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Autore: Iridia    18/02/2016    1 recensioni
Gli alunni dormono nelle camere dell'hotel, sfiniti dall'intensa giornata passata a visitare la città. Le uniche anime sveglie nella notte gelida sono Nakamura, una coperta sulle spalle, ed il professor Tahara, gli occhiali ed una sigaretta tra le labbra.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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太原先生の仮面
tahara-sensei no kamen

La maschera del professor Tahara


Per quanto tempo avessi lasciato che il mio corpo si raggrinzisse sotto l'acqua bollente della doccia, non riuscii a lavarmi di dosso l'enorme stanchezza che fin dall'arrivo in hotel aveva appesantito non solo i miei movimenti, ma anche la mia mente, offuscandone i pensieri ed impigrendomi. Il tempo datoci prima di essere richiamati per la cena mi parve passare talmente in fretta da farmi dimenticare di aver speso dieci minuti immobile sotto l'acqua, così tornai presto a desiderare un'altra doccia, quasi come se la prima non fosse mai esistita.

Le mie mani persero velocemente il loro calore e prima di arrivare nella sala da pranzo furono gelide. Nei corridoi decorati con quadretti di paesaggi rurali, il freddo sembrava penetrare dalla moquette ingrigita, percorrere silenziosamente gli spazi ed avvinghiarsi alle membra.

Che genere di condimento avessero usato sulla pasta fu un interrogativo a cui, nonostante fosse condiviso da tutti noi studenti, non dedicai più di qualche istante di attenzione. Mi impegnai piuttosto nel trattenere il calore del mio corpo all'interno della tuta da ginnastica, misurando i movimenti in base a quanto freddo avrei sentito una volta compiuti. Non fui coinvolto in conversazioni, e le poche che riuscii a percepire erano prive di entusiasmo, parole che risuonavano lontane quanto i rumori della stada in quella giornata di pioggia. Al nostro ritorno in camera trovammo un leggero tepore, ma i letti rimanevano freddi, e le lenzuola ruvide. Nessuno di noi aveva l'energia di parlare fino a notte fonda, né qualcuno propose di andare nelle stanze delle ragazze dopo l'ordine del professore di spegnere le luci. Ci comportammo semplicemente come gli studenti diligenti che fingevamo di essere tutto l'anno.

Le camere si fecero buie e l'unico rumore che rimase fu lo scroscio infinito della pioggia. Le coperte pesanti premevano sul mio petto, il cuscino era fin troppo sottile ed i brividi non smisero di tromentarmi. Correvano lungo le mie membra come piccoli insetti dalle innumerevoli zampe di ghiaccio che improvvisamente, dopo avermi attraversato, mi lasciavano, svanendo nell'oscurità umida della stanza. Fu principalmente per quel motivo che decisi di alzarmi, nonostante tutti i muscoli mi stessero pregando di riposare. Presi la chiave magnetica e portai con me una coperta, la più leggera, e me la misi sulle spalle come un mantello.

Il corridoio su cui la camera si affacciava era piuttosto largo e finiva su un balcone riparato dalla pioggia, accessibile tramite un'ampia portafinestra. Incurante del freddo, mi ci sedetti davanti, così vicino al vetro che il mio respiro vi si condensò sopra.
La pioggia continuava a cadere incessante da un mare oscuro che si estendeva sulla città e di cui non riuscivo a percepire i confini. A differenza del mio corpo, a quell'ora la mia mente era sveglia, frizzante, stimolata dalla bellezza della notte. Mi persi ad ascoltarla, a guardarla come se fosse un'opera d'arte nel museo più bello al mondo e, lasciata anche la concezione del tempo, mi ritrovai a fantasticare su questioni che mai avevano sfiorato il mio immaginario, e finii per dipingere scenari di un futuro prossimo che non sarebbe mai esistito.

Il rumore di una porta mi fece trasalire e mi portò a cercare disperatamente una scusa plausibile da poter usare con chiunque mi avesse visto in quello stato; rannicchiato davanti ad una finestra, a notte inoltrata, con una coperta di pile sulle spalle e diciott'anni rinchiusi nel corpo ancora esile di un ragazzino.

