Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    28/02/2016    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

72. Rimprovero e Sfuriata

 

 

1 novembre 1940, Berlino

 

“Razza di sciocchi incoscienti!”

I pugni di Austria tremarono contro i fianchi, le braccia incollate al busto si fecero rigide e tese come paletti, il sangue ribollì tra le dita sbiancate, e due ondate di calore si propagarono come globi di fuoco dentro i palmi chiusi. Scosse di rabbia contenuta fluirono nelle vene, risalirono le braccia e gli fecero tremare le spalle ristrette tanto da sfiorare le orecchie. Austria corrugò la fronte, fitte ombre si stesero sotto gli archi sottili delle sopracciglia inarcate e misero al buio gli occhi che fiammeggiavano dietro le lenti. Luci viola si riflettevano dietro il profilo degli occhiali, l’ombra si addensava attorno alle palpebre, sotto la fronte, e lasciava scoperte le guance rosse di irritazione e la bocca lievemente contratta in una fine piega di rabbia.

Austria strinse di più le dita chiuse a pugno, fece un passetto in avanti e finì immerso nella luce rossiccia del tramonto spanta dalla finestra a forma di architrave che bucava metà della parete. Il riverbero scarlatto intensificò il colore delle sue guance, bagnò le lenti rettangolari alimentando le fiamme che gli danzavano negli occhi.

Prese un piccolo respiro, rimase rigido come un manichino. Il suo sguardo si abbassò, poi tornò alla finestra che si apriva dietro la scrivania posta al centro dello studio.

“Come vi è anche solo passato per la testa il pensiero che possa farcela da solo in una simile situazione?”

Prussia fece dondolare i piedi accavallati sull’orlo della scrivania. Stese le gambe, raddrizzò le ginocchia, e premette tutto il peso delle spalle contro lo schienale della sedia su cui era sdraiato. Le braccia incrociate dietro la nuca, il viso rivolto al soffitto, una guancia sola colorata dal riverbero rossiccio del tramonto, e una matita in bilico in orizzontale sulla punta del naso. Occhi assenti e annoiati fissavano il dondolio della matita che traballava sotto la sua fronte. Occhi di chi non ha ascoltato nemmeno una parola del rimprovero di Austria.

Austria aggrottò la fronte. Un germe di irritazione fiorì nel suo petto, fece di nuovo salire il bruciore nelle vene e infiammare le braci strette in mezzo ai pugni. Aprì e chiuse le dita, stropicciò le falangi. Prudevano.

Austria fece un altro passetto in avanti, di lato, verso la parte in ombra della camera, e incrociò le braccia al petto. Si strinse nelle spalle, rivolse un’occhiata offesa a Germania che guardava fuori dalla finestra, con le mani strette dietro la schiena. Spalle dritte e rigide, viso imperscrutabile, espressione scura, nascosta dall’ombra.

Austria snodò un braccio dall’intreccio sul petto e premette due dita sulla stanghetta in mezzo alle lenti, spinse gli occhiali alla radice del naso e abbassò le palpebre. La vena di disappunto pulsava all’altezza della tempia.

“Avete anche solo una minima idea di quello che gli potrebbe capitare se solo...”

“Se solo perdesse e se l’Asse subisse una sconfitta da parte di una nazione infima come Grecia,” concluse per lui Prussia.

Austria voltò il capo. Le dita restarono premute alla montatura degli occhiali, celavano la sottilissima ruga di rabbia che gli piegava verso il basso gli angoli delle labbra.

Prussia arricciò la punta del naso, diede un piccolo colpo alla matita in bilico, e quella rotolò giù dal suo viso. Prussia tolse un braccio schiacciato tra lo schienale e la sua nuca, e acchiappò al volo la matita. La impugnò come una spada, le nocche divennero bianche e rosse. Impennò il braccio al soffitto e agitò la punta di grafite rivolta al cielo come l’estremità scintillante di una bacchetta magica.

Ingrossò la voce. “Cadrebbe disgrazia su di noi, sui nostri popoli, sull’alleanza, bla bla.”

Ritirò la bacchetta magica, abbassò il braccio e, tirando su le spalle dallo schienale della sedia, piegò entrambi i gomiti contro il tavolo. Spinse una guancia contro il pugno. La mano che stringeva la matita la rigirò tra le dita, facendola roteare come un’elica. Prussia restrinse le sopracciglia, il colore dei suoi occhi si intensificò sotto l’abbaglio del tramonto, divennero rossi e lucidi come grosse perle di sangue appena sgorgate da una ferita.

“Risparmiati queste ciance,” disse, rivolto ad Austria. Fermò il roteare della matita, la strinse di colpo e il legno scricchiolò sotto la pressione delle dita. La voltò e si premette l’estremità arrotondata contro il petto. Irrigidì il tono. “Ci abbiamo già pensato da soli, che credi?”

Le palpebre di Austria si chiusero lievemente. La luce che fiammeggiava dietro le lenti si abbassò di poco, divenne più pallida, come le sue guance. Lo sguardo che Prussia gli aveva lanciato fece nascere un fastidioso formicolio in fondo allo stomaco, che gli aggrovigliò la pancia e il petto.

Austria rabbuiò lo sguardo, gettò il viso di lato, lontano dagli occhi di Prussia e dal profilo immobile di Germania. La mano scese dalla montatura degli occhiali, tornò ad annodarsi al petto, le dita tamburellarono sull’avambraccio intrecciato. Abbassò il tono. Divenne cupo ma intenso come la luce scarlatta che entrava dai vetri.

“Sinceramente, non mi sembra che ci abbiate riflettuto adeguatamente, se questo si presenta come il risultato finale.”

