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Autore: Artemisia Black    19/03/2005    6 recensioni
questa storia è un po' drammatica...un po' tanto...spero che qualcuno lasci un commento perchè ho proprio bisogno di sapere cosa ne pensate...qualunque idea vi siate fatti, si accetta di tutto...ringrazio in anticipo...Misia
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Ragazza Che Non Poteva Parlare

La Ragazza Che Non Poteva Parlare

Non poteva parlare, punto. Non perché fosse affetta da sordomutismo. Semplicemente non poteva. O non riusciva. Medici, dottori professori l'avevano visitata, fatto congetture, snocciolato esami, filtrato previsioni, elaborato strani fenomeni paranormali. Nulla. Il fatto era semplice. E si rivelava per quello che era: un dato di fatto. Non poteva parlare, punto. Fine della storia. Si chiuda il sipario, grazie.

A 23 anni e mai spiccicato parola, proferito verbo e affini. Sentiva, certo. Eccome se sentiva! Probabilmente aveva un udito migliore di tutti gli altri. E vedeva…attraverso la limpida membrana del cristallino, scivolando come un'ombra sull'uscio della pupilla, senza essere scorta dai bastioni di quell'iride attenta e vigile…vedeva il mondo senza potervi comunicare alcunché. Sapeva scrivere, certo. Era istruita, sicuro. Aveva studiato, ovvio. Ma non poteva parlare, punto. E non c'era assolutamente nulla da fare. E' questa la storia.

La mamma si era spaventata quando era piccola. Gli altri bambini già parlavano da un pezzo, ma lei no. Muoveva le labbra disperatamente, con le lacrime agli occhi ma non un suono usciva da quella bocca di bambina che tanto avrebbe voluto ridere e scherzare come tutti gli altri bambini che frequentavano l'asilo con lei. Leggeva, scriveva e ascoltava; alle elementari, alle medie, al Liceo come anche all'Università. Non c'erano fondamentalmente seri problemi di comunicazione. Invece di parlare scriveva durante un esame.

Non era particolarmente brava in nulla. Viveva la vita con la passività intrinseca della sua situazione. Certamente la sua vita non era priva di arrabbiature e scontri. Ad esempio quando qualcuno che non la conoscesse le chiedeva qualcosa. Un signore inglese distinto che vuole sapere l'indicazione di una via. Una vecchietta che comincia a parlare della sua giovinezza seduta accanto a lei sul sedile lucido di un vecchio tram arrugginito, ricordo di tempi ormai lontani che si trascina come una reliquia lungo le vene di ferro della città…la vecchina o il tram…è lo stesso.

Ma non piangeva, non si disperava…sopravviveva o si lasciava trasportare dalla corrente piatta di quella vita orfana di favella…o troppo gonfia di parole mai dette e nemmeno mai nate…solo concepite e mai trasmesse. Nemmeno attraverso i gesti. Tanto era inutile.

Quando andava a pranzare con gli amici si limitava ad annuire. Ascoltava, annuiva e sgranava gli occhi…giusto per far apprendere la propria attenzione. Lei non poteva usare intercalari…

La sua vita era fatta di sospiri. Brevi, corti, sussultori sospiri vuoti di verbi, spenti da inesistenti aggettivi, privi di sintassi, grammaticalmente corretti o non…tanto nessuno si sarebbe mai fermato ad ascoltarli, né tanto meno commentarli. Lei ascoltava, punto. Ma nessuno si sforzava di ascoltare lei, dato di fatto.

Chiedevano pareri su comportamenti da tenere, atteggiamenti da adottare…a lei. Che a detta di tutti era così calma e accondiscendente. Così chiara. Tanto da confondersi con l'aria grigia di quella città, sui muri sporcati di strisce nere da quell'artista optical che ha nome 'pioggia acida'.

E allora come faceva a comunicare? Non con i gesti, questo era chiaro. Ma con sguardi eloquenti. Elaborazioni grafiche di tempi ormai trascorsi davanti allo specchio camerino di prova.

A detta di alcuni baldi giovani era la ragazza ideale. Non poteva parlare. Ma chi la conosceva sapeva che un suo sguardo a volte era più esplicito di mille parole. Già. Chi la conosceva bene. Questo era il problema. Nessuno la conosceva bene. Perché nessuno aveva mai parlato con lei. Oh certo, era contornata da un'aureola di amici. Appunto. Loro parlavano anche per lei. Lei si limitava ad ascoltare anche per loro. C'è chi abbonda di parole e di carestia d'udito. E c'è chi abbonda d'udito e di vacuità spaziali di verbi. O suoni vocali che dir si voglia.

