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Autore: shamrock13    23/02/2016    2 recensioni
Ho letto Life and Death, e diciamolo… Meh.
Ho iniziato a pensare a tutte le cose che non mi erano piaciute, a come quei personaggi erano poco convincenti, a come sarebbe dovuta andare la storia se lui fosse stato un umano e lei una vampira, ed ecco qui.
Non sono Bella ed Edward (o Beau ed Edythe), volevo provare ad inserire delle dinamiche nuove.
E' la mia "alternativa", spero vi piaccia!
Dal cap. 1:
Anche lei alzò il viso e voltò la testa verso di me, lanciandomi un’occhiataccia. Mi voltai, con un’immagine piuttosto confusa in mente. Lo sguardo che mi aveva lanciato non era solo infastidito, era ostile, minaccioso. Proveniva da un volto molto bello, da due occhi… castani? Molto chiari?
Evidentemente avevo visto male perché sembravano addirittura gialli, o ambrati. E quello non è un colore “giusto” per gli occhi, no?
E poi, era proprio così bella? Mentre l’impressione di bellezza sbiadiva già, a causa della brevità del momento in cui l’avevo guardata, l’altra sensazione che avevo avuto, quella di minaccia, permaneva nella mia mente. Un brivido mi percorse la schiena, come se il mio corpo mi dicesse "Per un pelo…"
Che cosa stupida...
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clan Cullen, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Scusate se vi ho fatto aspettare.
Ammetto di aver scritto la prima metà parecchi giorni fa, poi mi son bloccato. Oggi, giornata di grazia, mi ci sono rimesso e si è scritto da solo.
Niente, mi piace, i due mi stanno sempre più simpatici. Se volete lasciare due parole per farmi sapere che ne pensate voi, sono ben accette.
Spero vi piaccia!
N.

 

Alternativa

Reazione

 
Forse avevo esagerato un po’, ma vidi che il ragazzo si stava riprendendo. Tanto per cominciare richiuse le labbra, poi il suo viso iniziò a riprendere forma. Sentì che si schiariva la voce e vidi le sue palpebre sbattere velocemente un paio di volte.

“Ehm…” Inizio non troppo promettente, pensai. “Certo, nessun problema.” Rispose, con la voce che si era fatta più certa. Azzardò anche un sorriso, alzando un angolo delle labbra. Carino…

Rimasi ad osservarlo, dal sotto in su, dal momento che alla sua risposta non era seguita un’azione. Piegai la testa con fare interrogativo, mentre lui si dondolava sui piedi. Sembrava indeciso se muoversi o meno e io iniziavo a spazientirmi. Alzò una mano, facendomi segno di precederlo verso la porta.

“Prima le signore, usciamo di là.”

Il mio sorriso si offuscò appena, sentendolo dettare le condizioni. Certo, poteva essere solo un atto di cortesia, ma i suoi occhi erano vigili, questo lo vedevo. Lo erano stati anche nel suo momento di immobilità, quando avevo provato a far valere su di lui la mia volontà, ma in misura molto minore.

Ora pareva all’erta.

“Grazie” risposi avviandomi, sentendolo muoversi dopo di me. Uscimmo dall’aula in silenzio, a quanto pareva non era un chiacchierone. Nemmeno io ero troppo in vena di parlare però. Il mio cervello andava a mille all’ora mentre osservavo attorno a me, alla ricerca di un posto tranquillo, con pochi testimoni, dove potessimo sparire entrambi, solo per un minuto…

La mia sete montava, aggressiva, dolorosa, di secondo in secondo.

Pochi metri fuori dall’edificio rallentai il passo, ricordandomi di non dirigermi per prima verso l’aula della prossima lezione. Conoscevo già il campus ovviamente, la richiesta di informazioni era solo una scusa.

“Da che parte?” domandai amichevole, voltandomi a guardarlo. Notai, non senza un certo piacere, che il suo sguardo era intento a studiare la mia figura. Forse dopo tutto non era così vigile.

Si fermò al mio fianco. O meglio quel tanto che bastava per non affiancare le nostre spalle. Più indietro di una ventina di centimetri, come se volesse controllarmi.

“A destra, passiamo sotto quel passaggio e poi sempre dritti.” Indicò un punto in cui il percorso pedonale passava sotto ad una delle strade carrabili interne al campus. Quella era forse la mia occasione: qualche metro al coperto, senza illuminazione. Se fossi stata fortunata non ci sarebbero nemmeno stati testimoni.