Rimasi pietrificato nel vedere uscire il professor Tahara. Una sigaretta tra le labbra, l'accendino e la chiave in mano, una giacca a vento aperta su una maglietta bianca e dei pantaloni di tuta larghi. Non lo riconobbi immediatamente, perchè oltre ai vestiti in cui non ero abituato vederlo, aveva un altro particolare che attirò la mia attenzione. Erano occhiali dalla montatura leggera, le lenti rettangolari erano contornate nella metà inferiore da un filo d'argento, e le aste sottili sparivano tra i capelli, che tali alla notte, catturavano tutta la luce come un oceano senza fondo. Trattenni il respiro, ritardando il più possibile il momento in cui i suoi occhi si fossero posati su di me ed il suo volto si fosse fatto duro come marmo, severo come la scultura di un imperatore.
Inevitabilente, il suo sguardo mi piombò addosso, ed assieme ad esso anche un enorme senso di colpa mi paralizzò. Fu stupito di vedermi, ed allo stesso tempo terribilmente seccato, tanto che la sua voce, nel chiamare il mio cognome, mi parve fatta dello stesso gelo in cui tutto l'edificio dormiva. Tentai di alzarmi, ma gli arti indolenziti mi tradirono e finii per ondeggiare goffamente nel tenzativo di riprendere il controllo del mio corpo. Nel mentre, mi pose la domanda più ovvia a cui avessi potuto pensare.

«Che cosa stai facendo?» chiese togliendosi di bocca la sigaretta che indipendentemente da i problemi che avrei potuto causargli, sapevo fosse intento a fumare comunque.

Balbettai di aver avuto freddo e di non essere riuscito a prendere sonno e finalmente, appoggiandomi con una mano al vetro e tenendo con l'altra la coperta sulle spalle, riuscii ad alzarmi. Pensai, nella mia ingenuità, di essere stato piuttosto esaustivo e convincente, ma dallo sguardo che mi giunse, capii di aver sbagliato qualcosa, e persi così la speranza di poter rimanere ancora del tempo fuori dalla mia stanza.

Ma il professore si diresse verso la portafinestra e, senza più guardarmi, uscì, creando per qualche secondo uno squarcio nel suono ovattato del corridoio. Appoggiato al muro e con gli occhi fissi nell'oscurità, si accese la sigaretta, mentre io, indeciso sul da farsi, rimanevo in piedi a fissarlo. Non sapevo niente della vita di quell'uomo al di fuori della scuola; era giovane sì, ed era severo, ma le sue lezioni erano affascinanti, e nonostante prendessi pochi appunti, questi erano sufficienti perchè capissi. Mentirei se dicessi che non avevo mai pensato a lui. Il suo atteggiamento distaccato, eppur stranamente confortante in caso di bisogno, il sorriso che avevo visto colorargli le labbra un'unica volta e quell'incredibile capacità di cogliere i segnali dei propri studenti erano tutti fattori che mi intrigavano ed alimentavano la mia inspiegata curiosità nei suoi confronti. Una parte di me perciò decise di tornare a sedersi, e di osservare non più il cielo e le luci della città, ma la sua figura rivolta verso l'orizzonte. Mi dimenticai anche del freddo, certo, in camera avrei trovato il riscaldamento, ma quella di tornare era una richiesta del mio corpo soltanto e già più volte quella notte avevo deciso di ignorarlo.

Espirata l'ultima boccata di fumo, il professor Tahara spinse con delicatezza il mozzicone nel posacenere fissato alla parete e, facendo per aprire nuovamente la porta, notò non solo la mia presenza, ma anche il mio sguardo.

«Sei ancora qui? Torna a letto» fece dopo essere rientrato, portando con se un soffio d'aria gelida e l'odore di sigaretta. Ancora una volta, mi alzai in piedi, ma non riuscii a guardarlo in volto mentre pronunciavo la mia richiesta di rimanere ancora un poco, finché non mi sarebbe tornato sonno, davanti al balcone. «La mia camera è molto vicina» e girandomi leggermente, indicai la porta a qualche metro dalle mie spalle, quella all'altezza della stanza del professore.

Attesi di essere ripreso, ed invece, udii i suoi passi allontanarsi. Tahara inserì la chiave magnetica nella serratura e prima di abbassare la maniglia mi rivolse un inaspetato invito:

«Entra, ti preparo del thé.»