Il mondo intero era lì, ansioso di vocaboli, famelico di aggettivi nuovi o vecchi, pretenzioso di loquaci distributori di idee. Ma lei in quella leziosa compravendita non era inclusa. Era il classico oggetto d'esposizione destinato al magazzino dell'invenduto, del mai venduto e del mai venderò. La polvere le ricopriva il capo, nascondendo sotto una finta cenere le braci ardenti della sua anima.

Non poteva semplicemente parlare. Non era difficile. Una cosa da poco. Non ci stava male, questo no. Assolutamente. Ma non poteva sopportare tutte quelle parole, lei…che di parole non ne aveva ma delle quali aveva fame. Come avrebbe voluto condividere almeno un centesimo delle parole sputate, a volte come immondizia, attraverso le labbra dei suoi amici. Là, dove andavano a confondersi con l'aria grigia della quale lei era parte ormai da troppo tempo…allora perché, se la fisica le andava così incontro, non riusciva a catturarle? A farle sue? A riciclarle? Era impossibile….Ma l'illusione a volte è dolce come un raffinato liquore…e da la stessa ebbrezza…o la stessa dipendenza che dir si voglia.

A questo punto aveva imparato a conviverci già da tempo. La sopravvivenza e l'abitudine avevano a poco a poco soppiantato l'illusione strappandole rapaci le radici. Ascoltava. Era la cosa che sapeva fare meglio. Ascoltava ed elaborava. E a poco a poco quell'idea aveva fatto capolino nel suo cervello. Scavando come una piccola talpa sotto la terra bruna vecchia di millenni.

Così, lentamente, semplicemente. Conseguenza immediata di ancestrali lune sempre e perennemente nuove. Buie e scure come ombre tra le pieghe delle tenebre.

Aveva da principio avuto un sospetto, fautore di tale stupore da farla indietreggiare violentemente contro lo schienale della sedia di betulla sulla quale stava seduta. Una delle tante volte destinatele dal destino, in cui era intenta nel sua unico scopo di vita. La sua interlocutrice non le badò affatto…troppo intenta nel proprio monologo. Lei si aggrappò violentemente al bordo del tavolino, facendo sbiancare le carni sotto le unghie trasparenti. Aveva scosso il capo. Sbarrato gli occhi. E poi tratto un profondo sospiro cercando di rilasciare i pensieri attraverso quel gesto, invece che espletandoli con mere parole.

Passandosi una mano sulla fronte. L'amica la guardò. - " mi stai ascoltando?" - disse. Lei annuì sbattendo le palpebre perplessa. Aveva avuto dei dubbi? Lei poteva solo ascoltare. Aveva sentito tutto. Ma dal sentire al recepire era tutta un'altra faccenda. Ascoltava. Passivamente. Sempre. Prese tra le mani il panino posato sinteticamente su un piattino da bar candidamente grigiastro.

Cominciò a mangiare. Anche se non era quella la fame che sentiva. Il dubbio di poco prima, o sospetto che dir si voglia, aveva puntellato la sfera dei suoi pensieri provocando, sulla superficie liscia e levigata, una caratteristica crepa dalle preoccupanti conseguenze che circumnavigava attorno alla sua esistenza fin lì trascorsa.

Tornò a casa. Trascinandosi attraverso le vie affollate del centro. Scansando pedoni disciplinati e non. L'aria gelida le investiva i polmoni. Almeno in inverno poteva parlare attraverso le nuvole di vapore che le uscivano dalla bocca. Come i pesci con le bolle. Ma i pesci almeno avevano l'oceano. Una distesa enorme di silenzio. Salì su un tram. Continuando a pensare a quell'idea che lentamente, durante l'arco della giornata, aveva puntellato il suo cervello e le sue convinzioni.

Il tram era stranamente vuoto. Dal fondo di quel serpente poteva vedere la città sciogliersi dentro i suoi occhi e confondersi con la prima foschia serale. Quell'idea era sempre più insistente e non voleva abbandonarla. Un paio di ragazzi fecero alcuni apprezzamenti. Si limitò a non ascoltarli. Era la sua unica difesa, o arma. L'indifferenza. Quell'arma che aveva imparato a conoscere sulla propria pelle e che aveva cominciato ad arrotare per servirsene a sua volta. Verso chi l'aveva usata per ferirla. Perché e difficile spuntarla con chi non può parlare. È impossibile ottenere l'ultima parola. Assolutamente impossibile. Impossibile e scontato. Scontato e stupido.