Prussia fece roteare gli occhi al soffitto, emise un piccolo sbuffo, e riprese a far vorticare la matita tra le dita. Un giro in senso orario e uno in antiorario.

Il corpo di Austria tornò rigido. Le spalle strette, gli occhi severi e brucianti sotto una luce di disapprovazione, e la fronte scura. Mosse un passo di lato e rivolse lo sguardo inflessibile e bacchettone alla schiena di Germania.

“Mi stupisco in particolar modo di te, Germania.”

Germania volse gli occhi all’indietro, guardò Austria da sopra la spalla, ma il corpo e le braccia strette dietro la schiena rimasero rigidi come granito.

Prussia fermò il movimento della matita, chiuse le dita, la strinse fra le nocche dell’indice e del medio – ora sembrava stesse reggendo una sigaretta fumante più che una bacchetta magica –, e lanciò un’occhiata storta ad Austria. Lui non lo vide.

Austria si avvicinò alle spalle di Germania. L’abbaglio rosso investì anche lui, le loro ombre si unirono. “Tu che dovresti comprendere i pensieri e le intenzioni di Italia meglio di chiunque altro,” si fermò, aggrottò le sopracciglia e affilò il buio sguardo di rimprovero, “non solo hai ignorato qualsiasi tipo di segnale che si era presentato davanti ai tuoi occhi...” Le braccia di Austria, incrociate al petto, vibrarono, tornò il reflusso di irritazione che gli bruciava nel sangue. Austria alzò la voce senza nemmeno accorgersene. “Ma tutt’ora ti permetti di trattare con tanta leggerezza tutta questa situazione.”

Un fremito attraversò le mani di Germania strette dietro la schiena. Il brivido attraversò le braccia rigide e giunse fino alle spalle. Gli occhi rimasero voltati verso Austria, sottili e scuri sotto l’ombra del viso, freddi e appuntiti come schegge di ghiaccio su cui si specchiava il rossore del tramonto. Non rispose.

Prussia sbuffò. Rilasciò la matita che scivolò dalle sue dita, colpì la scrivania, e rotolò verso le pile di documenti sparpagliati sul tavolo.

“Quante chiacchiere,” gracchiò con tono acido.

Fece scivolare i piedi dalla scrivania – la matita si era fermata contro uno dei fascicoli più grossi – e premette le suole a terra. Il cuoio degli scarponi scricchiolò sotto la pressione.

Prussia si mise in piedi, strinse anche lui le braccia al petto come Austria, e gli andò vicino. Gli occhi tornarono di fuoco, la fronte scura, e il viso contratto dalla tensione.

“La responsabilità non è stata nostra, non so se tu ti sia reso conto di questo.”

Austria si voltò di scatto. Districò le braccia dal petto e le tese lungo i fianchi. Strinse i pugni.

“Certo che lo è.” Il tono forte e autoritario, ma la voce morbida e delicata come un panno di velluto. Allungò un passo davanti a Prussia, lo guardò dritto negli occhi, e aggrottò di più le sopracciglia. “La responsabilità è vostra dalla prima all’ultima azione. Ed è anche responsabilità vostra prendervi carico di ogni azione che –”

Prussia strinse i denti. Snudò un canino. “E da quando sei così interessato a quello che succede all’interno dell’alleanza?” Fece anche lui un passo più vicino ad Austria. Sollevò il mento, lasciò scivolare il panno di luce giù dal suo viso, il riverbero del tramonto si raccolse tutto negli ovali delle iridi e lungo l’arcata dentale affilata a forma di mezzaluna. Prussia gli lanciò un’occhiata cattiva, di sfida e di scherno. “Dal momento in cui hai iniziato a fartela sotto per paura di scomparire come un fantasma?”

Austria ricambiò l’occhiata d’odio. La sua era più buia, consapevole. Il profondo senso di irritazione tornò a formicolare tra le dita e i palmi. Non seppe come rispondergli. “Sei pregato di non alzare la voce davanti a me.”

Prussia gettò i pugni stretti sui fianchi, spinse sulle punte dei piedi e investì Austria con la sua ombra. “Tu la stai alzando!”

“Quello che succede qua dentro riguarda anche me.” Austria poggiò una mano sul tavolo e sollevò lo sguardo per fronteggiare il viso di Prussia. “E se solo...”

Prussia scaraventò un pugno contro la scrivania. Le gambe di legno e i fascicoli sparsi sulla superficie tremarono. “Ma non è a te che spetta il compito di dirci quello che dobbiamo fare,” spinse l’indice contro il petto di Austria, i loro volti furenti erano a una piuma l’uno dall’altro, “o come dobbiamo comportarci nei confronti degli altri alleati!”

Austria non ebbe il tempo di aprire bocca che Germania si voltò, colpito di striscio dalla luce rossa della finestra.

“Fate silenzio, tutti e due!” tuonò.

Cadde il silenzio. Un denso e pesante silenzio che riempì le pareti della camera come una nebbia bianca e umida, di quelle che non ti fanno respirare e che ovattano l’udito.

Prussia e Austria ruotarono gli occhi senza muoversi di un sospiro dalla loro posizione. Prussia spinto sulle punte dei piedi, l’ombra stesa su Austria, l’indice premuto sul suo petto, e ancora quel mezzo ghigno storto di rabbia che gli metteva in luce un canino. La mano di Austria restò rigida sul tavolo, la sua postura ferma e orgogliosa, a spalle alte e schiena dritta. Gli occhi tornarono da Germania verso Prussia, gli lanciarono un ultimo sguardo di disprezzo che scintillò dietro le lenti, ed emise una sottile smorfia con la punta del naso. Un gesto altezzoso. Strinse l’indice di Prussia che spingeva contro il suo sterno, lo chiuse dentro tutta la mano, e lo gettò in basso, liberandosi del tocco. Prussia scrollò la mano, gli fece una smorfia di traverso, come un bambino, e richiamò il braccio, incrociandolo al petto. Gli diede le spalle e Austria fece lo stesso. Sguardi lontani, braccia conserte e menti alti.