Mi incamminai e lui tenne ancora la stessa distanza da me, appena dietro. La cosa iniziava ad innervosirmi per quanto non fosse un ostacolo al mio piano o una minaccia per me in alcun modo. Semplicemente mi rendeva inquieta l’idea che lui sospettasse- “Da dove arrivi?” mi domandò.

Diedi per scontato che parlasse del mio college precedente, così girai appena la testa per rispondere. “Dublino. Mio padre si è trasferito qui per lavoro.” La voce mi era uscita più dura di quanto volessi e la risposta più stringata, ma la smania di nutrirmi iniziava a diventare insopportabile.

Per fortuna il sottopasso era solo a pochi metri. Circa a metà, sul lato destro, c’era un grosso tombino, di quelli per l’ispezione della rete idrica. A giudicare dalla dimensione nascondeva una scaletta per calarsi nei passaggi sottostanti. Sarebbe stato semplice e rapido. Avrei scoperchiato il tombino con una mano, mentre con l’altra avrei afferrato il ragazzo, scagliandolo di sotto. Sarebbe stato troppo veloce perché si accorgesse di qualcosa, almeno fino a quando non fossimo scomparsi sotto il manto stradale.

L’unico segno che qualcosa era accaduto sarebbe stato il rumore del tombino che ricadeva al suo posto.

“Ah, l’Irlanda! Io stesso ho degli antenati che vengono da quella bellissima e verde terra!” disse con un calcatissimo e forzato accento irlandese, a dir poco perfetto. Mi sorprese tanto che non riuscii ad impedirmi di ridere, nonostante tutto.
Mentre ridevo mi voltai, lasciando passare lo sguardo sul suo viso e buttandolo alle sue spalle. Non c’era nessuno. Perfetto.

Tornai a guardarlo, sempre ridendo. “Davvero niente male!” risposi, parlando a mia volta con un accento che non usavo da decenni, da quando avevo attraversato l’oceano.

Nonostante lo scherzo lo vidi fare attenzione al mio volto e ai miei occhi, e notai che rallentava il passo impercettibilmente, in risposta a al mio cambio di andatura. Avevo infatti rallentato a mia volta, quanto bastava per essere più comoda nei miei prossimi movimenti.

Tornai a guardare avanti mentre iniziavo ad addentrarmi nell’ombra del sottopasso, nervosa per quel piccolo inconveniente. “Resisti.” mi dissi “Ancora un momento.”

Ci fu un tonfo, poco distante.

“Ehi, Fran!” urlò una voce, dietro di noi. “Aiutino?”

Mi voltai in un lampo, squadrando il ragazzo abbronzato dai cortissimi capelli biondi che era comparso qualche metro dietro a noi, chino sulla strada mentre raccoglieva il contenuto di uno scatolone voluminoso. Un altro scatolone della stessa dimensione era poggiato chiuso a terra.

“Oh, certo Matt!” rispose la mia preda con quello che, alle mie orecchie, suonava come sollievo. Lo era davvero o me lo stavo immaginando, in risposta all’ira che stava montando in me? Cercai di non darlo a vedere, notando che lui si girava di nuovo a guardarmi. “Scusa l’intoppo, l’aula è quella laggiù, la vedi da qui.” Disse, indicando il piccolo edificio poco più avanti. “E’ il mio compagno di stanza, sta finendo di portare su la sua roba.” Alzò gli occhi al cielo come per commentare il modo in cui l’altro umano faceva le cose.

Mi forzai di sorridere. “Nessun problema, vai pure. CI vediamo in aula.”

Abbozzò un saluto con la mano e un sorriso, mentre si avviava, i primi due passi camminando all’indietro, per poi girarsi e avvicinarsi all’amico. La distanza che mi separava dai due non era un problema, potevo cogliere senza difficoltà le loro parole.
“Beh, perché non hai chiesto anche a lei di darci una mano? Ma l’hai vista?”

“Dai, portiamo su questa roba che abbiamo lezione. O vuoi saltare anche questa?”

“Mmh mmh…” commentò l’altro, che mi sbirciava da sopra la spalla del mio oggetto di desiderio, Fran.

