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Autore: SHUN DI ANDROMEDA    21/02/2016    4 recensioni
[KariyaMasakiCentric]
"Stancamente, Kariya si lasciò cadere dal letto – se un ammasso di coperte si poteva chiamare letto – e si diresse verso la piccola apertura che, dando sull'esterno, fungeva da finestra di fortuna: una debole luce e l'odore penetrante dei gas di scarico penetrarono all'interno assieme ad una folata di vento gelido che gli penetrò fin nelle ossa.
Mentre i suoi occhi si abituavano al chiarore del giorno, lo sguardo si spostò quasi automaticamente sul tavolino di fortuna proprio lì accanto, lo stesso dove faceva bella mostra di sé un consunto foglio di carta disegnato."
Genere: Fluff, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kariya Masaki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Inazuma Eleven GO!
Rating: Giallo
Personaggi/Pairing: Kariya Masaki, Kiyama Hiroto, Midorikawa Ryuuji
Tipologia: One-Shot
Genere: Sentimentale, Triste, Fluff
Avvertimenti: Dedicata a Vari China, maledetta tentatrice.
Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia, non mi appartengono.

PRIGIONIA

Quando Masaki aprì gli occhi, ad accoglierlo trovò il solito puzzo di fogna che impestava la sua tana.

Il ragazzino si stropicciò gli occhi nell'oscurità mentre sopra di lui si sentiva il tramestio della città in movimento, ignara della sua presenza al di sotto del manto stradale.

Stancamente, Kariya si lasciò cadere dal letto – se un ammasso di coperte si poteva chiamare letto – e si diresse verso la piccola apertura che, dando sull'esterno, fungeva da finestra di fortuna: una debole luce e l'odore penetrante dei gas di scarico penetrarono all'interno assieme ad una folata di vento gelido che gli penetrò fin nelle ossa.

Mentre i suoi occhi si abituavano al chiarore del giorno, lo sguardo si spostò quasi automaticamente sul tavolino di fortuna proprio lì accanto, lo stesso dove faceva bella mostra di sé un consunto foglio di carta disegnato.

Non sapeva neppure più da quanto tempo era che l'aveva fatto, quel particolare disegno, ma era forse una delle cose più preziose ancora in suo possesso.

Nel giro di una notte, Kariya Masaki aveva perso tutto.

Nel giro di una notte, Kariya Masaki si era ritrovato in uno stanzone buio che non gli apparteneva, che non ricordava neppure di aver mai visto, mentre i ricordi di quella che – ne era sicuro – doveva essere stata la sua vita vera lo tormentavano senza posa.

Non aveva più niente: si era improvvisamente ritrovato in quel tugurio lercio, con indosso abiti stracciati e luridi, da solo e senza più alcuno dei suoi amici al proprio fianco.

Masaki ancora non capiva come fosse stato possibile.

Ricordava distintamente di essere andato a letto tardi, la sera precedente, dopo aver dato la buonanotte a Hiroto e Ryuuji e aver finito i compiti per il giorno successivo, e al suo risveglio era lì.

Certo, aveva pensato alla possibilità di uno scherzo ma, una volta riuscito ad uscire da quell'intrico di cunicoli, si era ritrovato dinanzi ad uno spettacolo incredibile.

Se questo è un modo carino di Midorikawa per dirmi che sono disordinato, stavolta gli avveleno il tè!”

Gli abiti che aveva indosso erano lerci per aver strisciato attraverso i tunnel più sporchi della città – e le persone che incrociava per strada sembravano evitarlo per questo – ma Masaki continuava a correre indefessamente verso casa, prendendo strade a caso nel tentativo di orientarsi.

Non gli sembrava di conoscere quella zona.

Certo che si è proprio impegnato.” sbuffò ancora il ragazzo, girando l'ennesimo angolo e cominciando forse a riconoscere i dintorni: forse si stava avvicinando a scuola?

Allora devo girare qui!” esclamò tra sé e sé, prendendo una traversa laterale che, ricordava distintamente, fosse una scorciatoia per arrivare a casa: per quel giorno, al diavolo le lezioni e gli allenamenti! Avrebbe mandato un messaggio a Ranmaru più tardi.

Ma il cuore gli balzò in gola vedendo che, al posto della familiare villetta doveva viveva, c'era un palazzo cupo e fatiscente, dall'intonaco scrostato e dall'aspetto inquietante; restò senza parole per qualche secondo, cercando di assimilare l'accaduto, poi cominciò a guardarsi febbrilmente attorno: era vero che abitava da poco da quelle parti ma il quartiere era facilmente riconoscibile e non aveva dubbi sul fatto che fosse quello.

