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Autore: sailormoon81    25/03/2009    6 recensioni
E' una domenica mattina quando qualcuno bussa alla porta di casa Chiba con una lettera e una bambina: la figlia di Usagi...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incompiuta
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1.

La voce del Tokyo Magazine

 

 

Il suono insistente della sveglia pose fine al mio sonno.

Svogliatamente, allungai una mano sul comodino e, senza curarmi di essere delicato, afferrai quell’arnese infernale e lo lanciai a terra.

La sera precedente avevo fatto le ore piccole, e adesso ne pagavo le conseguenze.

A fatica, aprii gli occhi: la luce del giorno filtrava attraverso le persiane ancora abbassate, e mi ci volle un po’ per abituarmi a quella lieve luminosità.

Mi alzai e in pochi minuti mi preparai per un nuovo giorno di lavoro; mi osservai allo specchio, soddisfatto: barba fatta di fresco, capelli perfettamente ordinati, giacca, cravatta. Sì, tutto come sempre, perfetto come sempre.

Un rapido caffé e un saluto a Fiamma, il mio pesce rosso, ed ero già in strada.

Erano appena le sette e trenta, ma la città era nel pieno della sua attività. La temperatura era mite, nonostante l’inverno fosse alle porte, e decisi che, per quella giornata, avrei fatto a meno dell’auto, in favore di una breve passeggiata a piedi.

Guardandomi intorno, potevo rimirare il mio volto un po’ ovunque: Mamoru Chiba, la voce del Tokyo Magazine. Ero un’istituzione, in città: i miei articoli attiravano ogni giorno sempre più consensi, nonostante i toni graffianti e la pungente ironia che caratterizzavano ogni mio scritto.

Tutto questo non poteva che essere una carica per il mio ego, di prima mattina. Mi fermai pochi minuti per acquistare una copia del Magazine, e come consuetudine mi trovai a rispondere alle molte occhiate lanciate in mia direzione.

“Il solito per lei, signor Chiba?” chiese il vecchio edicolante, allungandomi una copia del giornale.

“Grazie, Archie.” Sorrisi sincero: l’uomo, arrivato fin qui dall’america tanti anni prima, era stato uno dei primi a credere in me quando, ancora bambino, gli tenevo compagnia dopo la scuola e gli facevo leggere i miei articoli per il giornaletto scolastico. Trovavo strano sentirmi chiamare signor Chiba da qualcuno che, praticamente, mi aveva visto crescere, ma ogni volta che provavo a farglielo notare, Archie mi ripeteva sempre che il rispetto era d’obbligo per chi si era fatto strada da solo.

“Anche oggi le ragazze fanno a gara a chi riceverà il saluto del giorno, eh?” commentò, alludendo alle donne che, tutte le mattine, si fermavano vicino la sua edicola, sperando di poter scambiare anche solo una battuta con me.

Sorrisi in sua direzione. “Che vuoi farci, Archie: è il prezzo del successo. Quando alla popolarità si aggiunge anche il mio fascino…” dissi, non terminando la frase come a voler enfatizzare l’ovvio.

Salutai l’uomo e lo sentii ridere, prima di rivolgersi a un nuovo cliente: “Io l’ho visto crescere, quel ragazzone. Dovevate vederlo, quando a sette anni si lamentava perché avevo terminato il suo giornalino preferito… E ora? Guardatelo: ora è lui a scriverli, i giornali.”

Potevo quasi vedere la sua espressione nel parlare di me, e non faticavo neanche a immaginare il volto esterrefatto del cliente di turno che, incurante del ticchettare dell’orologio, si tratteneva qualche secondo in più del dovuto, solo per ascoltare il vecchio Archie.

Ormai non mi stupivo più di questa popolarità: gli uomini volevano essere come me, e le donne sognavano di finire, un giorno o l’altro, tra le mie braccia.

Ero consapevole di questo effetto sugli altri, e non mi preoccupavo a mostrarmi modesto con chi me lo faceva notare. Nonostante non avessi neanche trent’anni, ero considerato lo scapolo d’oro della città, e non solo per i soldi che, onestamente, non mi mancavano.

Potevo dire tranquillamente di essere un giovane di bell’aspetto, con un fisico da atleta e lo sguardo penetrante da divo del cinema.

L’unico mio difetto era il carattere: asociale e pragmatico fino al midollo, ero fiero di non dover mai chiedere niente a nessuno; ero arrivato al successo grazie alle mie sole forze, e non potevo permettermi di rovinare la mia carriera per qualche debolezza momentanea, o qualche sogno irraggiungibile di troppo.

La mia vita era perfetta. Non potevo desiderare altro.

 

Giunsi in ufficio con largo anticipo sul mio orario di lavoro, e trovai ad attendermi Rei Hino, la collaboratrice del direttore, Ikeda Eishi.