Mi voltai e mi incamminai, furente. C’era un sasso, che spedii con una pedata a cozzare contro il muro del sottopasso. Il rimbombo nello spazio stretto nascose il sibilo di irritazione che mi lasciai sfuggire per sfogarmi, neanche fossi una gatta che soffia.

Entrando nell’aula successiva, lontano dal profumo che stava per farmi gettare alle spalle 8 mesi di vita retta e diligente, riflettevo sul comportamento del ragazzo chiamato Fran. Non capivo come mai fosse così guardingo. Non mi sembrava di aver fatto nulla di particolare per spaventarlo. Inoltre gli piacevo, di questo ero sicura: il modo in cui mi guardava, in cui il suo cuore che aveva accelerato quando mi aveva vista… A meno che… Sguardo attento, battito accelerato… Che fosse paura? Ma di cosa?

La lezione iniziò e lui ancora non si era fatto vedere. Sbuffai una risatina sarcastica. Mi ero iscritta al college per seguire la mia sete di sapere e socializzare con gli umani; il primo giorno mi ritrovavo a tentare di placare la mia sete di sangue, non avevo sentito una parola della prima lezione ed ero sulla buona strada per fare altrettanto con la seconda.

Tutto per colpa di questo Fran. Realizzai che lo stavo chiamando per nome invece che pensare a lui come una preda. Mossa stupida.

Entrò in quel momento in aula, senza che il professore smettesse di parlare, accompagnato dall’altro ragazzo, Matt.

Provai sollievo, e me ne stupii. Sollievo per cosa? Perché potevo riprendere la caccia? O perché potevo capire meglio cosa lui nascondeva? Intuii che, se la cosa iniziava a prendere questa piega, se la mia curiosità si metteva di mezzo, forse la caccia avrebbe richiesto più tempo del previsto. Non ero mai riuscita a lasciare un quesito senza risposta.

Scacciai momentaneamente quel pensiero, aguzzando le orecchie. I due stavano parlando e, con poco sforzo, riuscii ad intercettare la loro conversazione a bassa voce.

“Guardala, eccola lì! Come hai detto che si chiama?”

“Non l’ho detto, non lo so…” rispose la voce che avevo sentito solo un paio di volte, ma che già suonava nota.

Pausa.

“Certo che… È qualcosa di speciale, eh? Voglio dire, le ho dato solo un’occhiata di sfuggita, ma sai bene che ho un sesto senso per queste cose…”

“Certo Matt.” Rispose lui, come distratto. “Un sesto senso…”

“Beh senti, hai detto che è nuova no? Invitiamola a pranzo, così me la presenti.”

“Ma non ti vedevi col tuo gruppo di canto a cappella a pranzo?” registrai il tono vagamente ironico.

“Ha-ha, divertente. Comunque no…” sentì Fran ridacchiare sotto i baffi, e quel suono mi fece sorridere a mia volta. Erano un paio di file dietro di me e dovetti trattenermi per non voltarmi. “E’ un gruppo di dibattito. E non c’è niente come un’attività extra curricolare per conoscere ragazze.”

“Quindi hai da fare, giusto?”

“Ci sono cose per cui uno sacrifica il molto per il poco. O meglio, le molte per l’unica. Quella è una per la quale posso rimandare il mio gruppo di dibattito.”

“Ok, ok…” Quindi mi avrebbero invitata a pranzo. Forse dopotutto… “Comunque no, non la invitiamo. Vai al tuo dibattito.”

“Ma-” “No. Ora lasciami seguire.” Chiuse Fran secco.

Il mezzo sorriso che mi era rimasto in faccia scomparve. Cosa diavolo era appena successo? Non capivo. Non capivo la definitività del suo tono, l’asprezza nella sua voce, la decisione di non aver a che fare con me dopo la lezione. Che cosa avevo fatto? Quel suo modo di fare guardingo, quella sua diffidenza nei miei confronti… Che avesse intuito qualcosa?

Non credevo di essermi tradita. Insomma, il suo odore era particolare a dir poco, ma non poteva, non poteva assolutamente aver visto il mostro. Ero attenta.

Poi, ecco un’idea. Gli umani, i maschi umani, sono avidi e gelosi delle loro conquiste. Probabilmente aveva intuito un mio interesse per lui, e non voleva “dividermi” con l’altro, Matt. Doveva essere così. Lo avrei avvicinato di nuovo, alla fine della lezione, lo avrei invitato a pranzo.

