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Autore: Maskul93    18/02/2016    0 recensioni
Un giovane biologo lascia scrive le sue memorie ripercorrendo la propria vita e ciò che lo sta spingendo al suicidio.
"Non è la Natura che fa la selezione, ma la selezione che fa la Natura."
Genere: Introspettivo, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vivere è morire.

 

 E dire che ci ero andato vicino. Sempre questa sindrome del 98% a bloccarti sul più bello, ad un passo dalla perfezione. Sei lì, ad un passo dalla ciliegina sulla torta e qualcosa passa e te la porta via, come un rapace che afferra la propria preda al volo con le zampe.

Chi l'avrebbe mai detto che il mistero della vita fosse qualcosa di così ovvio? O, più che ovvio, qualcosa di così stupido. Siamo l'unica specie e dico L'UNICA che non è riuscita ancora a capirlo. Sponsorizziamo la nostra presunta superiorità sugli altri esseri viventi in tutti i modi possibili. Esaltiamo tutto ciò che a noi, e solo e soltanto a noi, sembra essere un altro passo verso la Verità. Fin'ora, fino a questo momento in cui io, unica persona ad aver scelto il giusto verso su cui percorrere la via per la Verità, non ci si è resi conto che abbiamo camminato come gamberi, al contrario, intenti a fissare davanti a noi quando bisognava guardare indietro. Molto indietro.

La vita virtuale, i Social Network, l'istantanea e continua interazione di miliardi di individui contemporaneamente. Stronzate.

La grandezza, il potere, quel Bigger is better made in USA che tanto ci piace e ci fa sentire meno piccoli. Stronzate.

Il dominio sulla natura, le grandi infrastrutture, le auto, gli aerei, i treni e gli shuttle. Stronzate.

Percorrere una vita di sacrifici, lavori, perdere gran parte della propria esistenza per cercare di guadagnare dei pezzi di carta che noi stessi abbiamo inventato e che ci uccidono o ci fanno vivere: selezione innaturale.

Darwin aveva sbagliato un po' tutto, anche se era colui che ci aveva visto meglio di tutti. Su una cosa si sbagliava di netto: non è la natura che fa la selezione naturale, ma è la selezione naturale che fa la natura.  Lo so, non avete capito un cazzo. Ed è per questo che vi lascio questi fogli. Li ritroverete non appena mi punterò questa bella calibro 45 alla tempia, premerò il grilletto e sentirete un suono sordo e cupo. Il suono che vi risveglierà.


Bene, siccome sto per lasciarvi in eredità la più grande e sensazionale scoperta dalla storia dell'uomo così come lo conosciamo, è bene che sappiate chi sono o, meglio, perché mi sto spingendo a tanto pur di passare alle masse una verità. Ma che dico? La Verità.

La passione per la biologia mi venne a causa dell'ambiente in cui vivevo, San Prete Abate, nel Sud Italia, un paese così sperduto che se lo cercate su Google questo vi risponderà «Forse stavi cercando: nulla cosmico». Un paesino piccolo, troppo piccolo, di vedute piccole, con gente piccola e ambizioni più o meno della stessa entità di ciò che restituisce Google quando ne digiti il nome. Una Aci Trezza nel XXI Secolo. La differenza è che ad Aci Trezza di Malavoglia ve n'era una sola di famiglia, mentre a San Prete Abate lo erano tipo tutte. I vinti, tanti vinti, tutti vinti. Di una mentalità profondamente cattolica, al primo segno di un cambiamento evidente di una qualsiasi situazione che riguardasse una qualsiasi cosa che esentasse l'essenza stessa della staticità, ci si tirava indietro o, peggio, si cercava di abbattere quest'onda di novità a suon di ignoranza e disinformazione. 

«La colpa è dei neri.» Ed ha un cognome straniero.

«La colpa è della musica che ascoltano.» Ed ascolta Gianni Celeste. 

«La colpa è degli spacciatori.» E suo figlio spaccia e mi vende l'erba.  

«La colpa è della televisione.» E guarda Uomini e Donne. 

«La colpa è dei videogiochi.» E spende i soldi per pagare il mutuo alle Slot Machine.

V'era la parvenza che ci fosse un non so che nella mentalità comune nell'accettare che gli altri (paesi, città o stati aveva poca importanza) andassero avanti solo per avere la scusa di lamentarsi che qualcosa, lì a San Prete Abate, non andasse. Avere la possibilità di dire la fatidica frase «E che dobbiamo fare? È sempre stato così.» 