Il vecchio serpente cigolante terminò la sua breve vita davanti ad un grande edificio. La gente andava e veniva, affollando marciapiedi, taxi, altri serpenti, macchine…pensieri. Il suo udito focalizzò l'attenzione su un annuncio sparato da uno dei tanti altoparlanti che puntellavano come fastidiose mosche morte il soffitto antico.

Qualcosa scattò dentro di lei.

O era già scattato da quando aveva deciso di salire sul serpente meccanico. Quello che non andava a casa. Quello che andava lontano. Depliant di paradisi vicini e lontani. Più vicini che lontani.

I suoi passi si mischiavano al rumoreggiare della folla. Per una volta non ascoltò gli altri. Ma solo la sua voce. Quella interiore. Un leggero sussurro dentro al suo petto. Si diresse verso il vetro fumé davanti a lei e comprò quel pezzo di sogno che ora teneva tra le mani come se fosse l'ultimo barlume prima del salto nel vuoto. Una piccola corda destinata a spezzarsi. Per volere o non. E lei voleva.

Dai serpenti alle lumache. Tante grosse lumache. Scivolanti nella notte di quel giorno d'inverno inoltrato. Lasciano dietro le loro code lunghe scie luccicanti. Scie d'argento attraverso la foschia addensatasi ormai in nebbia. Già. La notte. Pensava la Ragazza Che Non Poteva Parlare. Entro domattina sarebbe giunta a destinazione. Probabilmente alle prime luci dell'alba.

S'addormentò. Tra il cigolio continuo di una porta male oliata di scompartimento e lo sbatacchiare insistente di gancio da tenda mal fissato, contro il vetro appannato del finestrino.

I rumori inesistenti di quel vagone danzavano leggeri come burattini nelle mani del silenzio. La lunga lumaca nera scivolava sbuffante nella notte. I fili di quelle marionette morte si intrecciavano come teste di serpenti sotto l'incanto del suonatore di flauto chiamato tenebra.

Il sonno insinuò pestifero le sue lunghe dita affusolate tra i capelli scuri della ragazza che non poteva parlare. E lei si lasciò sedurre dal suo tocco, abbandonando la testa tra le sue braccia di velluto.

Rimasero così, stretti nell'abbraccio degli amanti fino a quando il marito adeguatamente nascosto sotto l'innocua spoglia del primissimo mattino, non li colse geloso sotto un cielo tinto di viola. Lei sbadigliò stiracchiandosi. Si avvolse prepotentemente la sciarpa scura attorno al volto e si diresse fuori dal ventre della lumaca nera.

I suoi passi rimbalzavano sulle pareti morte di quell'edificio. Ridotto a scheletro di sé. Senza l'anima che, così viva, aveva affollato il suo fratello maggiore nella notte precedente. Dove la ragazza che non poteva parlare aveva strappato un pezzo di cielo dalle mani del fato. E intanto aveva già riversato i suoi pensieri nelle strade deserte di quella piccola città. I lampioni ancora accesi. La luce calda che da loro proferiva si mesceva col violetto del cielo terso ancora un po' sporco del blu della notte.

Troppo in fretta si mosse verso quella strada in salita che da bambina amava percorrere. Gli alberi di cedro spogli dei loro frutti. Il boschetto scarno emanava un sentore di morte sopita. E l'idea che ancora echeggiava nel suo cranio si faceva sentire sempre più forte e violenta. Le dava la nausea. E se fosse stata errata? No. Non era possibile. Il problema era…che era vera. Così. Era venuta lampante e aveva posto una risposta, amara, a tutti i quesiti. Tutti i quesiti che non aveva potuto formulare. Perché lei non poteva parlare.

Una lacrima scivolò solitaria lungo la guancia gelandosi nell'alito freddo del mattino.

E lei continuava a camminare. L'idea era diventata certezza. La certezza era diventata verità. La verità era diventata realtà. E la realtà era dura. E amara.

Ma come si sa, la medicina migliore è sempre la più amara.

O almeno è quello che si dice.