Questa volta, nessuna parte di me fu contraria alla mia decisione di accettare. Portare la coperta sulle spalle, durante quei pochi passi che mi dividevano da lui tuttavia, divenne estremamente imbarazzante. Ma il professore tenne la porta aperta per me, ed una volta tolte le pantofole mi affrettai ad entrare, poiché la stanza era avvolta da un tepore che nulla aveva a che vedere con quello che mi aveva accolto dopo cena, ed io non volevo certo dissiparlo nel corridoio. Era una sensazione ristoratrice, come sedersi al kotatsu dopo aver camminato nella neve. Improvvisamente mi accorsi di quanta stanchezza avevo accomulato addosso e quanto, in effetti, dolessero i miei arti. La stanza era arredata in stile occidentale ed era molto più grande di quelle adibite agli studenti.

Mi disse di sedermi ed io obbedii. Notai solo in quel momento l'enorme finestra che dava sullo stesso panorama che avevo ammirato dal corridoio; non vi era alcun terrazzo e non era possibile aprirla, ciò nonostante trovai in essa molto più fascino. Entrava poca luce, sufficiente perchè potessi vedere le sagome degli oggeti, troppo poca perchè potessi scorgerne i dettagli o intuirne i colori.

Il professor Tahara intanto si era tolto la giacca ed aveva riempito ed acceso la teiera elettrica. Guardai le sue dita bianche e sottili posare due bicchieri e il contenitore del thé sul tavolino al quale ero seduto.

In quel momento mi parve estremamente giovane, come un ragazzo della mia età il cui fisico atletico era nascosto dalla larga t-shirt. Non era l'altezza che ci differenziava, né il colore degli occhi o dei capelli, bensì i movimenti, gli sguardi. Tutto nel suo portamento aveva l'aria di essere stato misurato, calcolato e ripetuto più volte per essere perfezionato.

«Hai ancora freddo?» chiese, guardandomi con l'espressione che di solito usava quando uno studente in difficoltà, alla fine della lezione, gli chiedeva ulteriori chiarimenti in privato. La conoscevo, tale espressione, perchè anche io un poco spinto dalla mia curiosità, un poco effettivamente confuso, mi ero trattenuto, forse due o tre volte, nella speranza di poter capire qualcosa in più. Non era mai capitato però, che ottenessi informazioni veramente utili. Ma quella notte sperai, come più volte avevo già fatto, che le sue parole andassero oltre alla normale formalità.

«No, sto bene adesso, grazie.»

Mi preoccupai di suonare il più gentile possibile, non volevo che qualcosa, nell'atmosfera di pace in cui ci trovavamo, si rompesse. Era come cercare di conquistare la fiducia di un gatto di strada, evitando i movimenti bruschi ed i rumori improvvisi.

«Cosa hai intenzione di fare dopo il diploma, Nakamura?»

La domanda mi colse alla sprovvista. Sapevo bene cosa non avrei fatto, ma ciò lasciava comunque una varietà di opzioni troppo vasta perchè potessi trovare una risposta accurata. Nessuna passione aveva accompagnato la mia crescita come la musica fa con un musicista, o l'arte per un pittore, non facevo sport, leggevo sporadicamente e conducevo una vita insignificante assieme a quella dei miei genitori. Così quando dovetti consegnare il modulo a scuola, scrissi che avrei studiato per entrare all'università mostrando l'entusiasmo necessario, sia alla professoressa responsabile che ai miei genitori, per non essere sottoposto ad ulteriori colloqui. Ovviamente, il pensiero di continuare gli studi non era di mio gradimento, ma svolgere un lavoro pesante mi nauseava altrettanto.

«Studierò all'università, probabilmente»

«Cosa?»

«Informatica.»
Tahara rimase in silenzio ed io potei sentire il suo sospiro. Ero una delusione per tutti, ed in quel momento mi vergognai ancor più di quanto non facessi già con chiunque mi chiedesse del futuro. Avrei voluto chiarire, dirgli che quello cercavo era pace, un poco di libertà, un'occupazione che mi permettessere di regalare felicità. Invece, rimasi in silenzio a mia volta sperando che cambiasse argomento.