Mi ricordo che mi trovato al catechismo, costretto come molti ad andarci controvoglia e senza una spiegazione plausibile, anche se a dire il vero ancora non ho mai visto la notizia di qualche bimbo contento di avere la "possibilità" di andarci; forse su Lercio, un giorno. La catechista ci disse, quel giorno, di quanto fosse bello il Paradiso, e di tutte le cose belle che si devono fare e non fare per andarci. Poiché sono sempre stata una persona che trova davvero eccitante (uno psicanalista freudiano direbbe che ho subito qualche trauma di natura sessuale) mettere in dubbio le verità rivelate, non importa che si tratti di quattro fattoni che seimila anni fa hanno deciso di scrivere dei libri fantasy o della Costante Cosmologica di Einstein, chiesi alla catechista cosa ci fosse di così bello lì, e cosa si facesse tutto il tempo, per l'eternità. Pensavo: «Dopo un po' finiranno pure le cose da fare. Che noia dev'essere.» Lei, credo interdetta e anche un po' incazzata per una tale insinuazione, fatta oltremodo da un bimbetto di poco più di otto anni, rispose che si «Pregava e contemplava il Signore.» Come se un bimbo di otto anni avesse la benché minima idea di cosa voglia dire la parola Contemplare. Il trucco per far sembrare una cosa sacra e vera è usare paroloni. Avreste dei dubbi se vi dicessi che esiste un aggeggio che porta la tensione da Alternata a Continua che si chiama Raddrizzatore a doppia semi-onda con alimentazione a presa intermedia? Ecco. Contemplate pure.

Comunque, al di là di tutto, rimasi stupito di tutto ciò, al che infatti non dissi nulla, feci silenzio come poche volte mi è capitato. Dentro di me si faceva largo sempre di più una vocina che diceva «Ma è impossibile che sia davvero tutto così noioso lì!» Così decisi, via via che crescevo, di cercare altrove le mie risposte, alternative a paroloni come Contemplazione o Signore con la S maiuscola. Che poi, perché con la S maiuscola? Non diceva che eravamo tutti uguali?

La mia famiglia rimase ovviamente sconvolta dalla mia insinuazione, che ovviamente da subito si venne a sapere per tutta San Prete Abate, rimproverandomi a riguardo della mia insubordinazione e mi disse, chiaro e tondo, che non averi dovuto farlo più. Mi hanno chiesto, in pratica, di non domandare, di non nutrire dubbi, di non essere curioso, la quale è la cosa che fa di un bambino se stesso. Mi hanno chiesto di essere un adulto a otto anni.

Ovviamente un bambino che fa? Il contrario di quello che gli si dice di fare. Fu così che, con l'innocenza di un pargolo incominciai ad appassionarmi alle scienze. Quando a scuola, in terza elementare mi pare, la maestra spiegò la Teoria del Big Bang ne rimasi totalmente affascinato. Adesso ditemi voi: cosa c'è di più figo nell'affermare che tutto, TUTTO, la materia, l'antimateria, le stelle, i pianeti e gli asteroidi ha avuto origine da una gigantesca, enorme, gargantuesca esplosione partita da una singolarità infinitamente più piccola della cosa più piccola che riusciamo ad immaginare?! È logico che appaia tipo 13.82 miliardi di anni di volte più accattivante, o quantomeno provata, di un tipo che, preso da non si sa quale tipo di noia, ha perso sette giorni della sua vita. 

Ora che ci penso era in Paradiso. Almeno si spiega la noia. 

Nonostante tutte le avversità, l'ambiente del paese che non permetteva granché oltre alla partita a pallone dall'alba al tramonto in un campetto quantomeno abusivo, in cemento, le porte arrugginite così come le reti strappate di forza per entrarci senza pagare, qualche sigaretta fumata di nascosto in posti così isolati che il giorno dopo già si sapeva persino il la marca delle sigarette che avevi comperato, e le compagnie che quando ti sentivano dire parole come ovvio o Darwinismo per poco non ti buttavano giù dalla vallata di San Prete, passai un'infanzia tutto sommato felice. Riuscii perfino a fare tutta la trafila Confessione-Comunione-Cresima, segno che al Signore con la S maiuscola non è che importi troppo di chi sia suo follower o meno. 


