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Autore: Marilia__88    21/02/2016    4 recensioni
Abbiamo lasciato Sherlock ad affrontare il presunto ritorno di Moriarty. Ecco cosa immagino possa accadere dopo essere sceso dall'aereo.
Dalla storia:
“Sherlock, aspetta, spiegami… Moriarty è vivo allora?” disse John mentre cercava di tenere il passo dell’amico.
“Non ho detto che è vivo, ho detto che è tornato” rispose Sherlock fermandosi e voltandosi verso di lui.
“Quindi è morto?” intervenne Mary per cercare di capirci qualcosa.
“Certo che è morto! Gli è esploso il cervello, nessuno sopravvivrebbe!”
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Heart'
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                 Ti brucerò il cuore

 


                                                       Sentimenti





… Naturalmente, in cuor loro, tutti sapevano che si trattava di una tregua momentanea e che presto Sherrinford avrebbe fatto la sua mossa, ma intanto erano decisi a godersi, almeno per il momento, quel periodo di pace.






Quella settimana di fremente attesa passò velocemente. Era il giorno prima del cesareo e Mary e John erano in preda al panico nell'impresa di comprare tutto ciò che fosse necessario per la loro bambina in arrivo. Quella mattina Sherlock invitò i due coniugi a tornare nel loro appartamento: era contentissimo di averli a Baker Street, ma sapeva che, con la nascita della bambina, la famiglia Watson aveva bisogno dell’intimità e del calore della loro casa. Inizialmente John era un po’ titubante a lasciarlo da solo in quell’appartamento, ma ora che il rapporto con Mycroft si era nuovamente consolidato, si convinse che, quando lui non poteva, ci sarebbe stato anche il fratello a tenerlo d’occhio.
“Sei sicuro che te la senti di rimanere solo? Ho notato che alcune notti gli incubi ti perseguitano ancora. Se vuoi che rimanga, basta che me tu lo dica…lo sai!” chiese John premuroso.
“Sono sicuro, non preoccuparti! Ora devi pensare a tua moglie e a tua figlia. Starò bene…” rispose il detective, accennando un sorriso.
Il dottore, allora, anche se non proprio convinto, continuò a raccogliere le ultime cose rimaste in giro.
Sherlock si rese conto che, guardare John mentre prendeva le sue cose per tornare a casa, era decisamente doloroso. Non pensava di starci così male, in fondo lo sapeva che si trattava di una situazione temporanea, sapeva che ormai l’amico aveva una casa tutta sua dove, prima o poi, avrebbe fatto ritorno.
Quando era ritornato, dopo la sua finta morte, John aveva già traslocato mesi prima e, nonostante facesse male vedere l’appartamento vuoto, si era almeno risparmiato la tortura di vederlo andare via. Questa volta, però, mentre se ne stava seduto sulla sua poltrona, era costretto ad assistere a quel triste momento. Era strano, ma più cose il dottore raccoglieva da quella casa e più lui si sentiva svuotato dentro. Nonostante questo asfissiante nodo in gola, decise che doveva sforzarsi di apparire tranquillo e rilassato. Sapeva bene che se John si fosse accorto del suo stato, non se ne sarebbe più andato e questo non era giusto né per lui, né per la sua famiglia. In fondo lui era Sherlock Holmes: aveva mentito così tanto nella sua vita, riuscendo a far credere a tutti di essere un sociopatico senza cuore, che non fu difficile, in quell’occasione, indossare una maschera di indifferenza e tranquillità. Sperava soltanto che l’amico non lo avrebbe guardato negli occhi, perché quella era l’unica parte di sé che ormai sembrava comunicare tutto ciò che aveva nel cuore senza che lui riuscisse ad evitarlo. Per sua fortuna il medico era così preso ed emozionato dalla svolta che avrebbe avuto la sua vita il giorno seguente, da non accorgersi di niente.
Lo scatto della valigia che si chiudeva, fece ridestare Sherlock dai suoi pensieri.
“Beh, allora vado…” disse John, leggermente titubante.
Mary aveva salutato il detective una ventina di minuti prima ed era già in macchina ad aspettare il marito.
Il consulente investigativo non riuscì a dire niente. Rimanendo seduto sulla sua poltrona, apparentemente rilassato, fece cenno di sì con il capo, sorridendo con finta convinzione.
“Ci vediamo domani mattina in ospedale… vieni anche tu vero?” aggiunse il medico, temporeggiando.
“Certo, ci vediamo lì…” rispose semplicemente Sherlock.
John, allora, sospirò pesantemente e si voltò diretto alla porta. Si rese conto che andarsene da quell’appartamento era doloroso quasi come lo era stato anni prima. Era felicissimo di essere sposato con una donna straordinaria come Mary, che amava pazzamente, era contento dell’imminente nascita di sua figlia, ma nello stesso tempo sapeva che quell’appartamento a Baker Street era il posto in cui, per la prima volta, si era sentito davvero a casa e lasciarlo nuovamente riaprì vecchie ferite che sembravano ormai rimarginate. Senza indugiare oltre, aprì la porta ed uscì; capì che doveva farlo subito, altrimenti la tentazione di restare avrebbe avuto la meglio.
Sherlock, intanto, non si era mosso da quella poltrona. Appena vide la porta chiudersi, si alzò e si diresse alla finestra. Con discrezione, cercando di non farsi vedere, scostò la tendina e guardò il suo amico andare via. Appena la macchina sparì dalla sua visuale, si voltò a guardare l’appartamento e si sentì più solo di come avrebbe mai potuto immaginare. Pensò di dedicarsi a qualche strano esperimento, ricordandosi di avere ancora delle dita mozzate in frigo con cui avrebbe potuto fare qualcosa, ma si rese conto di non averne alcuna voglia. Si sentì soffocare ed iniziò ad ansimare. Disse a sé stesso che non era proprio il momento di avere un attacco di panico, perciò afferrò sciarpa e cappotto e uscì di corsa da quel luogo asfissiante. C’era solo un posto dove poteva andare per calmarsi. Fermò un taxi e si diresse verso casa di Mycroft.


