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Autore: shindeor    24/03/2009    1 recensioni
“Forse è meglio che non ci vediamo per un pò.” Crollo. Crollo inesorabile di tutte le speranze, le certezze, l’autostima e tanto altro. Era la prima volta che un’amica gli chiedeva una pausa.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Forse è meglio che non ci vediamo per un pò.” Crollo. Crollo inesorabile di tutte le speranze, le certezze, l’autostima e tanto altro. Era la prima volta che un’amica gli chiedeva una pausa. Non ha molto senso effettivamente... una pausa di riflessione tra amici che senso ha? Però in effetti la situazione si stava complicando, non si poteva dire che fossero esattamente “amici”. C’era qualcosa di più e questo lo potevano sentire entrambi, anche un esterno l’avrebbe potuto capire. Solo che quel qualcosa di più secondo lei non era comunque abbastanza per creare una relazione stabile che durasse agli eventi triviali che costellano quel genere di rapporti. Secondo lui si. Ed è così che nasce un problema. Lui rimaneva della sua idea che non si può sapere cosa accadrà. Lei invece non voleva rischiare, sosteneva di conoscere se stessa troppo bene. Eventualmente bisogna capire che non può nascere una storia tra due persone se entrambe non sono consenzienti, non una storia che non comporti conseguenze legali per lo meno. Questo discorso andò avanti per un pò, circa un’eternità per lui, per ogni parola proferita provava a pescare un motivo, una scusa, qualsiasi cosa si addicesse alla situazione per sperare di farle cambiare idea. Incredibilmente però trovò il suo flusso di coscienza abbastanza annichilito, il che non gli fece al quanto piacere. Non gli venne da pensare al sarcasmo della situazione, a come un aspirante scrittore riesca a rimanere senza parole. Effettivamente però, quando sei soggetto ad un lancio in piena faccia, il primo istinto è spostarti, non rispedire la palla. Eventualmente questa temporanea impotenza semantica rivelò la sua dannosità, o meglio inutilità, così, dunque, finì una storia mai iniziata, come fermare un’opera a teatro prima che si apra il sipario. Un vero spreco in verità. L’opera avrebbe potuto essere una delle più grandi produzioni mai viste, invece così, gli attori se ne devono ritornare sconsolati a casa, pensando che forse, se avessero avuto la loro possibilità, per lo meno un paio di ore di gloria se le sarebbero godute anche loro, poveri sconosciuti. Per dover di cronaca anche Nicholas, lui per l’appunto, sentiva che una pausa avrebbe giovato alla situazione, ma sperava che fosse un modo per farle realizzare che in fondo lei, che per comodità verrà chiamata Yvonne, voleva starci insieme. Indubbiamente, il fatto che fosse stata la sua amica a proporre la pausa, diminuiva in maniera drastica questa probabilità di riuscita. Così l’uomo, caricò i suoi 75 chili per un metro e ottanta sul suo prolungamento fallico, tra l’altro neanche troppo vistoso, mise in moto e partì per tornare a casa. Un viaggio lungo una scarsa mezz’ora, ma trenta minuti corrispondono nel suo mondo a circa sette canzoni, e sette canzoni corrispondono, sempre nel suo contorto mondo personale, a sette modi differenti di percepire la stessa medesima emozione: l’abbandono. Più la playlist proseguiva e più la strada davanti a lui si faceva scura, si sentiva circondato da un buio soffocante, dovuto al nulla che era la sua vita. Sarebbe tornato a casa ora, alle tre di notte e non avrebbe avuto nessuno con cui parlare, non senza litigarci sonoramente prima per aver avuto il tatto di chiamare a quell’ora poco consona. Fece una rassegna delle persone con cui avrebbe voluto instaurare un contatto: una l’aveva appena accompagnata a casa, l’altra era meglio non svegliarla. Brano dopo brano, movimento dopo movimento, Nicholas arrivò a casa. Il parcheggio fu decisamente brutale, l’idea di entrare in garage e finire la serata con tre manovre di retromarcia non lo aggradava affatto, così lasciò il suo fedele trasporto al primo posto libero sotto casa. Il fatto di aver trovato parcheggio ammontava già a una fortuna non indifferente. Con un fare cadenzato e scandito cominciò a pronunciare la sua lista pneumonica di cose da fare nell’uscire dal veicolo: uno, tirare il freno a mano, due, girare la chiave e mettersi l’anello ad essa connesso a un dito, tre, ripetere la stessa operazione con il mazzo di chiavi del garage e di casa, quattro, levare lo stereo, cinque, aprire la portiera e