«Nakamura»

Alzai gli occhi ed incontrai il suo sguardo.

«Sono le due di notte ormai, e sei nella mia stanza. E' corretto da parte tua non dimenticare il mio ruolo di professore» disse prendendo la teiera e portandola sul tavolo.

Si sedette di fianco a me, così che entrambi fossimo rivolti in parte verso la città.

«Ma vorrei aiutarti, Nakamura. L'università non ti interessa, te lo si sente nella voce quando ne parli.»

«Non avrei alternative, professore. E' la strada che la mia famiglia ha scelto per me. Per l'immagine che ha di me. Ed io non posso far altro che fingere di essere d'accordo.»

«Hai mentito loro riguardo ad altro?»

Mi bloccai, la mano a mezzaria intenta a prendere il thè che Tahara mi stava porgendo. Sperai che il silenzio non tradisse la mia indecisione, e mi limitai a scuotere la testa stringendo tra le dita il bicchiere caldo nel tentativo di trovarvi conforto.
Avevo mentito su molto, e loro non avevano mai visto oltre la mia maschera. Ma come avrei potuto rivelare un tale aspetto di me ad un professore? Al professor Tahara, che aveva tormentato la mia curiosità, il mio immaginario e che rapiva il mio interesse in quel suo sguardo gelido?

«Anche io da giovane mentivo a mio padre. Tutt'ora mento a molte altre persone, e talvolta mostro un'immagine falsa di me. E' normale. Ma non puoi permettere che questo occluda la tua strada.»

«Lei mente?»

«E' normale. Tutti abbiamo una maschera che mostriamo al mondo.»

«E che maschera è la sua, professore?»

Pensai che mi sarei pentito di aver lasciato scorrere le parole così come nascevano dalla mia mente, ma quando, in quella luce fioca della notte, vidi Tahara sorridermi, mi sentii sciogliere nel profondo.

Era il sorriso gentile di un genitore ad una domanda assurda del figlio, ed io, nel mio briciolo di orgoglio, mi sentii terribilmente ingenuo.

«A che mi servirebbe una maschera se ti rivelassi la sua natura?»

Osservai la curva del suo collo mentre prendeva un sorso di thé fumante.

«Nakamura, è inutile che ti dica di non far parola a nessuno di tutto questo, vero?»

Annuii, incapace di volgere lo sguardo su qualunque altra cosa che non fosse la sua esile figura. Non mi accorsi di come il mio corpo si fosse progressivamente sporto verso la sedia del professore. Io volevo sapere, volevo essere guardato ancora. Gli avrei strappato un altro sorriso, un racconto della sua giovinezza; in me bruciava una determinazione inspiegata, brillava nei miei occhi e pulsava nelle mie tempie.

«E se io rivelassi la natura della mia maschera?» chiesi.

«Sarebbe ingenuo da parte tua. Dovrebbe esistere una persona soltanto alla quale vorrai mostrarti veramente, senza maschere. Certo, puoi mostrare parti del tuo volto se lo ritieni opportuno, facendo attenzione che tutto il resto sia ancora nell'ombra del tuo cammufamento.»

«Una sola persona?»
«Sì, esatto, una persona diversa dalle altre. Non un'illusione passeggera, né un amore giovanile.»

«Pensa che un'illusione non sia degna di vedere il mio vero volto? E se questa illusione fosse la persona diversa dalle altre?»

«Nakamura, le illusioni vengono definite tali perchè ti fanno credere ciò che non è vero.»

«E se si rivelassero la verità invece?»

«Non lo sono» sospirò il professore, incidendo una profonda pausa nel discorso.

Tahara si passò una mano tra i capelli scoprendo la fronte, e la sua espressione che poco prima mi era parsa serena, si fece nuovamente dura. Il suo sguardo si perdeva al di là della pioggia, nei vicoli della notte che non conoscevo, e correva, si allontanava sempre di più, mentre io ragazzino impotente, lo osservavo scivolare via.

Fui assalito dalla frustrazione e l'avidità mi spinse oltre il limite dell'opportuno.

«Professore io-»

«Finisci il thè, è tardi.» mi interruppe senza degnarmi di uno sguardo.