Solo che lui non avrebbe mangiato.

La lezione passò lenta, il professore non fece alcuna pausa e io non mi girai per controllare Fran. Anche perché sapevo benissimo dov’era e come stava. Come prima, individuai il suo odore e il battito del suo cuore. Con un po’ di impegno imparai a distinguere anche il suono del suo respiro, regolare, profondo, quasi vellutato. Mi accorsi dopo qualche minuto che quel suono, quel ritmo, pareva quello della risacca dell’oceano. Aveva su di me un potere estremamente calmante, quasi che contrastasse la sete.

Incredibilmente, rimanendo concentrata sull’andamento del suo respiro, nonostante il dolore perenne della sete, mi sentivo molto meno propensa ad agire, a colpire. Bizzarro.

La lezione finì ed io, immersa nella contemplazione di questo nuovo fenomeno, me ne accorsi solo quando gli studenti nella fila di fronte a me si alzarono, spezzando l’incantesimo. Persi Fran, nel chiacchiericcio che si accese immediatamente, ma mi bastò girarmi per trovarlo, in piedi al suo posto, gli occhi su di me.

Questa volta fui io a coglierlo di sorpresa, perché chinò il capo arrossendo.

Lasciai che tra me e lui, uscendo dall’aula, si frapponessero diversi gruppetti di ragazzi, che sciamavano tutti verso la mensa. Tenni d’occhio, per quanto possibile, la sua nuca, ma il mio pedinamento non fu impegnativo, perché evidentemente si stava muovendo per andare a pranzo, come tutti.

La mia occasione si presentò poco dopo quando, ad una biforcazione salutò il suo compagno di stanza e si avviò da solo, rimanendo col grosso di quelli che si muovevano verso gli edifici della mensa. Mi avvicinai a lui.
“Ehi… E’ Fran, giusto?” chiesi, affiancandomi e tenendo il suo passo. Lui sobbalzò, e si girò a guardarmi.

“Oh-” fece, sorpreso, inarcando le sopracciglia. “Ciao. Sì, mi chiamo Francis. Fran solo per gli amici.” Concluse, non capii se per educazione o per puntualizzare che non ero sua amica. La cosa mi indispettì, con mia sorpresa. Stavo diventando paranoica.

“Mi piace Francis, è un nome che ha carattere.” Buttai lì, allungando la mano. “Io sono Keelin, Kay per gli amici.”

Lo vidi allungare la sua, e già mi pentii di quel gesto, che avevo fatto in automatico, senza pensare. Come avrebbe reagito al contatto con la mia pelle? Stranamente, quasi anche lui si fosse accorto che non sarebbe stato saggio, tramutò quel movimento in un altro, portando la mano al suo polso sinistro, per spostare la manica del maglione e controllare l’ora, imbarazzato.

Io abbassai la mia mano, imperturbabile, almeno all’esterno. Questo ragazzo era un mistero.

Forse, dopotutto, non lo avrei aggredito, almeno non subito. Evidentemente sospettava qualcosa, o il suo istinto funzionava molto meglio di quello di tanti altri, ma la cosa scatenava in modo potente la mia curiosità. Ora volevo davvero invitarlo a pranzo, mangiare con lui –meglio, guardarlo mentre mangiava qualcosa- e indagare. Ancora un po’…

Magari sarei poi andata a prenderlo questa notte.

“Allora, Francis… Mangi qualcosa?” Domandai, alzando di nuovo il viso verso di lui con un sorriso. Lui mi guardò negli occhi per un istante, ma li distolse subito.

“Sì…” iniziò, a disagio. Corrugò la fronte, ma non riuscivo a vedere i suoi occhi, il che mi lasciava interdetta. Cosa gli frullava per la testa? “…ma devo vedermi con Matt, per il lavoro che ci ha assegnato il prof…” proseguì, lasciando la frase in sospeso.
Una balla. Una balla bella e buona, ecco cos’era. A che gioco stavamo giocando? Era chiaro che, quando aveva detto all’altro che non avrebbe mangiato con me, era serio. Mi ripresi e cambiai tattica, usando quella nuova informazione che, tra l’altro, mi ero persa nel corso della lezione passata.