L'adolescenza a San Prete passò via lenta e piena di tutti quei passatempi che fanno sì che la gente non viva fino a centoquaranta anni. Sigarette, ettolitri di birra, partite su partite su partite a PES. Ero riuscito anche a giocarci online con la PlayStation, col DVD tarocco, ovviamente, fosse mai che spendere 80€ per un gioco che l'anno dopo avrà solo qualche calciatore nella squadra giusta sia una buona idea. Comunque era una roba che ai tempi apparivi agli amici come Re Artù quando riusciva ad estrarre la spada nella roccia e contemporaneamente avevi ai loro occhi anche i poteri magici di Mago Merlino. Tutti che volevano usare il mio profilo online, casa mia ricolma di coetanei tutto il pomeriggio, sin da poco dopo pranzo. I miei ovviamente si preoccupavano delle bollette della luce, piuttosto del fatto che non studiassi manco a pagarmi. 

L'unica cosa che cambiò in quegli anni, ad un ritmo forse mai visto prima da abitante alcuno, fu l'orologio del paese, quello nella piazza principale. Scoprirono che qualche imprenditore dalle dubbie capacità, molti anni addietro aveva riempito di cemento armato la struttura portante mentre si accingeva ad un'opera di ristrutturazione. Un po' come se, per attaccare un quadretto alla parete, utilizzi un chiodo che pesa più della casa stessa. Dovettero smantellarlo per via della legge che, guarda un po', era cambiata. I progetti erano tanti, alcuni dei quali anche carini e ce n'erano certuni provenienti da architetti del paese e cert'altri provenienti da architetti di qualche paesino limitrofo. 

Senza che ve lo dica nemmeno, la folla reclamava a gran voce la vecchia costruzione poiché «Fa parte della storia di San Prete Abate.» e «È sempre stato così!»

Scartati preventivamente tutti i progetti dei forestieri, rimaneva da decidere quale di quelli appartenenti agli architetti del paese dovesse essere effettivamente approvato. Incredibilmente fu scelto un progetto alternativo, di stampo moderno. Poco incredibilmente, l'architetto era parente ad un assessore. Delle pale che facevano girare delle piccole sfere metalliche in maniera asincrona, alternativamente l'una verso destra, l'altra verso sinistra. La costruzione in sé era in stile gotico, con un arco a sesto acuto in cui era ubicato il quadrante luminescente. Il tutto di color rame ossidato, a parte il quadrante, fatto di un bianco opaco che da sul grigio, simile all'avorio.

Una vera schifezza.

Quasi a volermi costringere a dare ragione ai tradizionalisti.

L'obbrobrio, che nulla tra l'altro aveva a che fare con le architetture circostanti, il che ne faceva risaltare la bellezza intrinseca in una maniera esemplare, resse per qualche anno, fino al cambio dell'Amministrazione Comunale. Nella propria campagna elettorale, il candidato sindaco che poi sarebbe diventato tale, fece molta pressione sulla questione, che diceva di avere particolarmente a cuore, mentre, dall'altro lato, il sindaco allora reggente e la sua giunta usarono come cavallo di battaglia dei problemi reali che affliggono il territorio Sanpretese; problemi che tra l'altro avevano creato loro negli ultimi dieci anni.

Tanto fu, che venne ripristinato il vecchio orologio, rettangolare come dev'essere, di mattoni sabbiati in maniera eccezionalmente fine, piuttosto scarno, ma imperante sulla piazza, col suo meccanismo ad ingranaggi originale e con i suoi tre imponenti, tondi e bianchi quadranti, ognuno dei quali faceva, fa, e farà segnare tre orari diversi. Tutti e tre sbagliati.  

«Almeno è meglio di quello di prima.» È la frase che mi sento dire più spesso, anche se non ho mai capito il motivo per cui se una cosa imperfetta è migliore di un'altra, anch'essa imperfetta, la prima non si dovrebbe provare a migliorare. E dire che basterebbe un trasformatore con una batteria da tre euro l'uno. Forse è troppo.