Attesi invano una sua parola gentile, il bicchiere ancora tra le mani, ma Tahara rimase immobile, lì in quella sua dimensione distante che tanto odiavo.

I miei sorsi risuonavano nel silenzio, e mentre bevevo, più guardavo la sua immagine più essa diveniva irreale; fu come osservare la realizzazione di un quadro impressionista dai colori sbiaditi. Posai il bicchiere sul tavolo e mi alzai.

Ringraziai per la bevanda con quel filo di voce che ancora mi rimaneva, poi con il mio mantello caldo sulle spalle, mi diressi verso la porta.

Il professore mi fece strada ed aprì.

La notte ebbe un effetto strano, forse fu il thè o la pioggia, perché in quel momento sentii un impulso, o più precisamente una necessità, che non volevo, né potevo, ignorare. Non posso dire di esser stato io ad aver agito in quel modo, fu come se avessi osservato la scena dall'esterno, combattuto tra la mia amata razionalità ed un istinto pericolosamente gradevole.

La mia mano tolse la maniglia dalla presa di Tahara e la spinse via, socchiudendo la porta. Mi avvicinai finché a dividerci non furono solo una decina di centimetri.
Colmai la distanza tra i nostri volti con un bacio leggero, morbido come una carezza sulle sue labbra sottili. Poi, silenzio.

Mi sorpresi nel trovare Tahara ancora immobile, l'espressione dura di sempre e lo sguardo gelido nei miei occhi. Non aveva reagito in alcun modo.

Sentii crescere il panico e le gambe tremare. Il cuore inizò a battermi nel petto risuonando nelle tempie e coprendo il silenzio.

Abbassai la testa soltanto quando i miei occhi divennero umidi, come per scappare dal delitto che avevo appena commesso.

«Mi scusi» sussurrai.

Non ottenni risposta. Mi sentii spezzare in una miriade di frammenti.

Avevo rovinato tutto, avevo posto fine al mio sogno ad occhi aperti, alla mia curiosità irrazionale che proteggevo gelosamente da anni. Non doveva andare così, eppure era stato il mio corpo a muoversi, ero stato io a colmare la distanza tra me e la mia illusione.

Perso nella confusione dei miei pensieri, appoggiai la fronte sulla spalla di Tahara.

Lo sentii sospirare. Sì, lo stavo facendo apposta, se quella doveva essere l'ultima volta assieme a Tahara, allora avrei sfruttato a pieno quei pochi secondi che mi dividevano dall'odio che avrei provato per me stesso una volta chuisa la porta alle mie spalle.

«Nakamura.»

Mi prese delicatamente per le braccia.

Nel sentire il mio nome pronunciato dalla sua voce così calma, in tono quasi accondiscendente, rabbrividii ed instintivamente spinsi il mio volto più forte nell'incavo del suo collo.

«Mi dispiace. Mi … dispiace davvero professore.»

Strinsi i pugni in un'attesa disperata di una risposta. Ma fui l'unico a parlare, Tahara non disse nulla, e soltanto allora mi allontanai, gli occhi sempre rivolti a terra, il volto nascosto dai capelli. Indietreggiai finchè non sbattei contro la porta.

«Mi dispiace, la prego...» sussurai. Era arrivata anche la paura, il terrore che quel bacio potessere essere motivo di provvedimenti disciplinari. La scuola avrebbe chiamato i miei genitori, tutti sarebbero venuti a sapere del mio gesto. Io, un ragazzo, che bacia un professore, di notte nella sua stanza. Ero finito, completamente distrutto, la mia carriera, la mia reputazione, la mia vita finiva con un solo misero bacio dettato dalla follia della stanchezza e della pioggia.

«Nakamura vai.»

«La prego...»

«Vai.» fu il suo ultimo ordine.

Mi riscossi, e la sua voce, ferma e gelida, risuonò nella stanza come un tuono.

«Sì... Sì, mi scusi.» e scalzo, uscii, dimenticando le pantofole di fronte al luogo del mio delitto.
 

Scusate, non concludo niente con tutto questo, ma se per caso siete arrivati a leggere fin qui vi ringrazio del vostro tempo, lasciate un commento qualsiasi e fatemi sapere cosa ne pensate e cosa migliorare, grazie!

 

   
 
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