Ma la sua casa sembrava sparita nel nulla, fagocitata dalla realtà.

Sentendosi improvvisamente mancare la terra da sotto i piedi, Masaki cadde in ginocchio, ansimando mentre un vero e proprio attacco di panico sembrava averlo colto sul momento con la violenza prorompente di un vulcano in eruzione.

A fatica, riuscì a ricacciare indietro quell'ondata nera di terrore annidatasi nella sua gola e scattò in piedi, tremando e con le lacrime agli occhi.

Non poteva essere così, si rifiutava di crederlo.

Barcollando – e incurante degli sguardi di biasimo delle persone per la strada – si diresse verso il Sun Garden, desiderando risposte e pregando di vedere almeno il viso conosciuto di zia Hitomiko.

Lei non c'era, e neppure il Sun Garden.

Solo un lotto di terreno abbandonato laddove avrebbe dovuto esserci un cortile pieno di bambini urlanti ma comunque sereni.

Fu in quel momento che tutti gli argini si ruppero e Masaki Kariya si lasciò andare ad un pianto disperato.

Masaki non sapeva come fosse riuscito a tornare indietro ma da quel giorno, quei tunnel erano stati la sua casa, il suo eremo solitario in un mondo che sembrava aver del tutto cancellato la sua presenza.

Nel tentativo di aggrapparsi a quei frammenti di ricordi che continuava testardamente a ritenere come veritieri e segno della sua reale esistenza, non appena aveva messo le mani su di un pezzo di carta, si era subito impegnato a tracciare quel ritratto che, custodito come una reliquia, gli dava giornalmente la forza di sopravvivere, aspettando di capire cosa fosse accaduto alla sua vita per ridurla in quel modo.

I primi giorni erano stati duri.

Kariya Masaki non era mai stato un ragazzino semplice, a fatica si fidava degli altri, ma era riuscito ad abbassare la guardia con Hiroto e Ryuuji, a far vedere parti di sé che aveva sigillato per proteggerle, si era mostrato per quello che era davvero, e lo stesso valeva per il Coach Endou e i ragazzi che, non senza difficoltà, aveva imparato a chiamare “amici”.

Ci aveva messo molto tempo e forse era stato quello ad averlo condannato.

In cuor suo, sapeva che razionalmente non poteva essere possibile ma lo shock era stato troppo grande.

Col passare dei giorni, Masaki aveva quindi cominciato a scivolare in un baratro oscuro sempre più profondo, danzando a stretto giro con la paranoia e la follia, fino a concepire un pensiero incredibile: quella era una punizione, la sua punizione per aver sovvertito un ordine prestabilito.

No, non quello del calcio regolamentato, a malapena ricordava cosa fosse il calcio stesso; si era invece mostrato debole e aveva lasciato emergere il suo vero io, una cosa inaccettabile in un mondo di lupi: e quello era il suo Purgatorio, la sua condanna eterna, costretto a vivere in un mondo buio e lontano dagli affetti più importanti che aveva e che aveva sinceramente creduto di poter avere per sempre.

Ora, tutto ciò che gli era rimasto era quel disegno di Hiroto e Ryuuji e le pareti attorno a lui, la sua tela artistica incrostata di muffa, dove doveva lottare centimetro per centimetro per ottenere un piccolo spazio a malapena sufficiente per imprimere quei lontani e vaghi ricordi che non voleva abbandonare.

Il primo viso che era riuscito ad estrapolare dal fango che gli ammorbava la mente era stato quello di Ranmaru, poi via via aveva impresso i particolari che ricordava dei volti degli altri compagni, del suo allenatore, delle persone a cui voleva bene, incrollabile nella sua determinazione di non perdere ulteriormente la propria personalità: era come scisso in due, Masaki, la sua mente oscillava tra la follia più nera e un debole sprazzo di lucidità – lo stesso che lo portava ad agire in quella maniera -.

Le giornate passavano così, in una meccanica sequenza di gesti: disegnava a lungo, poi la pazzia lo assaliva, gettandolo nel baratro di mille voci e ombre che non riconosceva e che lo spingevano a deliri febbrili in cui a malapena riusciva a ricordarsi di sé stesso, frammentato in tanti minuscoli pezzettini. Infine, quando l'ondata si ritirava – lasciandolo ovviamente spossato – a stento aveva le forze per mangiare qualsivoglia avanzo avesse recuperato prima di lasciarsi cadere a peso morto sul giaciglio di vecchie lenzuola e coperte, picchettando il suo cuscino di fortuna di lacrime.