La mia famiglia, comunque, non riusciva a capacitarsi del perché avessi tutta questa sete di conoscenza. Volevo scoprire roba, tutto qui. La psicologia inversa funziona spesso: l'importante è che ti diano consigli sbagliati da bambino. Credo che la vita sia fatta di fasi, le quali possono variare al variare della società in cui l'individuo vive, ma che comunque stanno a rappresentare sempre e comunque gli stessi comportamenti, con le varie sfumature annesse e connesse. Per un genitore credo che la fase più fastidiosa, anche se al contempo quella paradossalmente più bella, sia quella in cui l'allievo supera il maestro, cioè quando egli si rende conto che effettivamente il proprio figlio ne sa più di lui. Vuol dire che ha fatto un buon lavoro sul suo ormai fu pargolo, ma che, forse, nella stessa misura, non ha fatto altrettanto con se stesso. Vuol dire che delle esperienze avute, vissute, è riuscito a conservare poco ed è riuscito a sfruttare meno della metà di niente. Più tardi si arriva a questo punto, ovviamente, meglio è per il genitore. Ma ciò può anche semplicemente voler dire di avere un figlio stupido.

Il trucco sta nel continuare a crescere di pari passo con il proprio figlio, non attaccandosi al passato, vivendo il presente e guardando al futuro. Nel mio caso particolare, quello di padre della mia teoria, della mia e di voi tutti Verità, il mio passato è la mia opera e i miei pensieri, il mio futuro è la storia, il mio presente è la pistola che sto puntandomi alla tempia scrivendo queste righe. 

Immaginate i miei, credenti e chiusi al punto giusto da farmi pesare qualunque mio risultato poco al di sotto della media, inconsci del fatto che loro, probabilmente, mai e poi mai avrebbero potuto neanche sognarsi di raggiungere i miei risultati. Non per i soldi, né certamente per la stupidità che non gli compete in fin dei conti, ma per la sola incapacità di liberarsi delle catene fatte di pregiudizi che cingono e proteggono San Prete Abate dal mondo di fuori, quello reale.


Fu così che, dopo essermi liberato dalle mie di catene, me ne andai da San Prete, direzione Gomito, cittadina del Centro Italia, iscrivendomi a Scienze Biologiche. Togliendoci il Big Ben, il Tamigi, la Regina Elisabetta, i poliziotti a cavallo e gli inglesi, e lasciandoci solo la pioggia, è praticamente Londra. Piove. Sempre. Col Sole, le nuvole, di giorno, di notte, d'estate, e d'inverno. Non capisco ancora come non marcisca sotto il suo stesso peso. D'altro canto è la città ideale per lo studio. Nessun bar dove tracannare birra, difficoltà nel trovare uno che ti vendesse erba, gente splendidamente inserita nella macchina del lavoro, così mimetizzata nella propria formalità che quasi non riconoscevi la persona al di fuori della sua area di competenza lavorativa da quella reale. Probabilmente neanche loro si rendono conto di essere simpatici come un tumore al retto. Il mondo del lavoro ti spinge a questo. E l'Università, forgiando automi umani proiettati direttamente nel mondo della precarietà lavorativa, deve garantirti un ferreo allenamento. Passi otto ore di tutte le tue giornate per cinque anni o più a leggere e ripetere, leggere e ripetere, spesso senza nemmeno capire. All'azienda interessa ovviamente uno che sappia leggere e ripetere, eseguire insomma, non uno che capisca cosa sta facendo, magari rischiando di rendersi conto che sta eseguendo azioni da ebete come passare dei codici a barre o saldare per quaranta anni un pezzo di ferro sempre della stessa forma. La gente non vuole rendersene conto, ne va della propria sanità mentale. E chi lo fa, finisce col culo per terra nel migliore dei casi. Che statisticamente non si verifica mai. Leggi e ripeti.

La società è un organismo e, come tutti gli organismi, per crescere, modificarsi, vivere ha bisogno di mangiare, di nutrirsi, di idratarsi. Nel fare ciò, ha anche bisogno di eliminare le scorie. Non importa cosa abbia mangiato, lei scarica nel water tutto ciò che gli è indigeribile e tira lo sciacquone, incurante di controllare se, magari, aveva ingoiato per sbaglio un diamante, che adesso è nella fogna, in mezzo ad un mare di merda.  