uscire, sei, chiudere la portiera e inserire l’antifurto. Così, con tre mazzi di metallo sonante in mano, si appropinquò al portone di casa, sembrando più un mazzolaio di chiavi di una prigione dei film di pirati che uno studente specializzando in lettere e filosofia. Nella notte è quasi invisibile. Non che durante il giorno sia molto più notevole, però effettivamente i jeans neri, coordinati ad una camicia nera molto classica non mettono in risalto una persona quando in cielo a mala pena brilla pallidamente la luna. La sua serata volge al termine o per lo meno così se la immagina: entra dentro casa, esegue la sua routine per le serate in cui non vorrebbe mai essere nato e poi si addormenta sul letto, magari senza neanche essersi spogliato. E con questo piano in testa e un leggero ronzio entra in casa, i suoi movimenti automizzati vanno per la poltrona davanti al pc, ma quel rumore di fondo si fa più forte, si dirige verso il mobile della stanza e prende un bicchiere, una bottiglia semivuota (non era il momento per ottimismi) di Jagermeister e ora si dirige verso la scrivania. Niente di male, una piccola variazione sul tema, un bicchiere di amaro non può far male per guarire una serata così no? Accende il computer. La routine è andata a puttane. E lui solo ora se ne rende conto. Il pc finisce la sua procedura d’accensione standard, ma invece di andare a cercare qualche telefilm con potenti effetti antidepressivi, Nicholas apre un file di testo e inizia a scrivere: “Come cenerentola dopo la mezzanotte. È dura sapere che al momento in cui la saluterai, non la vedrai più. È ancora più dura sapere che tu soffrirai, e a lei invece questa serata, quest’ultima maledetta prima volta, scivolerà addosso. Come una brezza sul mare non provoca più di qualche increspatura. Domani si alzerà e ripenserà a questa sera, avrà un nostalgico senso di malinconia e riprenderà la sua vita. Tu al contrario ti sveglierai e già se riesci ad alzarti dal letto hai vinto una battaglia che solo qualche ora prima davi per persa in partenza...” E continua su questi concetti. È una composizione fatta di odio, rancore, depressione ma soprattutto amore. Non scriveva così da mesi. Nell’ultimo semestre era stato toccato da gioie e dolori e mai, mai si era messo a scrivere. Mai con così tanto impeto e passione. Aveva un blocco enorme che non riusciva a levare dalla sua mente. Anche quando si imponeva di scrivere non riusciva a buttare giù più di una pagina mediocre. Ora non era più così, stava scrivendo veramente, nel modo in cui più piaceva lui. Non sapeva quando avrebbe finito e neanche se l’effetto provocatogli da questa nuova privazione sarebbe terminato presto. Così, preso da questa paura angosciante, di perdere ancora una volta le parole e tutto quello che voleva dire, continuava a scrivere, riempendo pagine e pagine. Una sigaretta dopo l’altra si succedevano a ritmi regolari. Adorava fumare mentre componeva, mai in un modo eccessivo, ma abbastanza da far continuare il flusso di ispirazione solo osservando le spire del fumo che si levano dalla punta bruciata di quei sette centimetri di vizio. Vizi venduti in pacchetti da venti. Da dieci per i più puritani. Le sue dita continuano a volare sulla tastiera con trasporto, dovuto alla musica, allo stato d’animo e un’altra miriade di motivi che neanche lui riusciva bene a comprendere. Però le parole uscivano, erano tante e, unite insieme, non suonavano neanche male. A una seconda rilettura si rese conto che forse lo stile in certi punti era troppo affettato, ma non se ne preoccupò minimamente. La cosa più importante per lui è che stava di nuovo creando un mondo, una storia, che avrebbe potuto controllare lui stesso, come meglio credeva. Quelle pagine erano il suo universo e lui era Dio. Ogni piccolo problema di registro o di ortografia sarebbe stato revisionato alla fine dell’opera e, almeno per questa notte, sentiva che questo racconto sarebbe andato avanti parecchio. Così finisce questa notte di libertina creatività e sorge un giorno di obblighi e formalità. Un dubbio lo assale mentre spenge il più recente cilindro di tabacco. Vale di più questo? Vale la pena riuscire a scrivere se la musa di ciò, è l’assenza dell’oggetto amato? È un attimo di malinconia che lo colpisce dritto al cuore. Rilegge tutto quello che ha creato fino ad ora. È presto per trovare una risposta al suo quesito e forse, in fondo, non vuole saperlo neanche lui.
  
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