E ancora non capiva come fosse riuscito a finire così in basso.

Più e più volte si era ritrovato a invocare a bassa voce che qualcuno lo salvasse da quella situazione, aveva anche invocato la morte nella forma di continui segni e tagli su braccia e gambe, niente che qualche lucido frammento di vetro appuntito non potesse fare.

Il vuoto dentro di lui cresceva sempre più, esponenzialmente al numero di graffiti sulle pareti e ai graffi che adornavano il suo corpo sempre più magro e scarno, un vuoto che risucchiava via ogni cosa e ogni briciola di volontà e forza vitale.

Si stava spegnendo lì sotto e non sapeva come arginare quella violenza autodistruttiva che lo teneva ancorato alla fanghiglia nera che lo stava sommergendo.

Voleva rivedere la luce, voleva riemergere ma la solitudine, la consapevolezza della morte incombente sopra di lui era troppo forte, troppo irresistibile.

Non si era mai sentito così indifeso e sperduto.

Poi, un giorno, accadde.

Non era sicuro di aver notato prima le crepe che, inesorabili, percorrevano le vecchie pareti attorno a lui ma di sicuro, quella mattina, - se veramente era mattino, poteva anche essere tarda notte, aveva completamente perso la cognizione del tempo – le scosse continue del terreno non erano passate inosservate.

Il crollo era vicino e Masaki non aspettava altro.

Pensava che una morte del genere sarebbe stata più dignitosa dell'alternativa di sopravvivere lì sotto come un topo di fogna.

E infine accadde.

Nel momento in cui aveva finito di tracciare i tratti del viso di zia Hitomiko, un rombo più forte di quello della metropolitana che passava lì vicino lo distrasse e un dolore atroce al capo lo mandò dritto per terra e una sensazione di nausea lo assalì, spingendolo a svuotare lo stomaco con violenza sul terreno lurido, che tremava inconsultamente.

Un terremoto.

Le pareti attorno a lui sembravano chiuderglisi addosso, il pulviscolo delle rocce che cozzavano le une contro le altre lo accecava e Kariya Masaki, conscio dell'arrivo della fine, ebbe appena la prontezza di spirito di afferrare il prezioso ritratto della sua famiglia e stringerselo al petto prima di lasciarsi andare ad un pianto disperato nel momento in cui la sua vita aveva termine, sotto il crollo di quella che era stata, fino a quel momento, la sua prigione.

Papà...”

§§§

Largo! Fatemi passare!”

Ma che è successo?!”

Quelli del terzo anno! L'hanno colpito!”

Non è uno di quelli del club di calcio?”

Poveretto!”

Dobbiamo chiamare un'ambulanza, Otonashi-sensei!”

E' lui che si è messo in mezzo.”

Con te farò i conti dopo.”

§§§

Qual è il suo nome?”

Kariya Masaki. Abbiamo già chiamato i suoi genitori.”

Kariya-kun, resisti...”

§§§

E' NOSTRO FIGLIO! FATECI PASSARE!”

No, signori, non potete ancora vederlo...”

Hiroto, calmati.”

Non possiamo restare qui, Ryuuji!”

Dobbiamo restare calmi.”

Ma è nostro figlio!”

Se ci facciamo prendere dal panico...”

§§§

Come era possibile che non fosse morto?

Questa era la domanda principale che ronzava in testa a Masaki, disteso a occhi chiusi in una calda stanza e su un letto morbido, decisamente più morbido del cumulo di coperte sporche a cui era abituato.

Cautamente, cercò di prendere un bel respiro mentre, a poco a poco, il suo corpo riprendeva sensibilità: aveva qualcosa sul viso – forse una maschera? - e la pelle gli tirava dolorosamente, come se fosse incerottata.

Però riusciva a respirare, l'ossigeno gli bruciava i polmoni, e questa era una buona cosa, decisamente una buona cosa.

Quindi… cosa stava accadendo? A Kariya non veniva in mente nessuna buona soluzione o risposta, la sua mente era confusa e vagamente annebbiata, pensare gli faceva male e il dolore al collo non gli permetteva neppure di muoversi a piacimento, costringendolo a stare immobile come una statua di sale.