Germania li ignorò. Sospirò a bocca chiusa, allontanò gli occhi dalla finestra, e si voltò, allungando un passo lento e deciso verso la parete. Fece correre la mano tra i capelli, le dita percorsero il profilo del capo, e massaggiò la fronte con ampi movimenti circolari.

“La responsabilità di quello che sta accadendo è mia. Questo sono disposto a riconoscerlo,” disse con tono fermo.

Richiamato dai passi di Germania che scricchiolavano sulle piastrelle, Prussia gli lanciò uno sguardo rapido e fugace. Sollevò un sopracciglio, dubbioso, e l’intensa luce rossa che vorticava tra le palpebre sbiadì lievemente.

Le dita di Germania scivolarono dal capo, i polpastrelli si posarono sulla tempia e fecero pressione, senza muoversi. Germania rivolse la fronte al muro, ma gli occhi guardarono lontano. Una singola scintilla di rabbia finì inghiottita nel nero delle pupille.

“Esattamente come sono disposto ad assumermi tutte le mie colpe nei confronti di Italia.”

Completò gli ultimi due passi verso la scrivania con i documenti, e sia Prussia che Austria si scansarono per lasciarlo passare.

La luce del tramonto gli colpiva le spalle, stendeva l’ombra di Germania come un panno lungo il tavolo, fino alla parete opposta. Germania chiuse entrambi i pugni sull’orlo della scrivania, ingobbì le spalle, e il buio cerchiò i suoi occhi vivi e luminosi incastonati nella maschera di tensione che gli celava il volto. Scostò due cartelle, un fascicolo con i bollettini di guerra, una delle prime planimetrie con la sezione greca divisa in tre, occupata dalle prime divisioni italiane, e svelò una cartina che racchiudeva solo la regione montuosa del Pindo. Spinse due dita su un angolo, la raddrizzò, esponendola alla luce scarlatta.

I battaglioni Tolmezzo, Gemona, Cividale, Aquila e Vicenza occupavano la parte sinistra del territorio, dietro la linea di difesa IB schierata da Grecia. Spesse frecce nere si allungavano da ogni rettangolo contenente una croce simboleggiante il battaglione, scavalcavano la spessa linea di confine, nera anche quella, e si tuffavano verso i rettangoli tratteggiati simboleggianti i reparti di difesa greca.

Già una manciata di croci rosse marchiava i punti di incontro fra italiani e greci.

Germania serrò i pugni, le falangi scricchiolarono e le vene bluastre salirono in rilievo tra le nocche. Socchiuse le palpebre, le sopracciglia si inarcarono creando una fitta rete di pieghe rabbiose attorno agli angoli degli occhi e alla radice del naso.

“Ma ora non ho più potere verso di lui, e nemmeno verso il suo esercito.”

Allungò una mano, la aprì sulla cartina raffigurante i movimenti dei battaglioni della Divisione Julia, e restrinse i polpastrelli, facendo attrito sulla carta.

“Mi sono lasciato sfuggire l’occasione di fermarlo quando ne avevo la possibilità...” Abbassò lievemente il tono di voce. Le scure pieghe scavate nel viso trasmisero solo stanchezza e delusione, non più rabbia. La luce degli occhi ripercorse i movimenti dei battaglioni, si soffermò sulle croci rosse, e traballò. “E ora la situazione è irrecuperabile.”

Gli occhi di Austria volarono nella stessa direzione di quelli di Germania. Le insegne geografiche, i rettangoli, i profili in rilievo dei monti, i rigagnoli dei fiumi, le frecce e le croci, si specchiarono sulla curvatura delle lenti, celarono la luce dello sguardo che si era fatta più debole e nebbiosa.

Austria guardò in disparte. Abbassò di poco le palpebre, le linee delle sopracciglia si fecero più dritte, lisciarono la curva di disappunto che le inarcava verso la radice del naso.

“Non lo sarebbe,” sollevò la fronte, si rivolse a Germania, “se gli ordinassi di ritirarsi immediatamente.”

Germania ruotò gli occhi in contro ai suoi senza sollevare il viso dalla scrivania. Gli lanciò un’occhiata interrogativa e di biasimo allo stesso tempo.

Austria non cedette. Sollevò un sopracciglio con aria saccente ed emise un piccolo sbuffo. “A te darebbe retta.”

Prussia sputacchiò una risata graffiante. “Ah, bella questa.” Gracchiò altri sghignazzi rauchi e aspri, e le labbra tornarono piatte di colpo. Gli occhi scuri e seri, la fronte aggrottata. “L’Asse non si arrende.” Serrò le mani sugli avambracci e si strinse nelle spalle, ingobbendosi lievemente. “Non si arrenderà mai. Arrendersi è ancora più umiliante della sconfitta.” Spalancò un braccio sul fianco, verso la finestra, e distese le dita. I raggi del sole al tramonto lo investirono di lato, lo fecero risplendere solo per metà. “Questo sì che getterebbe una bella secchiata di vergogna addosso alla nostra immagine globale.”

Lo sguardo di Austria assunse una vena irritata. Un velo di incredulità si stese sugli occhi. Rivolse a Germania quello sguardo carico di indignazione. “Hai seriamente intenzione di lasciare che Italia combatta?”

Germania e Prussia si scambiarono uno sguardo sottecchi. Rapidissimo. Tutti e due distolsero gli occhi, quelli di Germania andarono alla cartina sotto di lui e quelli di Prussia alla finestra.