“Beh, dovrò farlo anche io. Magari potremmo lavorare assieme…”

Lui indugiò. Era evidente che lo stavo mettendo alle strette, ma feci del mio meglio per sfoderare l’aria triste ed impaurita di una piccola studentessa in un nuovo e grande mondo. Non volevo farmelo scappare.

Francis si fermò, sentii il suo respiro accelerare.

“Non saprei, dovrei prima parlarne con lui…” Stava svicolando di nuovo. Ero indispettita e al contempo ammirata dalla sua forza di volontà, anche se lo vedevo farsi sempre più agitato. “Ascolta, devo salire un attimo in camera mia, poi mangerò qualcosa di sopra. Ne parlo con Matt e ti faccio sapere, ci vediamo in giro.”

Parlò in fretta senza lasciarmi il tempo di ribattere. Mi guardò, con un’occhiata a metà tra l’imbarazzato e l’impaurito, fece ancora, come poco prima, un paio di passi a marcia indietro, dopodiché si voltò e si diresse verso un edificio a tre piani, con una grossa lettera F accanto all’ingresso.

E io restai lì, impalata, senza parole, mentre la mia curiosità afferrava il mostro che si agitava nella mia testa e, sollevandolo per la collottola come un micio, lo gettò in una gabbia reclamando il comando.

Cosa stava succedendo?
 
 
***
 
“Ehm…” La voce mi uscì più incerta di quanto volessi, ma se non altro era un inizio. Mi forzai a proseguire. “Certo, nessun problema.” Fatto. Gran bel lavoro, neanche mi stessi riprendendo da un trauma cranico. Mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso, che mi aiutò a stemperare la strana tensione che mi aveva preso.

Mi avviai verso l’uscita. O almeno, cercai di convincermi che era il caso di farlo. I miei piedi però mi rimasero saldamente incollati a terra, così ondeggiai sul posto, come un marinaio sulla terraferma.

La questione era semplice, se mi fossi avviato per primo le avrei dato le spalle, ed era una cosa che non potevo fare. Era un rischio che- Ma cosa cavolo andavo farneticando? La vidi inclinare la testa, in attesa. Sembrava una bambolina, probabilmente bagnata e con le tasche piene di sassi arrivava a 40 chili. Cosa avrebbe fatto, mi avrebbe tagliato i garretti? E poi, da dove arrivava questo senso di minaccia?

Mi avviai. O meglio, tentai e fallii di nuovo, così, per non sembrare pazzo, o almeno, non troppo, feci l’unica cosa che speravo sembrasse sensata. Indicai l’uscita.

“Prima le signore, usciamo di là.”

Lei guardò me, scrutandomi, poi la porta. Infine, con mio grande sollievo, vi si diresse. E io dietro di lei.

Mi presi un secondo per fare i conti con quella nuova, aliena presenza nella mia testa. Era completamente fuori da ogni insegnamento, esperienza o convenzione sociale che avessi mai sperimentato. Mi suggeriva un modo di comportarmi che non mi si confaceva, ma che allo stesso tempo sapevo essere a mio vantaggio. Probabilmente, se fossi stato uno sportivo, lo avrei riconosciuto per quello che era. Istinto.

Forse, più che uno sportivo, avrei saputo dargli un nome se fossi stato vestito di pelli, con una torcia in una mano, una lancia nell’altra, in una grotta, con una tigre dai denti a sciabola davanti.

Quello che mi urlava dal fondo del mio cervello, sotto a tutta la mia educazione, sotto tutte le mie conoscenze, era puro istinto di sopravvivenza. E non quello che ti solletica quando stai per attraversare una strada e ti ricorda di guardare da entrambe le parti, o che ti impedisce di sporgerti da un balcone. Questo era forte, e pretendeva ascolto. Anzi, si imponeva e prendeva le redini.

Ma cosa mai aveva risvegliato in me questo scomodo essere primitivo? Lasciai vagare lo sguardo sulla ragazza, sui suoi splendidi capelli che ora, all’esterno, sotto la luce del giorno, erano come in fiamme. Non osai pensare a come sarebbero stati sotto la luce del sole. Non potei farne a meno, lasciai che i miei occhi seguissero quella figura, che ancheggiava incredibilmente aggraziata sul sentiero che stavamo seguendo.

Quasi le finii contro quando si fermò. Ancora una volta i miei piedi, come se si muovessero per i fatti loro, si fermarono a quella che era la distanza di sicurezza.