All'Università mi piaceva tutto quello che studiavo. Ogni esame del mio piano di studi mi affascinava in un modo o nell'altro: Citologia, Istologia, Chimica, Botanica, Genetica, per me non faceva differenza. Tutto bello, tutto aggiungeva qualcosa al mio schema di conoscenze. È questo che dovrebbe essere l'Università. Inghiottivo tutto, apprendevo e mi sforzavo di capire, e per questo non sono mai riuscito a prendere nessun 30, figuriamoci la lode, in tutta la mia carriera universitaria. Qualche 29 o 28, la sindrome del 98%. A me non importava comunque nulla del voto: è un numero assegnato da una persona che ha saputo applicare la regola del Leggi e Ripeti in maniera encomiabile la quale attesta, in trentesimi, la tua capacità di applicare la suddetta regola. A me importava capirla la Biologia, la Genetica, gli schemi Nucleotidici: tutto. E ce l'ho fatta, e voi lo saprete.

Il voto non fa la conoscenza. 

Leggi e ripeti. 


Gli anni all'Università furono un grande laboratorio per la mia mente non solo in termini puramente accademici, ma anche psicologici. Mi è sempre interessata la disciplina che studia i comportamenti umani, non da studiare per prenderci una laurea ed analizzare casi umani per professione, ma per farne tesoro personale e usarla contro chi mi pare e piace. Per esempio, ho notato che tutti hanno fede in qualcosa. Tutti hanno uno scopo, un obiettivo, anche se magari è inconscio, anche se magari dicono di non credere in nulla e nessuno. Comprendere dove si vuole andare, avere chiara la propria vera missione, il proprio compito.

Solo che tutti brancolano nel buio di una caverna col potere assorbente di un Buco Nero. 

Quindi perseguono sì un fine, non il proprio, ma quello di un altro, qualcosa di così più grande di loro che non vi hanno alcun potere decisionale. D'altro canto può identificarsi in un Noi. Di cui realmente non fa parte, ma l'uomo è sostanzialmente stupido e non se ne rende conto.

«Noi abbiamo trentatré scudetti sul campo.» Sette o otto veri.

«La mia Nazione è la prima esportatrice di sistemi di sicurezza al Mondo.» Si chiamano armi.

«Il mio Dio è quello giusto.» Secondo te se ne frega della tua opinione?

Cose di questo tipo.

Questo mio studio, al di là di ciò, mi ha permesso di riflettere più a fondo sul perché di certi comportamenti umani. La cosa più interessante di tutte, forse, è stata quella di rapportarli ad altre sfere, quali soprattutto quella animale. Passavo ore e ore delle mie giornate totalmente alienato da tutto e tutti ad organizzare e riorganizzare i miei schemi mentali. Delle volte secondo me parevo fin troppo saccente, fino allo sfinimento, ma solo dopo essere uscito dalla mia personalissima Gabbia di Faraday fatta di pensieri.

«Io devo smetterla di venderti roba, tu mi stai a diventà scemo.» Diceva il mio spacciatore di fiducia mentre intascava l'ormai sua banconota da cinquanta. Uno pensa che chi fa quel mestiere, quello di vendere erba, sia una di quelle persone che ha capito come donare al prezzo giusto un po' di spensieratezza al prossimo, quando invece lo fa solo per la propria di spensieratezza. Economica.

Dovrebbero essere le persone più calme e tranquille al mondo, dei missionari della pace. Poi ti parlano di Patria e Nazioni e capisci che sono uguali a tutti gli altri. Il loro noi si chiama denaro.

Una tra le cose che mi lasciava sorpreso e che mi affascinava in queste analogie è che mi resi conto che tutti i comportamenti potevano essere scomposti induttivamente in azioni, in una serie Causa-Effetto apparentemente senza fine. Apparentemente.

Cosa succede se tagli un foglio di carta a metà ricorsivamente? Il matematico ti risponderà che l'azione continua all'infinito, poiché ti resta sempre un pezzettino infinitesimo di foglio da tagliare. Ma che cos'è il concetto di infinito se non l'essenza stessa della nostra incapacità di arrivare al fulcro di qualcosa? È la nostra Sindrome del 98% per eccellenza. Siamo lì, ad un passo, ma no, troppo difficile: infinito.

Ogni azione ha dunque, mi dicevo, un proprio scopo. Tante azioni formano un comportamento, avente esso stesso uno scopo, somma dei singoli scopi associati a ciascuna azione. Quindi, continuavo a ripetermi, più ci evolviamo, più alto sarà lo scopo. Più alto sarà lo scopo, maggiore sarà la complessità del comportamento. Maggiore sarà la complessità del comportamento, più non ci si capisce un cazzo. Si perdono le "origini". In un qualcosa di troppo complicato, cosa c'è di evolutivo se non lo si riesce nemmeno a comprendere?!