Austria fissò entrambi. Gli occhi sempre più larghi di incredulità, la bocca socchiusa, e il labbro tremante. Il viso impallidì, il respiro rallentò.

“Non intendi fare nulla solo per non intaccare il prestigio dell’alleanza?”

Germania prese un respiro profondo dal naso. Chiuse gli occhi. Sguardo disteso ma immobile come pietra. “Se non intervengo,” disse, “è solo per il bene di Italia, e non per quello dell’alleanza.”

Austria sollevò un sopracciglio. Una ruga interrogativa gli incrinò lo sguardo, spezzando la maschera di indignazione che gli irrigidiva il viso.

Germania spinse il peso sulle nocche e tornò a spalle alte. Quando raddrizzò la schiena, il rumore delle vertebre che schioccavano riempì il silenzio che galleggiava attorno a loro come una nebbia. Germania socchiuse le palpebre, mosse due passi lenti verso la finestra e passò davanti a Prussia.

“All’inizio pensavo che sarebbe stato un bene per lui affrontare uno scontro diretto con Grecia.” Corrugò la fronte, si fermò davanti alla vetrata colorata di rosso. Il sole basso e scuro galleggiava dietro le cime nere degli alberi che affondavano nel suo ovale. Il sole era un disco piatto e scarlatto divorato dalla sagoma nera e frastagliata del boschetto. Gli occhi sottili di Germania assorbirono tutta la luce del tramonto, il cielo violaceo, già blu notte dietro gli alberi, dava al suo viso una sfumatura cupa e malinconica. “Ma adesso che anche Grecia ha cominciato a tirare fuori gli artigli in una maniera che non mi sarei aspettato nemmeno io...” Rimangiò la frase, prese un piccolo sospiro. Sollevò la mano e si massaggiò le palpebre chiuse. “Non so più cosa pensare di tutto questo.”

Austria lanciò uno sguardo alla mappa stesa sulla scrivania in mezzo ai documenti, poi a Prussia – lui non lo guardava – e di nuovo a Germania.

“Grecia lo ha già attaccato?” Contenne la nota di preoccupazione irrigidendo il tono.

Le dita di Germania scesero dal viso. “Abbiamo perso le comunicazioni,” disse. “Sono tutte saltate dopo l’ultimo attacco di questa mattina alla Divisione Julia.” Tornò a voltarsi, le mani dietro la schiena, il profilo contornato dall’alone scarlatto. “Da quando è iniziata, non ho potuto parlare con Italia nemmeno una volta.” Si fermò. Gli occhi caddero sulla planimetria dei battaglioni, sulle croci rosse, sull’avanzata dei rettangoli tratteggiati – i reparti greci – che proseguivano verso quelli italiani. Una spina di rimorso punse il cuore di Germania. Lo sguardo vacillò solo un secondo, fissò terra, nascosto dall’ombra. “Non so nemmeno se...”

Prussia si accorse del cedimento. Ammorbidì gli occhi, anche lui scoccò uno sguardo alla planimetria, e li rivolse a Germania. Sollevò le sopracciglia. “E provare a ristabilire le comunicazioni?”

Germania e Austria si voltarono. Nessuno disse niente.

Prussia allargò le braccia, sciogliendole dall’intreccio del petto, e si strinse nelle spalle. “Tentiamo, West.” Guardò la mappa da sopra la spalla. “Anche se non riusciremo a contattare direttamente la divisione di Italia, almeno sarà qualcosa in più di quello che abbiamo in mano adesso.” Assottigliò le palpebre e storse la punta del naso. “Loro sapranno sicuramente più di noi riguardo questo disastro.”

Ritirò le mani sui fianchi, le affondò nelle tasche, e scrollò le spalle già strette contro le orecchie.

“Proviamoci,” la buttò.

Germania chiuse gli occhi. Si massaggiò la fronte con una mano sola, premette le dita fra i capelli, e corrugò la fronte e le palpebre in un’espressione pensosa, tormentata. Rilasciò il respiro. “D’accordo.” La mano scivolò giù dalla nuca, restò aggrappata al collo. “Solo per sapere dov’è e come sta.” Mosse il primo passo verso la porta e diede le spalle agli altri. Il viso nascosto. “Non intendo smuovermi dalla decisione che ho preso in precedenza.”

Prussia levò gli occhi al cielo. Dovette emettere un minuscolo sbuffo per nascondere il sorrisino che gli aveva inarcato le labbra e tinto le guance di rosso. “Ovvio, ovvio,” disse, sventolando una mano.

Prussia strinse l’orlo della manica di Austria e lo tirò dietro di sé, spingendolo a seguirlo. Germania era già uscito, aveva lasciato la porta aperta.

Sul volto di Austria tornò l’ombra di irritazione. Cacciò via la mano di Prussia dandogli un piccolo schiaffetto sul dorso, vicino alle nocche, e Prussia gli rifilò un’occhiataccia di traverso da sopra la spalla. Gli occhi scintillarono come frecciatine di fuoco. Schiuse le dita, gli lasciò la manica, e uscì anche lui.

Austria rallentò il passo. Germania e Prussia erano già spariti, inghiottiti dall’angolo del corridoio, e lui rimase sotto l’arco della porta, fermo, a sguardo basso.

La vista era annebbiata, lievemente sgranata, come se gli avessero soffiato un pugno di polvere tra le ciglia. Austria si sfilò gli occhiali, raccolse un lembo della manica e lo strofinò su tutte e due le lenti, ad ampi e delicati movimenti circolari. Sollevò gli occhiali contro la luce del sole che strisciava sulla sua spalla, e l’abbaglio rosso riempì le due sagome di vetro rettangolari. Li inclinò, la lama di luce scivolò via come un lenzuolo di seta, e svelò vecchie immagini proiettate dalla sua mente. Vecchi ricordi.