“Da che parte?” chiese. Le indicai la strada, e mi avviai con lei, combattendo col mio corpo per affiancarmi a lei, senza riuscirci. Mi imponevo di restarle dietro, quel tanto che bastava per tenerla d’occhio. Dovevo sembrarle maledettamente ridicolo. Questo nuovo pensiero mi riscosse un po’, spingendomi a provare quantomeno a fare un minimo di conversazione occasionale, giusto per non passare per uno stramboide fatto e finito.

“Da dove arrivi?” “Dublino. Mio padre si è trasferito qui per lavoro.”

Risposta stringata, forse avevo già fatto una pessima impressione. Non volevo fosse così. Certo, a quanto pareva una parte strana e paranoica del mio cervello era convinta che fossi in pericolo mortale, o qualcosa così, ma lei era davvero bella. Lo notai mentre scrutavo quello che riuscivo del suo profilo, approfittando del fatto che guardava davanti a sè.

Tratti dolci, delicati, un naso appena camuso, zigomi alti, le sopracciglia le davano un’aria fiera ma la bocca e le guance erano dolci, le labbra perfette spiccavano su quella sua pelle così bianca… Appena notai quel particolare un brivido mi fece scuotere le spalle, ma lo attribuii al freddo. Anche se non lo avevo.

Mi forzai di essere simpatico, dovevo salvare il salvabile. Richiamai alla memoria il modo che aveva mio nonno di esprimersi, quel vecchio macellaio immigrato da Galway. “Ah, l’Irlanda! Io stesso ho degli antenati che vengono da quella bellissima e verde terra!”

Mi uscì abbastanza bene, la sua risata ne fu una conferma. Non rabbrividii stavolta, anzi. Sentirla fu come un bagno caldo. Era piena, melodiosa, un suono bellissimo.

Sorridevo quando lei si voltò per rispondermi, facendomi il verso. “Davvero niente male!”

Notai quei suoi occhi ambrati dardeggiare, per un momento alle mie spalle, prima che tornasse a guardare avanti. Non avrei saputo spiegare perché ma la cosa mi inquietò. Cosa c’era alle mie spalle? Cosa c’era davanti a noi?

All’improvviso la sua sagoma, la sua piccola silhouette che si stagliava sull’ombra del sottopasso che stavamo per imboccare, mi parve spaventosa. Rallentai. Ero restio a seguirla lì sotto e, anche se non capivo come mai, iniziai febbrilmente a cercare una scusa per non doverlo fare.

Mossi un altro passo. Era stupido, non c’era niente che non andava, non avevo paura del buio, dovevo solo continuare a camminare.

Ancora un passo. Annaspavo, stavo per aprire bocca e dirle che avevo dimenticato qualcosa. Che avevo un appuntamento. Che stavo male. Dovevo fermarmi.

Ci fu un tonfo, poco distante.

“Ehi, Fran!” urlò una voce, dietro di noi. “Aiutino?”

“Oh, certo Matt!” Ero salvo. Non mi preoccupai di analizzare quella sensazione di sollievo stavolta. La cavalcai e basta. Era come se mi fosse stato tolto un peso dal petto. Non lo nego, fuggii. Cercai di farlo dignitosamente, ma fu quello che feci. “Scusa l’intoppo, l’aula è quella laggiù, la vedi da qui.” Gliela indicai. “E’ il mio compagno di stanza, sta finendo di portare su la sua roba.” Buttai lì a mo’ di scusa, fingendomi esasperato.

Lei sorrise, un sorriso assolutamente normale. “Nessun problema, vai pure. CI vediamo in aula.”

Lieto che non avesse notato il mio strano comportamento, restituii il sorriso e la salutai con un cenno della mano. Indietreggiai di un paio di passi, per non concederle le spalle, poi mi voltai, una volta al sicuro.

Mi diedi dello stupido. Che cavolo stavo facendo?

Risposi meccanicamente a qualche frase di Matt, mentre raccoglievo da terra lo scatolone, e mi avviai con lui verso la nostra stanza. Conversai col pilota automatico, ascoltando alcune sue battute su qualcuno o qualcosa che aveva fatto l’estate appena passata, qualcosa che aveva a che fare col contenuto della mia scatola, ma ero preso a indagare su cosa accadeva nella mia testa.