E andavo in paranoia, costretto a mettere su qualche puntata dei Griffin per riprendermi da quel tornado induttivo che erano i miei pensieri.


L'Università mi piaceva così tanto che al posto di metterci cinque anni per fare la trafila Triennale-Specialistica, ce ne misi circa sette. Arrivò anche per me, quindi, il momento di fare qualcosa di serio e scrivere la mia tesi. Di idee ne avevo, ma di professori pronti ad accettarle neanche l'ombra. Poi scoprii che alla facoltà di Ingegneria di Gomito si stava facendo festa perché un professore di fisica, tale Luca Giacometti, aveva brevettato con successo un microscopio capace di analizzare e scandagliare immagini ad una risoluzione di 0.003 nanometri. Il tutto a colori e con un sistema che permetteva di portare al computer le immagini ottenute ad una risoluzione standard di 640x480 pixel, tutto praticamente in tempo reale. Dicevano che col tempo avrebbero migliorato questa caratteristica. Magie del closed source. Così decisi di riporre le mie speranze in lui, facendo domanda di tirocinio sperimentale presso l'Università, per l'applicazione in laboratorio di questo tipo di nuova tecnologia. Inutile dire che la concorrenza era spietata, ma per fortuna Giacometti è un genio nella stessa misura in cui è fuori di testa. Non so come o perché, ma decise di accettare la mia domanda. Volevo studiare i batteri, tra gli organismi più semplici quelli che avevano il miglior rapporto cose di cui poter parlare-semplcità nello scrivere la tesi, e mettere quindi in relazione i miei trip serali induttivi con i loro comportamenti e le loro azioni. 

Poi si venne a sapere che Giacometti, in qualche modo, aveva rubato il progetto del microscopio agli Indiani. Lui venne arrestato e il microscopio venne messo sotto sequestro.

Per fortuna vostra mi ero già laureato. 


La tesi procedeva a gonfie vele, ogni giorno aggiungevo un'ulteriore tessera al puzzle. A poco a poco in me c'era però una sorta di angoscia sempre crescente. Mi venivano alla mente strani pensieri. E se fossimo gli esseri più stupidi? Se ci fossimo allontanati più di tutti dal nostro scopo?

Guarda quanti comportamenti inutili, quanta roba eliminabile. L'automobile, la casa, il lavoro fine alla sola produzione e al consumo, il mutuo, le grandi infrastrutture per far girare una macchina economica di cui nessun essere umano ha realmente il controllo. Eliminabile se si riuscisse a ridurre tutto all'osso. Alla radice. Al fulcro. Al nucleo.

Nucleo, ecco la parola giusta.

Nucleo.

O qualcosa di poco più grande: la cellula. Gli Eucarioti. I batteri.

Ecco che tutto tornava. Tutto.

Avete presente quella sensazione di impotenza completa di fronte ad una situazione su cui non possiamo influire minimamente? Sì, esatto, proprio come quando la vostra squadra prende gol al 90' e perde 1-0.

Siamo l'ultima ruota del carro, l'ultimo anello di una catena lunga milioni di anni di evoluzione al contrario.

La sensazione di superiorità che abbiamo nei confronti della Natura ci ha reso completamente ciechi su ciò che è la semplicità delle cose, della vita e dell'esistenza stessa. Ci ha fatto considerare, e continua inesorabilmente a farlo, tutto ciò che è intellettualmente meno evoluto di noi un qualcosa di meno evoluto alla vita. In fondo a qualunque cellula, tessuto, organismo, l'unica cosa che interessa veramente è vivere. È la selezione che fa la Natura. Se la Natura è così complicata da comprendere, diciamo che è anche un po' colpa nostra che gli diamo significati sbagliati. L'abbiamo complicata noi evolvendoci.