Italia infiocchettato nel vestitino verde, il grembiulino che arrivava alle ginocchia, e i capelli tenuti ai lati del viso dalla bandana. Le manine si aggrappavano ai pantaloni di Austria, sotto le ginocchia, Italia saliva sulle punte dei piedini, e gli mostrava un dolce sguardo implorante. Signor Austria, ho fame. Italia fermo nel corridoio, le piccole dita giunte in preghiera davanti al petto e lo spazzolone che gli arrivava sopra la testa raccolto nella piega dei gomiti. Gli occhi lucidi, scintillanti. Signor Austria, posso avere un po’ di pasta? Italia seduto sullo sgabello imbottito, la gonna che cadeva sulle ginocchia, e i piedini ciondolanti che non riuscivano a toccare il pavimento. Italia rimbalzava sul posto, batteva le piccole mani, il sorriso gli tingeva le guance di rosso. Signor Austria, posso ascoltare mentre suona il piano? Resto buono buono, lo prometto.

Austria abbassò gli occhiali, li tolse dal fascio di luce e lasciò che i ricordi scivolassero via come sabbia spazzata dal vento. Si rinfilò la montatura, la spinse alla radice del naso tenendo le dita premute fra le lenti.

Razza di...

“Adesso che anche Grecia ha cominciato a tirare fuori gli artigli in una maniera che non mi sarei mai aspettato nemmeno io...”

La mano accostata al viso tremò. Vibrò di un lieve senso di rabbia che gorgogliava in fondo allo stomaco, e di una soffice sensazione malinconica e nostalgica che premeva sul petto.

“... dopo l’ultimo attacco di questa mattina alla Divisione Julia.”

Austria chiuse il pugno attorno al pomello della porta. Serrò le dita, avvicinò l’anta allo stipite e ruotò la maniglia ovale.

Restrinse le estremità delle sopracciglia, la fronte divenne grigia, e le labbra serrate in una smorfia di irritazione vibrarono come il braccio e come le spalle.

... di sciocco.

Accompagnò la porta allo stipite e la chiuse. Lo scatto della serratura quasi non si sentì.

 

♦♦♦

 

1 novembre 1940,

Divisione Ferrara, Settore dell’Epiro

 

Il cucchiaio affondò nella superficie della zuppa. Raccolse una spatolata di brodaglia tiepida e collosa, ribaltò un grumo di farina granulosa che non si era amalgamata, spalmò una macchia d’olio giallastra verso l’orlo ammaccato della gavetta, e raschiò il fondo, sollevando il suono ruvido dello sfregamento metallico.

Romano restrinse la vista, si accigliò, e ribaltò un’altra cucchiaiata di zuppa. Una strisciolina di lardo si era condensata sulla superficie, galleggiava affianco alle macchie d’olio. Romano raccolse il lardo e lo schiacciò contro le pareti della gavetta, riducendolo a una strisciolina bianca sull’alluminio. Impugnò il cucchiaio pieghevole, stringendolo con tutta la mano, lo affondò come se avesse avuto un pugnale tra le dita, e scavò fino a fondo. La zuppa emetteva un viscido suono gutturale e gommoso ogni volta che Romano la mescolava.

Il cucchiaio fece resistenza, toccò qualcosa di solido. Romano raschiò con più forza e raccolse l’ultimo cubetto di patata cotta. Sollevò il cucchiaio dalla gavetta. La zuppa sbrodolò dal cucchiaio e gocciolò nella padella d’acciaio. Il cubetto di patata emerse come una pepita d’oro scintillante estratta da una miniera.

Romano sentì già la bocca riempirsi di saliva. Un rivolo trasparente scivolò dall’angolo della bocca e colò fino al mento.

Romano schiuse le labbra, avvicinò il cucchiaio al viso e ingollò il boccone, serrando i denti attorno al manico. Raccolse il cubetto di patata con la lingua, lo chiuse in una guancia, e mandò giù i residui di zuppa. Un brivido di disgusto gli fece tremare la schiena. Era fredda, viscosa, ispida. Granuli di farina gli impastarono i denti, il sapore amaro e pesante del lardo gli rimase incollato al palato, e l’olio scivolò in gola come bava acidula. Romano strizzò gli occhi e scacciò via i brividi di disgusto.

Con il cucchiaio ancora stretto fra i denti, fece uscire il cubetto di patata dalla guancia, e lo rigirò con la lingua contro il palato. Il morbido sapore lievemente dolce del tubero assorbì tutto il viscidume amaro della zuppa che aveva buttato giù. La lingua si rilassò sotto il sapore buono e caldo della patata cotta. Succhiò il cubetto godendoselo come una caramella, senza masticarlo.

Il piacevole tepore scese fino allo stomaco, formicolò lungo le gambe stese a penzoloni, le fece dondolare sotto l’orlo del tavolo, i piedi sfiorarono il fango solido e secco raggrumato a terra.

Romano sollevò gli occhi dalla gavetta mezza piena.

Lo scroscio di pioggia nascondeva il cielo della sera, il diluvio batteva sulla tenda sopra la sua testa, picchiava come secchiate di sassi gettate su un telo di stoffa. Il cielo grigio sfumava di nero alla base dei profili delle montagne, la pioggia continua creava una nebbia fitta che avvolgeva il paesaggio in spesse nuvole di fumo plumbeo.

Romano rabbrividì. Di freddo, questa volta.

L’umidità saliva dal terreno, gli toccava i piedi in bilico davanti alle gambe del tavolo, e gli avvolgeva il corpo come un fascio di tentacoli.