In fondo alla strada sterrata c'era la sua realtà. Non poteva ancora vederla. Ma la avrebbe vista presto. Il fianco di quel tappeto acciottolato che le pizzicava i piedi sotto la suola delle scarpe era cinto da un basso muretto di pietra. Oltre, si estendeva l'uliveto. Proteso come una foresta di mani dannate verso il cielo del paradiso sopra di loro. L'altro fianco veniva mangiato sempre di più dal bosco. I rovi stavano cominciando ad invadere terre straniere. Il verso degli uccelli nascosti tra quei rami minacciava rappresaglie agghiaccianti.

D'altronde si sa.

La morte ha sempre fame.

La ragazza che non poteva parlare si strinse nel mantello. Presto la realtà l'avrebbe scaldata. La fine della strada segnava la nascita di un piccolo edificio. Basso. Bianco. Nulla di strano. Una minuscola costruzione ottagonale scarsamente curata. La percorse sul fianco scivolando attraverso le spine dei cardi e i rami dei pini. Raggiunse il suo obiettivo. Un basso porticato. Piccolo. Miseramente piccolo. Che si affacciava sul mare. Un mare accarezzato dalla luce lilla del mattino. Un mare dormiente sotto la bruma della notte. Avvinghiato ad essa, nel waltzer eterno del sorgere e del calare del sole. Eternità. Questo sentiva la ragazza che non poteva parlare in quel momento. Un profumo di eternità. Il suono delle onde si infrangeva sulla roccia della scogliera sotto di lei. Il bruno rossiccio della pietra erosa dal vento accoglieva in un abbraccio l'irruenza di quell'acqua cristallina eccitata dalla schiuma dell'onda. La ragazza che non poteva parlare si portò accanto ad una colonna. Abbracciando con lo sguardo tutto quello che poteva vedere. E sentire. Il rumore dell'acqua che si agitava prigioniera in qualche grotta sotterranea. Il fruscio degli aghi di pino dietro e attorno a lei. Lo scricchiolare dei cardi e del vento tra le spine. Come un lamento di dolore. Il vento. Il vento che giocava. Arrotolandosi attorno alle colonne di quel misero porticato e poi giù. A rotta di collo tra le alte scogliere. Il vento le increspava i capelli. Le sussurrava dolci parole e striduli inviti.

O stridule parole e dolci inviti.

Allungò le braccia. Abbandonandosi al contatto con quella non - materia fatta di tutti i suoi sogni. Cavalcandola. Scoprendo con lei il brivido della rincorsa in una gelida mattina d'inverno. L'arrivo era lì. Un algido abbraccio attorno alla sua figura. La ragazza che non poteva parlare ora poteva sentire. Sentire, si.

Non le parole degli altri. Ma quelle che aveva dentro. Non le aveva mai sentite così chiare e limpide. L'acqua attorno a lei la cullava, facendola sprofondare nella sua essenza. I pesci che con lei condividevano la sofferenza di un mondo di silenzi la acclamavano una di loro. Era quella la verità. La realtà. La luce lilla sciamava in un bianco grigiastro. In quell'alone di luce che lentamente veniva assorbito dal blu. Che piano piano diveniva nero. Il bianco delle sue mani risplendeva come superficie di perla. I capelli si protendevano verso il silenzio cercando il ripensamento aggrovigliandosi attorno al suo collo. Il suo collo ancora avvolto nella stoffa pesante della sciarpa scura che lentamente si scioglieva. E lentamente scivolava via. Verso la salvezza. Verso quel punto di luce bianca che lentamente e inesorabilmente diminuiva sempre più la sua ragione d'essere. D'esistere. La ragazza che non poteva parlare chiuse gli occhi. Il gelo che provava si mischiava con la consapevolezza. E, forse per reazione chimica o per convinzione propria, sprigionava un calore che non aveva mai provato. I suoi innumerevoli sospiri sparsi nell'aria grigia della sua città le parvero mille anni luce lontani. E forse uno spreco. Ma ora no. Nessuno glieli avrebbe più portati via. Ora sarebbero stati suoi. Suoi e di quel mondo.

Quel mondo suo. Ora suo. Chiamato realtà.

La realtà era che lei non poteva parlare.

Già.

Non poteva.

Non poteva parlare.

O almeno…

Era quello che credeva fino a quando quel sospetto non la fece sussultare.

Il sospetto è come un tarlo nel legno.

Non era lei che non poteva parlare.

Era il mondo.

Che non la poteva ascoltare.

 

  
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