? Non c’è nessuno con cui parlare a parte te, ma tu ne sai quanto ne so io. Poi ci sono loro, che sembrano umani, ma non lo sono e che cercano di ucciderci… non vedo la luce del sole, da non so quanto, non ci sono orologi, non riesco a calcolare il tempo. Mi chiedo come non siamo ancora impazziti?! >>. Un sorriso amaro gli distese la bocca morbida, non vi era alcuna allegria.
 
 
Morsi il labbro inferiore e presi a camminare su e giù per il soggiorno, che ora assomigliava più ad un accampamento.
<< È… è come se tutto questo, non stesse accadendo veramente, come… non lo so. >>. Ruotai su me stessa. << A te non sembra tutto normale, benché non lo sia? >>.
 
 
<< Come se fosse una nuova realtà in cui, però, abbiamo sempre vissuto e che, al contempo ci appare paradossale, perché proveniamo da una realtà differente che, invece, non ricordiamo e che quindi non possiamo porre a confronto? >>.
 
 
Faticai non poco a seguire la sua teoria, in sintesi aveva ragione.
<< Esattamente! >>, esclamai e, vicina dallo sputare, metaforicamente, fumo dalle orecchie, passai scoraggiata le mani tra i capelli lunghi e tornai a sedermi sconfitta sul materasso. << Forse ho bisogno di dormire, il mio cervello non la regge tutta questa pressione e di cose ne sono già successe. >>.
 
 
<< Non sarà facile andarcene. >>, decretò alla fine e non potei essere più d’accordo con lui. << Dormi, ti guardo le spalle. >>, promise, proprio come se fossimo una coppia di guerrieri che si sarebbero protetti in ogni situazione avversa.
 
 
Con un sospiro rumoroso mi sdraiai, abbarbicandomi in posizione fetale nella coperta. Scrutavo Shannon attraverso le fiamme e, per una frazione di secondo, un battito di ciglia, il viso bellissimo, divenne sfigurato, come se uno sfregio partisse obliquamente dal sopracciglio sinistro, fino ad arrivare al lato destro del mento. Il corpo in pessime condizioni, con ecchimosi, escoriazioni e ferite sanguinanti.
Strofinai le palpebre e il lapsus cessò, così giudicai l’episodio come uno scherzo dell’immaginazione, della stanchezza.
 
 
<< Ci vediamo al tuo risveglio. >>, mormorò dolcemente, ma la frase ebbe una valenza criptica che mi fece rabbrividire: suonò come un addio.
 
 
“Risveglio… di nuovo quella parola.”.
 
 
<< Ci vediamo al mio risveglio. >>, ripetei, per poi voltarmi supina e nell’arco di un respiro scivolai in un sonno profondo, che non ebbe niente di canonico, di riposante e comune. Ebbi la terrificante impressione di cadere nel vuoto, la tipica che si provava nei sogni, però non mi svegliai di soprassalto, cosa che tra l’altro era sempre l’epilogo di un incubo simile. Caddi nel buio per l’eternità o per un solo secondo, non era più la forza di gravità ad imbrigliarmi, ero io stessa, ero la burattinaia e il burattino, la vittima e il carnefice, la preda ed il predatore.
 
 
E poi vidi la luce.
Non la luce che mi aveva trascinata nella realtà ingannatrice.  
Una luce calda, rassicurante, abbacinante, era una luce che conoscevo, composta da tanti raggi splendenti: il sole. Finalmente il sole era sorto, niente più notte eterna, il giorno era tornato a scintillare.
Un “bip” familiare spezzava un silenzio differente, niente più paura, attesa, pericolo, ogni cosa era tornata com’era. Le palpebre restarono socchiuse, a causa della troppa luce che filtrava dalla tapparella alla destra della stanza. Ancora in ospedale, non potevo muovermi, il dolore fisico era così sproporzionato da non riuscire ad essere tollerato dal corpo, un corpo che non sentivo, un corpo ombra ed ero eccessivamente confusa, quasi drogata, per nutrire la giusta preoccupazione. Mi muovevo con la lenta goffaggine che si aveva in un sogno e, come a volte accadeva, capii che stavo sognando.
 