Una zaffata di vento ululò fuori dalla tenda. Uno sbuffo entrò fra i due lembi spalancati sul panorama montuoso, gli soffiò in faccia congelando le guance. Romano emise uno sbuffo di rabbia e si sfregò la faccia con il braccio. Non era bagnato.

Calò di nuovo il cucchiaio – la patata schiacciata tra la lingua e il palato – e scavò nella zuppa fino a grattare il fondo ammaccato dalle rientranze sull’alluminio. Lo strofinio metallico si unì al martellare della pioggia sul tetto della tenda da campo e alle voci dei tre soldati chini sull’apparecchio radio alle sue spalle.  

“Prova a riagganciare qui.”

Una seconda voce emise uno sbuffo, contrariata. “L’ho già fatto per tre volte, ma continua a non prendere alcun segnale.”

“Rassegnamoci,” disse la terza voce. “È completamente andato.” Qualcosa sfrigolò, una manopola che si girava emise un lungo fischio metallico che si spense in un suono ondeggiante. “Siamo in pieno isolamento.”

“No, aspetta. Non abbiamo ancora provato tutto. Se metti...”

La pioggia aumentò di colpo, come se il cielo avesse gettato altri secchi colmi di massi tondi e grossi come biglie contro il telo della tenda.

Romano incrociò le gambe. I piedi sospesi da terra smisero di dondolare, ondeggiarono, e si fermarono, sollevando i talloni. Fece scivolare il cucchiaio dalle labbra – l’acciaio era diventato tiepido – e mosse la lingua. Diede un primo morso al cubetto di patata. Schioccò. Sotto lo strato morbido in superficie, dentro era ancora cruda, scialba come una mela insapore troppo vecchia e poco croccante, e insipida. Romano raccolse un’altra cucchiaiata di zuppa tiepida e si insaporì il palato con le macchie d’olio d’oliva che galleggiavano sulla poltiglia acquosa di lardo e farina. Lo stomaco divenne un nodo, chiuse la pancia. La zuppa faceva talmente schifo che gli veniva da piangere.

Due figure si mossero come ombre sotto lo strato di pioggia che ondeggiava fuori dalla tenda da campo. Due soldati corsero con due sacchi di tela stretti tra le braccia, a capo basso per non prendere il diluvio in faccia, e si portarono sotto i tettucci delle palizzate. Tre muli erano legati ai pali orizzontali, al riparo sotto le assi di legno inchiodate sopra di loro. Una misura di protezione imbastita in rapidità. I due soldati scrollarono le uniformi gocciolanti di pioggia, sfregarono le mani fra i capelli, strizzarono le ciocche bagnate, e si avvicinarono ai tre muli che subito rizzarono le orecchie. I due uomini tesero le braccia, allargarono le aperture dei sacchi, e i tre animali allungarono i musi, dilatando le narici e impennando le orecchie. Un primo mulo fece un passo in avanti, la corda legata attorno al capo non lo fece spostare di molto. Il soldato gli mise il sacco sotto il muso, il mulo sbuffò, le narici si ingrossarono, si restrinsero, e l’animale affondò le labbra dentro l’ovale di tela. Quando sollevò il muso, la bocca ruminava grani di foraggio che crollavano dalle sue labbra piene e gonfie. Il secondo soldato si portò vicino agli altri due muli. Servì prima uno, mentre il secondo dava soffici carezze sulla spalla dell’uomo con il muso, cercando la sua attenzione. Il soldato ridacchiò, gli carezzò la fronte, sotto il ciuffo che pendeva dalle orecchie, e passò anche a lui il sacco di foraggio.

Alcuni semi piovvero dalle labbra dei muli, caddero a terra, scricchiolarono sotto gli zoccoli.

Romano sentì la lingua e le guance diventare di nuovo umide e piene di saliva. Impastò le labbra, un altro rivolo trasparente colò dall’angolo della bocca, lucido come i suoi occhi affamati che seguivano la cascata di foraggio.

Lo stomaco gorgogliò. Tutta la pancia vibrò fino a far tremare la spina dorsale.

Romano si mise un palmo sullo stomaco, placò le vibrazioni.

La sua bocca si muoveva assieme a quelle dei muli che trangugiavano il foraggio, gli sembrò di sentire sotto i denti la consistenza scricchiolante dei semi che colmavano le guance di un sapore più intenso, polveroso, ma che riempiva la bocca e saziava lo stomaco. Dovette stringere di più i piedi e le gambe intrecciate per resistere alla tentazione di saltare giù dal tavolo, uscire dalla tenda, attraversare il diluvio, e andare a tuffare un braccio dentro il sacco di foraggio già sporco di bava schiumosa e giallognola colata dalle bocche dei muli. Poi la mano sarebbe emersa, colma di semini dorati, Romano li avrebbe portati vicino alle labbra schiuse, la lingua già pronta a raccoglierli, e...

“Prende?”

“Niente.”

Le voci dei soldati alle sue spalle e un secondo fischio ondeggiante della radio lo strapparono ai pensieri affamati.

Sul viso di Romano si dipinse una smorfia contrariata. Il broncio colorò gli occhi e le guance delle stesse sfumature del freddo cielo nuvoloso prossimo alla notte. Mancava poco al tramonto.

Di nuovo cigolii, schiocchi secchi di tasti che venivano schiacciati, fecero vibrare l’aria dietro le sue orecchie.

“Riprova, gira piano,” disse la seconda voce. “Ecco,” esclamò. “Forse...”

Romano distolse gli occhi dai muli e dai sacchi di foraggio.

Lo sguardo cadde sullo strato di zuppa fredda che galleggiava sul fondo della gavetta. Il cucchiaio sbucava dalla superficie, e si vedeva l’aggancio pieghevole che separava la parte metallica da quella di legno. Le macchie di olio si aprivano sulla zuppa come pozzanghere di pioggia in uno strato di fango pallido.