Era estenuante, non mi era mai capitato di sentirmi un estraneo lì dentro. Era così che si diventava pazzi? Fatto sta che sentivo sempre meno la presenza del mio primordiale amico ansioso, man mano che il tempo passava ed ero lontano dalla nuova ragazza. Però, a quel punto, un’altra emozione si faceva strada. Mi tornarono in mente la sua risata, il modo in cui mi aveva sorriso e mi aveva guardato.

Ne volevo ancora.

Volevo rivederla, volevo parlare con lei di nuovo. Pensavo a lei e cercavo la presenza di quella strana paura, ma non c’era. Era lei ad essere pericolosa o era il mio cervello a fare le bizze? Magari se mi concentravo su un’altra persona, mi sarebbe sembrata pericolosa anche quella? Lo ammetto, sparavo nel buio…

Mi misi a fissare Matt mentre sistemava le sue cose, dalla porta della stanza. Niente. Forse non mi stavo impegnando abbastanza. Mi concentrai, conscio di quanto la cosa fosse stupida, finchè lui non alzò la testa.

“Cosa?”

“Cosa cosa?” dissi, facendo finta di niente.

“Ho qualcosa in faccia?” disse, portandosi istintivamente una mano al naso.

“No no…” “Beh, allora piantala di fissarmi, strambo.” Mi disse, sghignazzando.

“E’ solo che sei più bello di come ti ricordavo. Probabilmente mi sto innamorando di te. Andiamo che è tardi.” Scherzai voltandomi.

“Come no…” Fece lui allegro, seguendomi. “Non è che invece stai pensando alla rossa di prima? Effettivamente era una da amore a prima vista.”

Mugugnai qualcosa di vago in risposta, infastidito da quanto era andato vicino alla verità.

Entrammo in aula a lezione iniziata, sedendoci verso il fondo. Neanche fosse stata una calamita, trovai subito la testa che cercavo in mezzo all’aula. La notò anche Matt. “Guardala, eccola lì! Come hai detto che si chiama?” “Non l’ho detto, non lo so…”

Tornò l’inquietudine, ora che ero nella stessa stanza in cui lei si trovava. Sembrava una cosa da sci-fi, una capacità paranormale. Come se ci fosse un legame, o se lei esercitasse una sorta di potere su di me. Assurdo.

“Certo che… È qualcosa di speciale, eh? Voglio dire, le ho dato solo un’occhiata di sfuggita, ma sai bene che ho un sesto senso per queste cose…”

“Certo Matt. Un sesto senso…” che ce lo avessi io invece un sesto senso? Per il pericolo mortale che lei rappresentava? Sembrava fosse proprio così, non fosse che non capivo perché dovessi considerarla pericolosa. Era proprio una cosa da fuori di testa.

La stavo ancora fissando, e mi costrinsi a voltare lo sguardo sulla cattedra. “Beh senti, hai detto che è nuova no? Invitiamola a pranzo, così me la presenti.” Trovavo Matt e i suoi soliti modi di fare stranamente irritanti, ma forse era solo quella situazione a stressarmi.

“Ma non ti vedevi col tuo gruppo di canto a cappella a pranzo?” domandai ironico, dal momento che lui era sempre preso per una cosa o per l’altra. Non che gli interessasse un granché quello che faceva, ma era un animale estremamente sociale, cercava sempre di attaccare bottone con qualche nuova ragazza.

“Ha-ha, divertente. Comunque no…” ghignai, perché dal suo tono avevo capito di averci preso. “E’ un gruppo di dibattito. E non c’è niente come un’attività extra curricolare per conoscere ragazze.”

Appunto. “Quindi hai da fare, giusto?” “Ci sono cose per cui uno sacrifica il molto per il poco. O meglio, le molte per l’unica. Quella è una per la quale posso rimandare il mio gruppo di dibattito.”

“Ok, ok…” Non potevo certo dargli torto, ma la prospettiva di un pranzo a quattro, con la nuova studentessa, Matt, e quella morsa che mi stava prendendo lo stomaco, non mi faceva fare i salti di gioia. “Comunque no, non la invitiamo. Vai al tuo dibattito.”

“Ma-” “No. Ora lasciami seguire.” Intimai, più che altro per avere un momento di tregua.