 
Il “bip” divenne continuo, insistente ed agitato, ed attirò l’attenzione della giovane donna seduta, dai capelli d’oro e le iridi color del cielo ai primi bagliori dell’alba, seduta su una poltrona azzurra in fondo alla stanzetta satura di alcool etilico. Alzò le iridi familiari, dal giornale che sfogliava, sino a me, e sbalordita rimase nel constatare che mi stessi svegliando.
Mia madre.
Fui scioccata nel ricordarmi di lei, non era esistita, non rammentavo chi lei fosse, almeno fino ad adesso, mi era bastato vederla, per rievocarla. Mi sforzai a metterla a fuoco e ripensai ad ulteriori reminescenze che mi potessero dare indizi rilevanti su chi fossi davvero e cosa fosse accaduto, ma, nell’insano tentativo di addentrarmi nella foschia che tramava minacciosa nel cervello, una fitta atroce alla testa, sciolse i colori caldi, assorbì la luce del sole, cancellò il volto rassicurante di mia madre. Avvertii distintamente il corpo arcuarsi malamente sulla schiena, trapassato da miliardi di spille, la realtà onirica si sbriciolò come sabbia al vento e prima che potessi aggrapparmi con tutte le mie forze a quel frammento di sogno, spalancai allarmata gli occhi nel buio del soggiorno poco illuminato.
Il fuoco accanto a me era vicino dallo spegnersi, Shannon si era addormentato appoggiato alla parete, nel tentativo di restare sveglio a fare il primo turno di guardia. Aveva un’aria dolce, quasi indifesa, ma era un combattente, glielo si leggeva in faccia, avrebbe picchiato duro se ce ne era bisogno.
 
 
Da quanto non eravamo coscienti?
Spettava a me il secondo turno di guardia.
Scalciai via la coperta e mi sedetti. Ero più esausta di prima, non mi rendevo conto di quanto avessi dormito, in assenza di orologi. Massaggiai le tempie doloranti, i primi segni di un’emicrania con i fiocchi stavano venendo a galla e ben presto avrei faticato anche solo a tenere gli occhi aperti.
Una tessera del puzzle prese posto al centro dell’ignoto: avevo una madre. Dispersa chissà dove, ignara se si ricordasse di me o se mi stesse cercando? Il nome restò un mistero, come le altre cose che la riguardavano.
 
 
La caligine inglobava ancora la città fantasma.
 
 
Mi alzai per sgranchirmi le gambe, provare a cercare qualche indizio all’interno dell’appartamento deserto. Un appartamento senza abitanti, senza orologi… e senza specchi.
Feci solo tre passi, al quarto udii nitidamente una voce cristallina e femminile pronunciare il mio nome, riempendolo di angoscia crescente. La voce echeggiò.
D’istinto guardai Shannon, lui dormiva beatamente, non l’aveva udita, eppure non vi era anima viva qui.
Che fosse solo nella mia testa? Me l’ero immaginata? La pazzia stava cogliendo anche me, dunque?
Spaesata indietreggiai, ispezionando ogni singolo centimetro attorno a me, consapevole che qualcosa stava accadendo, che non ero al sicuro. Stavo per svegliare Shannon, mentre di sottecchi notai un particolare agghiacciante che mi bloccò sul posto e mi trasformò in una statua di sale, tale fu il panico.
 
 
Nella cucina, sulla parete di ovest, a caratteri cubitali, una scritta rosso sangue, gocciolante e fresca troneggiava minacciosa. Nessuno era entrato, le porte erano sbarrate nell’identica maniere di come Shannon le aveva sistemate, nondimeno qualcuno era stato lì ed aveva lasciato un chiaro messaggio per noi che, di chiaro, non aveva praticamente nulla.
Trovate l’Argus Apocraphex.









Note:
Ho cercato di aggiornare il prima possibile, ma niente, troppi impegni che hanno portato via tantissimo tempo. Spero di essere perdonata con il nuovo capitolo e che possa piacere a qualcuno. 

Ringrazio di cuore le anime pie che mi hanno letta e commentata, chi ha aggiunto la mia storia tra le seguite e le preferite. Ringrazio anche i fantasmini che leggono solamente, spero che un giorno lascerete anche un piccolo commento. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna

 
  
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