Romano si sporse, riuscì a specchiarsi in quella più larga. Il suo riflesso era distorto, appannato e verdognolo. Romano raccolse il cucchiaio, lo affondò più delicatamente nella zuppa e sollevò la pozza di olio, senza squagliarla o dividerla. Avvicinò il cucchiaio al viso, e il suo riflesso si allargò. Ora riusciva a scorgere i segni di stanchezza attorno alle palpebre.

Sentiva gli occhi pesanti, la testa dolorante, lo stomaco vuoto, e i muscoli indolenziti.

Romano sbatté lentamente le ciglia tenendo il cucchiaio colmo davanti al viso.

Il buio sotto le palpebre si rischiarì, accecato da un raggio di sole pomeridiano. Il calore del cielo estivo pizzicava la pelle, tiepide goccioline di sudore scendevano dalla fronte, dall’attaccatura dei capelli arruffati sul viso, e rigavano le guance, le orecchie, scendendo giù per il collo, sotto la maglia incollata alla schiena. Romano inspirò il profumo dell’aria calda. Odore di terra umida, di spezie, di steli di pomodori appena staccati dalle radici che serpeggiavano nel campo baciato dal sole. Un’ombra si innalzava davanti a lui, copriva la sagoma del sole stendendo un po’ di fresco sulla sua pelle sudata. Spagna sollevava un braccio, sfregava il polso nudo sulla fronte, asciugando il sudore e ripulendosi il viso dalle sbavature di terra. Il sole splendeva sulle sue guance abbronzate, illuminava il sorriso bianco che scintillava sotto le labbra che creavano dei rigonfiamenti rossi sotto gli zigomi. Spagna si piegava in avanti, il sole gli baciava il profilo, facendolo splendere d’oro, e tendeva il braccio verso Romano. Racchiuso tra le dita, un piattino su cui erano adagiati gli spicchi di un pomodoro disposti a raggiera.   

“Te l’ho già tagliato a spicchi. È tutto tuo, Romano.”

Grosse gocce di succo rosso colavano dalla polpa, trascinavano alcuni semini sul fondo del piattino. Le fette di pomodoro scintillavano sotto la luce de sole. Spagna sollevava la mano libera e la batteva orgoglioso sul petto.

“Appena colto dalle mani del Boss.”

Romano riaprì gli occhi.

Il suono e le ventate della pioggia spazzarono via la sensazione calda del sole estivo sulla pelle. L’odore rancido della zuppa sulla quale galleggiava ancora qualche pezzetto di lardo riempì lo stomaco, divorò il profumo fresco e dolce del pomodoro appena affettato e della terra di campo. L’immagine di Spagna svanì, soffiata via dal diluvio che annebbiava il paesaggio.

Un nodo al cuore e uno al petto raggelarono il corpo di Romano.

Un violento bruciore infiammò le guance, risalì le palpebre e le gonfiò. Una lacrima cadde prima ancora che potesse appannargli la vista. La goccia precipitò nel cucchiaio. Infranse lo specchio dell’olio, e galleggiò sulla superficie come una perla trasparente.

Romano lasciò cadere il cucchiaio nella zuppa. Gettò il viso di lato, lo premette contro la spalla, e fermò il flusso di pianto. Strofinò con forza il braccio contro gli occhi, il tessuto ruvido della manica fece diventare rosse le palpebre e le guance.

Stupida pioggia di merda che entri anche nell’asciutto, pensò, digrignando i denti.

Gettò il braccio via dal viso, sfregò due nocche contro una palpebra ancora umida di ‘pioggia’, e lasciò scivolare le dita dal viso. Tirò su col naso, inspirò l’umidità che rese i polmoni pesanti come due mattoni fra le costole. Sbatacchiò gli occhi, i piedi dondolarono sotto il tavolo, e la pioggia continuava a cadere. Romano poggiò la gavetta con ancora il cucchiaino immerso nella zuppa fredda e collosa affianco a lui, sul tavolo. Spinse i gomiti sulle ginocchia, aprì le mani e raccolse il viso tra i palmi, poggiando tutto il peso sul mento. Sospirò a lungo, le spalle si alzarono e si abbassarono. Una triste luce di avvilimento gli bagnò gli occhi scuri come il cielo annuvolato.

E così, ci siamo davvero ricascati.

La punta di un piede dondolante sfiorò terra, ribaltò un grumo di fango secco e solidificato che si apriva attorno alla gamba del tavolo. Romano abbassò lo sguardo, fermò il piede, toccò di nuovo la zolla di terra e la rigirò. Il grumo solido e asciutto cadde dentro a una piccola pozza di acqua che si era formata da un rigagnolo che strisciava da fuori la tenda. Il fango si divise, si squagliò e divenne pantano scuro e molliccio.

Una vena di tristezza formò una piega che contrasse la fronte di Romano. Romano sbuffò. Sollevò le sopracciglia in un’espressione di autocommiserazione.

Sembra quasi uno scherzo.

Tese la punta del piede, riuscì a toccare il suolo, e affondò lo stivale dentro la fanghiglia che riempiva la pozzanghera. La piega di avvilimento divenne rabbia, gli occhi si accesero, i pugni stretti contro le guance graffiarono la pelle, e una fiamma crebbe dentro lo stomaco. Romano inclinò la gamba e calciò uno schizzo di fango che uscì dalla parete spalancata della tenda, si mescolò alla pioggia.

Sembra quasi che il mondo intero si diverta a prenderci per il culo, qualunque cosa facciamo.

Strinse i denti, lo smalto stridette. I pugni salirono dalle guance fino alle tempie, le dita si intrecciarono ai capelli e strinsero. Romano strizzò gli occhi, la sua rabbia affogò nel nero delle orbite.