Appena arrivato davanti all’imponente villa del fratello, si diresse verso la porta e rimase immobile per qualche minuto  indeciso se bussare o andarsene. Optò per la prima e aspettò impaziente. Mycroft aprì la porta e, vedendo Sherlock sulla soglia, sul suo viso apparve un’espressione tra il felice e il sorpreso: nonostante avessero recuperato il loro rapporto, erano anni che il fratello minore non si recava lì a casa sua. Ricordava che averlo sempre trascinato con la forza o con qualche ricatto.
“Sherlock!” esclamò il politico “…vieni, entra…” continuò un po’ titubante.
Il detective accennò un sorriso ed entrò senza dire niente. In quel momento Mycroft si accorse dalla sua espressione che c’era qualcosa che non andava. Era un po’ più pallido del solito e sembrava avere il respiro corto, come se faticasse a prendere aria.
“Cos’è successo?” chiese preoccupato al fratello minore.
“Niente, ero passato per un saluto…” rispose il consulente investigativo, in modo non proprio convincente.
“Ti rendi almeno conto di non essere credibile, vero?” domandò Mycroft, sorridendo con tenerezza “…dimmi…” continuò serio.
“John…” disse tristemente Sherlock, abbassando lo sguardo. Non riuscì a dire altro, solo il suo nome.
“Oh, è domani... il gran giorno” esclamò il politico “...e deduco che, da bravo amico, tu lo abbia invitato a tornarsene a casa!” continuò con la sicurezza di chi ha già capito tutto.
Il detective non rispose. Fece solo un cenno di assenso con il capo, accompagnandolo da uno sforzato sorriso.
“Oh, Sherlock” disse Mycroft con dolcezza “...è inutile che ti dica che fatto la scelta giusta” concluse, cercando di consolarlo.
“Lo so...” rispose serio l'altro.
“Ho un'idea da proporti. Perché questa notte non la passi qui e domani andiamo insieme in ospedale?” domandò il politico.
Sherlock rimase sconvolto da quella proposta. Un pensiero come quello non era decisamente da lui.
“Cosa?!” esclamò sorpreso.
“Dannazione Sherlock, non farmelo ripetere! Hai capito benissimo!” rispose secco Mycroft.
“Quindi tu...vuoi che rimanga qui...e domani …verresti con me in ospedale...?” chiese lentamente il detective, cercando di afferrare il senso di quelle frasi.
“Si, mi sembra di aver detto proprio questo!” rispose con un velo di ironia il fratello maggiore.
“Ma tu odi queste cose! Le persone, la felicità, il mondo...” esclamò Sherlock con sarcasmo.
“E' vero! Ma lo farei per te...” rispose Mycroft, sorridendo.
Il consulente investigativo rimase colpito da quella frase. Non si era ancora abituato a queste manifestazioni d’affetto da parte del fratello.
“Sai, Mycroft, devo dirtelo: i sentimenti non ti si addicono!” esclamò Sherlock scherzosamente.
“Neanche a te, fratellino” rispose il politico a tono.
“Ho notato che hai il pantalone più nuovo rispetto alla giacca. Sei ingrassato di nuovo!” disse improvvisamente il detective con un finto tono tagliente.
“Non ci crederai, ma sono dimagrito!” esclamò Mycroft con lo stesso tono.
Restarono a fronteggiarsi l’uno di fronte a l’altro con un’espressione di sfida per alcuni secondi. Poi entrambi scoppiarono a ridere.
Fu in quel momento che Sherlock si accorse di sentirsi improvvisamente meglio. Dovette ammettere che il fratello aveva ragione: insieme erano forti abbastanza da affrontare tutto e tutti e questo pensiero gli diede una forza nuova.