Più guardavo i batteri, più guardavo quella vera di evoluzione, l'eliminazione dei comportamenti dannosi alla vita. Alla fine resta una sola cosa, in fin dei conti. La riproduzione. Più si va avanti nella complessità di un dato organismo, più lo scopo della riproduzione appare sfocato, annebbiato. Noi abbiamo sviluppato, ad esempio, un meccanismo necessario a ricordarci che sia quello lo scopo: l'orgasmo. Se non fosse il suo essere il piacere massimo, pigri come siamo non ce ne ricorderemo nemmeno di riprodurci. L'abbiamo reso un qualcosa di così complicato nel tempo che ancora non esistono parole esatte per descriverlo razionalmente. Tanto complicato, per cui ne abbiamo dimenticato il perché: la vita. È lì l'evoluzione, la causa ultima, il dominio su tutto. Se ci focalizzassimo su noi stessi come specie e non come Nazioni, Popoli, Razze o Etnie, invece di pensare a emerite stronzate come l'appartenenza o meno a sottogruppi creati dalla nostra stessa mente, saremmo degli Dei in Terra.

Guardateli i batteri. Ere glaciali, asteroidi, grandi siccità, spostamenti dell'asse terrestre, e loro? Se ne sbattono, pensano al loro bene. Al bene della loro specie. Invece di farsi la guerra e ammazzarsi, quando qualcosa sembra non andare, toh, si masturbano e ne sono uno in più per risolvere meglio il problema. Divisione Binaria, se volete la versione romanzata.

Sono loro gli Dei in Terra da cui dovremmo apprendere. Gli Dei che dobbiamo adorare.


Allora, sfruttando il microscopio gentilmente resomi disponibile dal Giacometti, provai ad unire l'utile al dilettevole, spostando la mia attenzione sulla resistenza dei batteri agli agenti esterni che ne minano l'esistenza e dando prova della loro capacità di reagire come gruppo, facendo analogie con quanto detto in queste memorie. La mia voleva essere una tesi sperimentale in sulla Biologia, ed è diventata un trattato Socio-Psico-Biologico, con tanto di megamicroscopio di ultima generazione che sponsorizzava tutto meglio. Tutto ciò aprirebbe prospettive discrete per il futuro di un neo-laureato forse negli USA. A loro piacciono le cose un po' strampalate, o perlomeno gli danno fiducia, ed è forse per questo che sono ciò che sono. Ma alla discussione della mia tesi non c'era nessuno statunitense. Solo tanti altri abitanti di San Prete Abate, provenienti da tutta l'Italia. Voto 107/110. La sindrome del quasi 98%. Il mio voto fu questo. Ma il punto che più mi stava a cuore è che non mi è stata concessa la possibilità di pubblicazione. L'hanno concessa invece ad una studentessa che ha sfruttato i lieviti per diminuire il volume alcolico nel vino, per dirne una.

Ma io non mi diedi per vinto. La mia era un'idea che comunque, a mio parere almeno, poteva dire la sua in altri ambiti, poiché toccava più aree d'interesse.

«Non posso pubblicare la parola masturbazione. L'idea però non è male.»

«Non venderebbe.»

«Secondo lei noi siamo l'ultima specie per importanza? Lei è totalmente impazzito.»

«Giacometti è nostro avversario politico, non potremmo mai.»

«Lei è di un'altra Università.»

«Ma che ti fumi?!» Questo era il mio spacciatore.


E mi ritrovo con questo malloppo a girare in lungo e in largo per l'Italia nei weekend in cui l'Università è chiusa e non ho l'obbligo di lavorare alle mie stupide altre ricerche che non mi interessano nemmeno, ma che mi danno da mangiare. Un misero stipendio da ricercatore speso tra treni, pullman e penne a sfera per prendere appunti su appunti su appunti per provare a rendere appetibile la mia idea. Per renderla "vendibile", mi dicono. Che sarà pure pazza, malata, visionaria, ma è pur sempre un'idea. Lo scambio del sapere è potere. Ed ora veniamo al dunque, alla vendibilità massima di un'opera. Io vi ho dato la verità, e voi dovete venire a prenderla. Le frasi e i pensieri di un morto fanno più notizia di quelle di un vivo. Scandalizzano. Memoria Emotiva la chiamano. Ed è per questo che, all'ora di punta di una tranquilla e soleggiata giornata di Aprile, mi punto questa pistola alla tempia per farmi un buco in testa nel tentativo che, almeno così, riusciate a leggere i miei pensieri che coleranno sul pavimento.

Sporcheranno un po' a terra, mi dispiace per chi dovrà pulire. Adesso scannatevi pure per i diritti di pubblicazione.

Vivere è morire.

BOOM!

   
 
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