Lasciai passare la lezione, seguendo un po’, nonostante tutto. A fine lezione mi alzai, cercandola ancora con lo sguardo. Neanche a farlo apposta lei si girò, trovandomi, e mi affrettai ad abbassare la testa. Era telepatica?

Fu un sollievo uscire dall’aula, all’aria aperta.

Parlai un poco con Matt, a proposito della consegna che avevamo ricevuto a lezione, poi lui si separò da me, per andare al suo pranzo. Feci per cercare le cuffiette in tasca, per ascoltare un po’ di musica, quando una voce fin troppo familiare, per le volte che l’avevo sentita, mi colse ancora una volta alla sprovvista.

“Ehi… E’ Fran, giusto?”

Sobbalzai. E mi maledissi per averlo fatto mentre mi voltavo verso il suo viso. Che era bello come me lo ricordavo. “Oh-” Possibile che mi rendesse incapace di parlare ogni volta? La cosa iniziava ad essere ridicola. Se non altro mi riscossi un po’ più in fretta. “Ciao. Sì, mi chiamo Francis.” Mi sentii in dovere di specificare, di prendere le distanze. “Fran solo per gli amici.”

Mi rendevo conto che poteva suonare antipatica come puntualizzazione, ma non riuscii ad impedirmelo, sentivo che era meglio così.

“Mi piace Francis, è un nome che ha carattere.” E a me piacque come suonava il mio nome sulle sue labbra. Forse troppo. “Io sono Keelin, Kay per gli amici.” Si presentò lei, tendendo la mano per stringermela.

Ancora una volta, pensai di muovermi in un certo modo, ma il mio corpo fece dell’altro. Volevo stringerle la mano, lo volevo davvero. Ma non lo volevo, me ne ritrassi come da una pentola bollente. Per un breve istante annaspai, cercando di capire come fare per dissimulare, infine optai per uno sguardo all’orologio.

Che babbeo. Era un disastro su tutta la linea, ancora poco e non avrebbe più voluto parlare con me. Mi sentivo scoraggiato ma sentivo anche un certo sollievo. Se fossi riuscito ad allontanarla sarei stato al sicuro. Abbassai lo sguardo, abbastanza mortificato.

“Allora, Francis… Mangi qualcosa?” Doveva essere una masochista, se insisteva a parlarmi. La guardai, ma solo per un istante, non dovevo farmi cogliere ancora alla sprovvista da quegli occhi. Mi sentii galvanizzato per un momento, forse era davvero interessata a me, se mi chiedeva del pranzo.

“Sì…” cominciai, e stavo quasi per invitarla a mangiare con me. Mi ci vedevo, seduto con lei a scherzare un po’, a parlare del più e del meno, magri sentendola di nuovo pronunciare il mio nome…

Poi, più forte che mai, tornò il nodo allo stomaco, a suggerire che quella era l’idea più stupida che ci fosse. Mi corrucciai, perplesso, ma non avevo il controllo, non su quello. E la cosa, lo ammetto, un po’ mi spaventava. Scodellai la prima scusa che mi passava per la testa.

“…ma devo vedermi con Matt, per il lavoro che ci ha assegnato il prof…”

“Beh, dovrò farlo anche io. Magari potremmo lavorare assieme…” suggerì.

Mi sentivo un verme, a giudicare dal suo viso ci sperava davvero, e intuii che fosse perché era nuova, sola, e per qualche motivo cercava la mia compagnia. A vederla da fuori sembrava che io facessi di tutto per allontanarla, come se non volessi averci nulla a che fare… E invece mi sarebbe piaciuto. Solo che…

“Non saprei, dovrei prima parlarne con lui…”

Avevo bisogno di pensare, di stare solo, di capire perché la mia mente lottava contro di me. Iniziavo ad agitarmi, forse stavo davvero perdendo la testa. Questa paura razionale si univa a quella irrazionale e incomprensibile che provavo, che mi faceva temere per la mia vita. Mi sentivo affogare in questa confusione, tanto che inizia a respirare più in fretta, cominciava a mancarmi l’aria…

“Ascolta, devo salire un attimo in camera mia, poi mangerò qualcosa di sopra. Ne parlo con Matt e ti faccio sapere, ci vediamo in giro.”

Prima di rendermene conto ero lanciato, a passo di marcia, verso il mio dormitorio, sollevato e confuso.

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