Eppure voleva guardarsi attorno, cercare di capire se non fosse un'altra prigione o, peggio, se fosse qualche altra subdola maniera di qualcuno per ridurgli in pappa il cervello: era intelligente, ma era pur sempre un ragazzino e in quel momento desiderava solo assicurarsi di quello che lo circondava, non era sicuro di voler affrontare qualcosa di simile a quella situazione paradossale, nel buio puzzolente di quel vecchio tunnel che ancora non sapeva se fosse stata o meno una sua invenzione, un brutto incubo, oppure se fosse la sua realtà.

Sei sveglio?”

Una voce sconosciuta lo fece trasalire mentre una fioca luce, inondandogli il volto, preludeva alla comparsa del viso di una giovane donna che era sicuro di aver già visto.

Io sono Fuyuka. Tu sei Kariya-kun, vero?”

Parlava a bassa voce, notò lui mentre annuiva piano, cercando di non arrecarsi maggior dolore di quello che già provava; soddisfatta, la donna si spostò di un passo e accese una luce, quella di un piccolo abat-jour posto sul comodino accanto a quello che era senza dubbio un morbido e candido letto.

Decisamente un miglioramento.

La donna indossava una cuffietta bianca e una divisa del medesimo colore – un'infermiera - e la stanza somigliava in maniera incredibile a quella di un ospedale, come quello dove erano andati a trovare Shindou-senpai…

Dove sono?” chiese lui con un sussurro: “E' un ospedale vero? Non me lo sto immaginando?”.

No, non te lo stai immaginando. Hai preso una brutta botta in testa e sei rimasto qui per un po', per non parlare dei lividi. Ti devi essere azzuffato con qualcuno di molto più grosso di te.”.

E… come ci sono arrivato qui…?”

Lei sorrise gentile, esaminando la cartella clinica appesa al letto, poi la ripose e lo guardò fisso negli occhi con espressione materna: “Hai molti amici.” disse semplicemente, sistemandogli la flebo – Kariya notò solo in quel momento la presenza di un ago nel proprio braccio e rabbrividì -, “Mamoru-… Endou-san mi ha raccontato che alcuni ragazzi del terzo anno della tua scuola ti hanno aspettato fuori dopo le lezioni e ti sei ritrovato circondato. Uno di loro ti ha colpito con un sasso in testa e sei caduto. Alcuni tuoi compagni di squadra, hanno cercato di difenderti mentre arrivavano i professori e ti hanno portato in ospedale. E' stato Endou-san a portarti.” precisò lei con un sorriso, “L'ambulanza non arrivava e ti ha portato qui in braccio.”.

L'allenatore ha fatto questo…?”

Perché non avrebbe dovuto? Sei uno dei suoi ragazzi, se lo conosco bene, sarebbe arrivato fin qui strisciando.” rise l'infermiera: “E non era da solo. La sala d'aspetto è rimasta inagibile per qualche ora, era invasa di ragazzi.”.

Masaki non rispose, rimase a fissarla con gli occhi lucidi, troppo sconvolto per dire alcunché.

Sono tutti qui fuori, se vuoi, sono rimasti a tenere compagnia ai tuoi genitori.”

Una bomba avrebbe forse avuto un effetto meno devastante sul ragazzo, il quale si ritrovò a stringere convulsamente un lembo del lenzuolo mentre cercava di arginare i singhiozzi che si affollavano nella sua gola: “I miei…” rantolò lui, sbattendo più volte le palpebre.

Endou-san li ha chiamati subito e sono corsi non appena possibile. Sia Ryuuji-san che il medico hanno dovuto bloccare Hiroto-san con la forza. Li vado a chiamare?”.

Frastornato, Masaki soppesò le parole di Fuyuka: voleva vederli? Doveva assicurarsi che non fosse un'altra illusione dettata dalla sua mente ma non trovava la forza di dire quella semplice parola.

Incapace di proferire verbo, si accontentò unicamente di annuire.

Torno subito.”

La stanza ripiombò nel silenzio mentre il cuore di Kariya batteva senza sosta per l'emozione: si sentiva spossato ma voleva resistere per vedere i suoi genitori, doveva resistere per assicurarsi che fossero veri, che fossero ancora lì e non solo un prodotto della sua mente.

Quando infine la porta cigolò nuovamente, e nello spicchio di luce comparve una familiare figura dai capelli rossi, Masaki non riuscì più a trattenersi e, tendendo la mano verso di essa, scoppiò in lacrime mentre una sola parola gli usciva dalla gola, prorompente come la marea rovinosa in un giorno di tempesta.

PAPÀ!”

Era veramente fuori dalla sua prigione e non ci sarebbe finito mai più.

   
 
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