“Ben arrivato, Mamoru” salutò, scostandosi dalla porta del mio ufficio quel tanto che bastava perché potessi entrare.

“Ciao, Rei. A cosa devo l’onore della tua visita, prima ancora del mio arrivo?” chiesi.

Prima di rispondere, aspettò che mi fossi spogliato del cappotto e sistemato sulla sedia, dietro la scrivania. Non perse tempo e, dopo aver fatto il giro del tavolo, si sedette su di esso, lasciando che la gonna, già corta, le salisse ancora di più, mettendo in mostra le sue gambe ben tornite.

“Ti vedo stanco, Mamoru. Un’altra notte passata con qualche bella donna nel tuo letto?” domandò, passandosi una mano tra i capelli scuri.

Sospirai. Non ero tipo da esternare la mia vita privata al primo venuto. E meno che mai a Rei Hino: tempo addietro avevamo avuto una relazione, e mi sentivo a disagio parlare con lei delle mie nuove avventure.

“Rei, non credo tu sia qui per sapere come ho trascorso la notte” dissi, lapidario. “Mi dici cosa vuoi? Ho molto lavoro da fare, oggi.”

Il sorriso sul suo volto sparì all’istante. Mi dispiaceva essere duro con lei, ma non mi lasciava altra scelta.

Scese dalla scrivania e si ricompose. “Volevo solo essere gentile e augurarti una buona giornata.”

Senza attendere una mia replica, si voltò e uscì dall’ufficio.

Scossi il capo, provando a scacciare l’immagine di Rei dalla mia mente: ormai erano trascorsi quasi due anni da che ci eravamo lasciati, ma a quanto pareva Rei non aveva capito che, da parte mia, non c’era più alcun interesse nei suoi confronti. Certo, attraente lo era, e anche molto. Solo che lei cercava una relazione seria, ed io non mi sentivo pronto a un legame duraturo; ero giovane, e potevo avere tutto ciò che gli altri solo sognavano: perché rinunciare alla libertà, quando non se ne sente il bisogno?

Aprii la casella di posta elettronica, e i trenta nuovi messaggi mi fecero sorridere di compiacimento.

“Cosa le hai detto, stavolta?”

Alzai lo sguardo e vidi il mio collega fissarmi dalla porta.

“Ciao, Motoki.”

“Allora, Mamoru? Cosa hai fatto per farla arrabbiare tanto, di prima mattina?” domandò, accomodandosi nella sedia di fronte a me.

“Le ho solo ribadito che non deve interessarle ciò che faccio, nella vita privata.”

Annuì, come a voler dire che aveva inteso la situazione.

Motoki Furuhata era da sempre il mio migliore amico, l’unico a cui avevo permesso il lusso di conoscermi per come fossi realmente. “E a cosa devo quelle occhiaie profonde?”

Istintivamente, portai la mano sotto gli occhi, massaggiandoli. “Il solito, Motoki. Partita a biliardo al pub, qualche birra di troppo e una rossa tutto pepe con cui trascorrere gran parte della notte.”

“Mamoru, Mamoru” commentò, con lo stesso tono con cui si rimprovera un bambino che ha combinato un guaio. “Se continui così, rischi di restare solo in eterno.”

Lo fissai a mia volta. “Sono ancora giovane, per pensare di metter su una famigliola felice.”

Sospirò. “E che male ci sarebbe nel desiderare una famiglia, un giorno?”

“È questo il punto: un giorno. Ora, voglio solo godere appieno della mia condizione” dissi, alzandomi e dirigendomi verso la macchinetta del caffé del mio ufficio. Con un lieve movimento della mano chiesi se ne volesse anche lui, e a un cenno negativo mi versai un abbondante bicchiere di caffé bollente.

“Guarda me e Makoto: stiamo bene insieme, ma non per questo rinunciamo alla nostra libertà…”

Motoki e Makoto Kino erano una coppia da che li avevo conosciuti. Lui, ai tempi del liceo, lavorava part-time in una sala giochi, e lei era la nipote del proprietario del locale. Erano cresciuti praticamente insieme, e da subito si erano piaciuti.

Molte volte, osservandoli, avevo desiderato ciò che loro due avevano trovato l’uno nell’altra, ma nessuna delle ragazze con cui ero stato mi aveva spinto a desiderare una relazione che andasse oltre l’avventura di una notte, o poco più.

Forse con Rei ero andato davvero molto vicino a qualcosa di simile alla relazione del mio migliore amico, ma il terrore di legarmi a qualcuno, e di conseguenza di poter stare male per qualcuno, aveva avuto la meglio, e a ventott’anni suonati ero felicemente single.