Il giorno dopo entrambi i fratelli Holmes si recarono in ospedale. Trovarono lì già tutti: Molly, Greg, la signora Hudson e John. Quest’ultimo era decisamente irrequieto mentre camminava su e giù nella sala d’attesa. Mary era appena entrata in sala operatoria.
Appena il medico vide i due fratelli arrivare insieme, rimase sorpreso, ma al tempo stesso fu contento di vedere che Sherlock aveva qualcun altro a cui appoggiarsi, almeno quando lui non poteva stargli vicino.
Dopo qualche ora di fremente attesa, finalmente i medici comunicarono che la bambina era nata. Madre e figlia stavano benissimo e il padre fu il primo ad andare dentro per vederle entrambe. Successivamente anche gli altri andarono a dare il loro saluto. Appena Sherlock entrò nella stanza, rimase colpito dalla scena che aveva di fronte: vedere Mary con una bellissima bambina in braccio e di fianco un eccitato John che le guardava con adorazione fu una visione paradisiaca e, al tempo stesso, lo fece sentire nuovamente vuoto come la sera del matrimonio prima che se ne andasse a casa. Lì di fronte aveva la chiara dimostrazione che la frase pronunciata nel discorso da testimone era tra le più false che avesse mai detto: sono totalmente indifferente di fronte alla felicità. In quel momento, infatti, provava di tutto fuorché indifferenza.
I due coniugi fecero cenno a Sherlock di avvicinarsi.
“Congratulazioni!” disse il detective, dando un bacio a Mary e mettendo una mano sulla spalla di John.
“Volevamo che fossi il primo a sapere il nome della bambina” affermò la donna, sorridendo.
“Volevamo chiamarla come te, ma Sherlock non è chiaramente un nome femminile!” intervenne John scherzosamente, riferendosi alla loro conversazione davanti all’aereo “…perciò Mary ha cercato un nome che potesse comunque avvicinarsi al tuo” concluse, guardando la moglie.
“Sherlock, ti presentiamo Sherlyn Watson!” esclamò la donna con tenerezza.
Il detective era profondamente colpito da tutte quelle parole. L’idea che non solo avessero preso in considerazione di usare il suo nome per la loro figlia, ma che si fossero addirittura impegnati a trovarne uno che lo ricordava, gli sembrò un gesto bellissimo. Si sentì come il giorno in cui John gli chiese di fargli da testimone, in cui scoprì di essere considerato da qualcuno il suo migliore amico. Proprio come allora, era rimasto senza parole. Riuscì solo a guardare i tre e a sorridere come un idiota.
“Non so cosa dire…” riuscì a pronunciare poco dopo Sherlock.
“Beh, questo sì che è un evento raro!” scherzò John.
Tutti e tre si misero a ridere di gusto, presi da tutta quella varietà di emozioni che aleggiavano in quel momento tra loro.


Dopo qualche ora passata lì a festeggiare, tutti iniziarono ad andarsene a casa. Mary doveva riposare e John aveva giustamente bisogno di un po' di intimità con sua moglie e sua figlia. Sherlock chiese a Mycroft di accompagnarlo a Baker Street. Sentiva il bisogno di rimanere solo. Da quando era uscito da quella stanza, non faceva che pensare a quella conversazione immaginaria che aveva avuto con il suo Watson mentale mentre cercava di “risolvere” il caso di Emilia Ricoletti. Sapeva che in fondo quello con cui aveva parlato non era realmente John, ma era una voce nella sua coscienza.
“Perché avete bisogno di stare da solo?” aveva chiesto il suo Watson mentale.
“Se vi riferite ad un romantico intreccio, Waston, come credo voi stiate facendo, io vi ho spesso spiegato che sono disgustato da tutte le emozioni, sono come polvere su uno strumento delicato, un’incrinatura sulla lente…” aveva cercato di rispondere a quella domanda.
[…]
“…il cervello senza cuore, la macchina calcolatrice…i lettori se la bevono, ma io non ci credo! Voi siete un uomo che vive e respira, avete vissuto una vita, avete un passato… […]…dovete aver avuto esperienze. Dannazione Holmes, voi siete un uomo in carne ed ossa, avete dei sentimenti, dovreste avere degli impulsi…” aveva risposto a tono il suo Watson mentale.
Effettivamente quelle parole provenivano da una parte di sé stesso che per anni aveva cercato di tenere nascosta in un angolo del suo essere. Ma ora, dopo aver visto John felice con la sua famiglia, quella domanda aleggiava prepotentemente nella sua testa: perché avete bisogno di stare da solo? Nella sua mente, allora, aveva provato ad abbozzare una risposta, ma adesso non sapeva più cosa rispondere. Nel corso degli ultimi anni si era lasciato andare ad emozioni come l’affetto e l’amicizia. Perché si ostinava ancora a rifiutare l’idea dell’amore nel termine più romantico del termine? Fu allora che gli venne in mente lei: la donna, l’unica donna. Non sapeva definire con certezza se quello che aveva provato per lei fosse  stato effettivamente amore, ma analizzando i propri comportamenti, non trovava altra definizione: in fondo era l’unica donna che avesse mai trovato interessante e intelligente, era arrivato ad infiltrarsi in una cellula terroristica per salvarla ed era sempre stata nei suoi pensieri per tutti quegli anni. Si fece tutto quel discorso nella sua mente mentre tornava a casa. Appena arrivato davanti al 221B, salutò il fratello e si diresse di sopra ancora pensieroso. Nell’istante in cui aprì la porta si accorse di non essere solo: una figura familiare era in piedi nel suo soggiorno e lo guardava sorridendo.
“Signor Holmes…” disse la donna davanti a lui.
“Miss Adler…” rispose il detective sorpreso.
“...Ceniamo insieme?” domandò Irene con malizia.











Angolo dell'autrice:
Salve! Eccoci con il dodicesimo capitolo! Dovevo pubblicarlo ieri, lo so, ma ho avuto dei grossi problemi con il computer. In questa storia, come ho annunciato nelle note del primo capitolo, vediamo uno Sherlock più sentimentale. Beh, qui anche lui stesso comincia ad interrogarsi sul tema sentimenti e a valutare il pensiero che ormai facciano parte, in un modo o nell'altro, della sua vita. Sherrinford non è presente in questo capitolo, ovviamente sta architettando chissà quale piano malvagio...
Spero che vi sia piaciuto. Sono sempre ben accetti i commenti e grazie a chi sta continuando a seguire la storia. Alla prossima ;)
   
 
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