“Sai come sono fatto, Motoki. Una donna, per stare con me, non deve avere alcuna visione del nostro futuro insieme. E, forse, potremmo avere anche qualcosa che si avvicini lontanamente ad una relazione sentimentale.”

“Come vuoi tu, amico” commentò. Si alzò e, mani in tasca, lasciò il mio ufficio.

Motoki era un amico fantastico. Sapeva perfettamente quando era il momento di parlare, e quando, al contrario, era meglio tacere.

Non ricordavo come eravamo diventati tanto uniti, ma la sua presenza nella mia vita, benché non gliel’avessi mai detto, era molto importante.

E sì che eravamo diversi in tutto. Lui, con i capelli biondi e i suoi occhi azzurri, sembrava il classico principe azzurro delle fiabe, dedito al romanticismo in ogni sua forma.

Dal canto mio, detestavo tutte quelle coppiette che sbrodolavano miele a ogni ora del giorno; mi sembravano comportamenti stereotipati, che non mi appartenevano. E questa non spontaneità era stata, più di una volta, motivo della fine di tutte le mie relazioni: sentivo di non piacermi più, e non potevo arrivare al punto di odiare me stesso, diventando un burattino nelle mani degli altri.

Da qui, a diventare il Don Giovanni amato da tutti, il passo era stato breve.

Ritornai alla scrivania e aprii i vari messaggi di posta elettronica.

Come da programma, la maggior parte erano commenti rivolti più alla mia persona, che al mio lavoro di giornalista, e solo qualcuno sembrava aver letto sul serio la mia rubrica. Ormai era normale routine, e non mi curavo di quelle e-mail il cui mittente era una donna: non mi andava di prestare più attenzione del dovuto all’ennesimo messaggio contenente frasi del tipo “Sei un uomo fantastico” oppure “Se non sei già impegnato, potremmo incontrarci per bere qualcosa, e poi chissà”. Per quanto all’inizio fossero estremamente lusinghieri, alla lunga rischiavano di mettere in dubbio le mie capacità scrittorie, se tutto ciò che risultava dalla lettura di un mio pezzo erano commenti personali.

Non mi lasciai scoraggiare da questo particolare e, con buona disposizione d’animo, risposi a tutte le e-mail con un cortese “Grazie per aver scelto di trascorrere il tuo tempo in mia compagnia. Spero continueremo ad averti tra i nostri lettori di fiducia. Firmato: Mamoru Chiba, la voce del Tokyo Magazine”.

Per fortuna, esistevano i modelli di risposta già predefiniti, altrimenti avrei impiegato un’intera giornata per rispondere a ognuna di quelle e-mail…

Già in quel modo, trascorsi gran parte della mattinata dedicandomi esclusivamente alle risposte e ai saluti ai lettori.

Mi stiracchiai sulla sedia e controllai l’ora: mancavano poco meno di quindici minuti a mezzogiorno. Avevo ancora un’ora abbondante per presentare un’idea per il numero seguente del giornale.

Aprii la cartella dei vecchi articoli, per evitare di risultare ripetitivo: nell’ultimo anno avevo affrontato talmente tanti argomenti che ne avevo perso il conto. Mentre sfogliavo i documenti, l’occhio mi cadde sulla pubblicità della mostra di arte contemporanea che avevo visitato pochi giorni prima, ed ebbi come l’illuminazione: era da tanto che non mi occupavo di arte grafica, e parlare di quella mostra sarebbe stato sicuramente un’ottima variazione al repertorio dell’ultimo periodo, incentrato per lo più su fatti di attualità e politica.

Iniziai a buttare giù il pezzo, e quasi senza accorgermene avevo già completato le due colonne utili per riempire lo spazio a mia disposizione.

Lo rilessi e non potei fare a meno di complimentarmi per la riuscita del pezzo: ero riuscito a descrivere alla lettera tutti quegli aggeggi più assurdi che avevo avuto il privilegio di osservare, non dimenticando di inserire quel tocco di ironia che mi distingueva da un qualsiasi giornalista. Tra i vari pezzi della mostra che avevano attirato il mio interesse, spiccavano gli arnesi più disparati rivestiti di vernice o tessuti mimetici, e nello scrivere l’articolo non avevo omesso la mia perplessità nell’immaginare un soldato impegnato in missione di guerra che, preso dai morsi della fame, tiri fuori, non si sa bene da dove, un mini-forno foderato in tessuto camouflage e annessi accessori per uno spuntino veloce.

Avrei potuto continuare a descrivere tutte le assurdità viste alla mostra, dalla macchina per cucire in mimetica al set di bricolage per esperti soldatini, ma decisi che, per quel giorno, avevo già fatto abbastanza…

Stampai il documento per poterlo portare personalmente a Ikeda, prima che fosse lui stesso a richiederlo: ormai, era diventata un’abitudine che il direttore in persona leggesse i miei pezzi prima che andassero in stampa. Lui affermava che voleva essere il primo a complimentarsi con me per le idee più disparate, ma io credevo si trattasse di sana preoccupazione per come quelle idee venivano buttate fuori…

Attraversai quasi controvoglia il corridoio che separava la mia stanza da quella di Ikeda. Intorno a me, i miei colleghi lavoravano senza sosta, e solo qualcuno sembrava essersi accorto che l’ora del pranzo fosse passata da un pezzo.

Bussai alla porta di Ikeda, ma non ottenni risposta.

Rimasi a fissare le pareti bianche, quasi asettiche, per qualche minuto, prima di decidermi a tornare sui miei passi. Trovavo strano che il direttore non fosse in ufficio, specie perché non aveva dato a nessuno indicazioni su cosa fare del mio articolo, prima che andasse in stampa. Pensai che, forse, Ikeda avesse deciso che non valeva la pena controllare, giornalmente, il mio operato.

Stavo per rientrare alla mia postazione, ma mi scontrai nuovamente con Rei.

“Bene, stavo per venire da te” sorrise, quasi provocatoria.

La guardai sospettoso. “È successo qualcosa di grave?” domandai. “Cercavo Ikeda, ma non è nel suo uffcio…”

Mi fece cenno di seguirla nella sua stanza e, una volta dentro, mi porse alcuni documenti.

“Non capisco” ammisi, dopo avervi dato una rapida occhiata. Ed era vero: quei fogli mettevano a confronto i costi per l’acquisizione di una nuova testata giornalistica con quelli di uno show televisivo.

“Chiarisco subito. Ikeda vuole acquisire un nuovo giornale. È una testata di provincia, e sta valutando l’ipotesi di assorbirla al nostro, dato che non sta dando molti frutti.”

“Bene. E il resto?”

“Lo show televisivo? Presto detto: si pensa a un programma televisivo in cui discutere di tutto e di più. E indovina chi potrebbe essere il conduttore?”

Mi domandai se avessi capito bene. Rei, leggendo il mio stupore, continuò: “Ikeda ha capito che ti si può dare più libertà di espressione, senza necessità di continui controlli, e per dimostratelo ha intenzione di lanciare un nuovo programma di attualità e cronaca, tutto tuo. O in alternativa, di lasciarti dirigere il giornaletto.” Lo sprezzo nelle sue parole era evidente. “Il consiglio di amministrazione deve scegliere se portare avanti il nuovo giornale o avviare lo show.”

Era una notizia niente male, e non capivo come potesse essere un problema, specialmente se, come aveva detto Rei poco prima, quel giornale di provincia fosse a un passo dal baratro. Lo dissi alla collega, e la sua risposta mi fece gelare il sangue: “Hanno capito che se vogliono stare in piedi devono darsi da fare” commentò, porgendomi un quotidiano, “e hanno dato corda alla loro migliore rubrica.”

“Continuo a non seguirti, Rei. Puoi essere meno enigmatica, e dirmi cosa c’entra La posta del cuore di Lady Tsukino con tutto il resto?”

“In una sola settimana, e cioè da quando Ikeda ha annunciato di volerli accorpare a noi, questa Lady Tsukino sta facendo faville, e le vendite sono aumentate del quindici percento. In una sola settimana!”

E tutto mi fu chiaro.

Rei se ne accorse, forse perché assunsi un’espressione di chi è condannato al patibolo.

“Se hanno successo, puoi salutare i tuoi sogni di gloria e iniziare a fare le valigie. Diventeresti il nuovo direttore del giornalino degli scout” sorrise, e giurai che fosse quasi contenta di quella situazione.

Ma non mi importava di Rei, in quel momento.

Avrei dovuto inventarmi qualcosa, oppure avrei detto addio alla mia vita perfetta.

 

 

 

 

Accidenti, quanti lettori già nel prologo **

Spero di non avervi delusi con questo capitolo…

Prima di andare avanti, è bene sottolineare che il cambio di registro usato è del tutto voluto ^^

Il progetto per questa fic prevede due parti ben distinte: nella prima, che ha avvio con questo capitolo, vediamo Mamoru raccontare la sua vita (o almeno i fatti che a noi interessano ^^); nella seconda parte, ritorneremo ad assistere alle vicende della nuova famiglia Chiba: Mamoru, Setsuna e Chibiusa, e se tutto va come spero dovrei riuscire a dare risalto ai numerosi cambiamenti che questa vita a tre comporta.

 

Vorrei promettervi un aggiornamento ogni tot di tempo, ma so già di non potermelo permettere, e non mi piace venire meno alle promesse…

 

Detto questo, a risentirci con il prossimo capitolo ^^

 

Bax, Kla

 

 

   
 
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