Se dovesse finire tutto come quella volta...

Dentro il buio degli occhi chiusi, il suono incessante della pioggia aumentò di volume, gli riempì la testa, fece vibrare le ossa, il sangue, i pensieri. Il diluvio assunse colore. Un velo grigio frastagliato, tanti lunghi aghi argentati che crollavano dal cielo e trafiggevano l’aria, pungendo la pelle del viso, entrando in bocca, negli occhi, nelle orecchie, e sotto i vestiti. Il fango alle ginocchia che saliva, divorava le gambe, il flusso del fiume che si trascinava fra i piedi e scrosciava, ghiacciato, dando la sensazione di strappare via i piedi dalle caviglie.

Romano stringeva le dita. La consistenza del fucile bagnato gli diede una scossa fra le mani, lo spinse a spalancare gli occhi, a fronteggiare il nubifragio. Il vento gli soffiò in faccia, sbatté i capelli bagnati ai lati del viso e gli bruciò gli occhi. Romano sollevò un piede, piegò il ginocchio fino alla pancia, trascinò la gamba trattenuta dal tentacolo di fango. Squish! Il piede affondò. Creò una rientranza attorno al polpaccio che si richiuse, schizzando fino all’anca.

Qualcosa si arrampicò dal piede e gli morse il busto. Il suo corpo si spezzò di dolore, le spalle crollarono in avanti, il capo ciondolò, la bocca si aprì e guadagnò un avido respiro che sapeva di pioggia. Romano staccò una mano dal fucile – la punta della canna scese, si immerse nel fango – e afferrò la giacca all’altezza del petto, dove il dolore si intensificava.

Risucchiò l’aria a grandi boccate.

“Anf, anf, anf!”

Sbiancò in volto, sudore ghiacciato scese dalla fronte, dalla schiena, e imperlò il suo corpo tremante come una foglia. Ogni respiro era una coltellata al cuore, ai polmoni, ai fianchi.

Romano scosse il capo, schizzò via goccioline di pioggia dai capelli, e sbatacchiò le palpebre per sciacquare via le vertigini dalla vista. Le stelline bianche si dissolsero come uno sciame di lucciole morenti. Il braccio di Romano sollevato verso il petto tremava ancora. Paura, freddo e dolore si mescolarono nelle sue vene, imprigionandogli il corpo. Romano continuò a fissare la pioggia che creava un vortice grigio attorno a lui. Ingollò una boccata di saliva amara, sollevò lentamente la mano dal busto. Era calda, umida e appiccicosa. Alzò il braccio davanti agli occhi. La pioggia picchiò sulla pelle della mano imbrattata di sangue, scavò spessi segni bianchi che scivolarono sul rosso e tracciarono pallide striature lungo il palmo.

Le pupille di Romano si restrinsero come capocchie di spilli, vibrarono immerse nel bianco lucido dell’occhio. Il labbro inferiore rimase socchiuso, tremante anche quello, e bagnato di pioggia.

Sangue?

Il calore colò lentamente lungo tutto il corpo. Romano si sentiva sotto una doccia di cera calda che gocciolava densa, lenta e tiepida attraverso la pelle.

Allargò le braccia, guardò in basso, e fece due passi all’indietro, ribaltando acqua e fango in mezzo alle ginocchia. Per poco non cadde di spalle.

Il sangue impregnava l’uniforme, la rendeva nera, pesante, e un leggero strato di fumo bianco aleggiava dal tessuto, caldo rispetto all’aria ghiacciata delle montagne.

Spalle, busto, fianchi, gambe. Ogni parte del corpo di Romano rigettava sangue.

Un’ondata d’acqua fangosa si impennò davanti a lui. L’onda si inchinò, infranse la superficie, sollevò uno strato di schiuma marrone, e lo travolse, facendolo dondolare. Il panico arrivò come quell’onda: gelido e improvviso.

Romano si toccò le spalle, sentì di nuovo la consistenza appiccicosa del sangue sotto la pelle, e fece scendere le mani battendo i palmi in ogni punto caldo e ruvido dell’uniforme. Il respiro aumentò. Inspirava aria dal naso, dalla bocca, e il corpo fremeva come dopo una lunga corsa sotto il sole cocente. Le vertigini gli martellarono la testa, la vista si offuscò, macchie nere e scintille bianche riempirono la vista. Il dolore pulsava, penetrava nelle ossa e stritolava i muscoli.

Ma che...

Il sangue colò anche dall’attaccatura dei capelli, assieme alla pioggia strizzata dalle ciocche fradice. Una scia di sangue gli attraversò la fronte, imbevette la palpebra, l’occhio che vide rosso, e rigò la guancia.

Che cosa mi sta...

Il vortice di pioggia si fece più scuro. Una granulosa nebbia nera che si addensava come sabbia soffiata dal vento.

Un capogiro più forte colpì la tempia di Romano.

Le ginocchia traballarono, i muscoli si fecero deboli e formicolanti, le palpebre scesero sotto la pressione e il calore del sangue che gocciolava dalla fronte.

Romano sentì la voce nella sua testa diventare un debole mormorio.

Succedendo?

Una scintilla d’argento scavò nel nero. La punta metallica forò la nebbia, il vortice di sabbia scura generò una spirale e turbinò attorno al profilo della lancia. Il barlume d’argento si ingrossò, divenne più spesso e rotondo alla base, si gonfiò in una sagoma a forma di foglia su cui battevano le gocce di pioggia, spesse e lucide come perle.

Romano sentì il cuore fermarsi.

La lancia calò, tagliò un arco in aria, la nebbia nera turbinò attorno alla punta, e premette contro la spalla, tra la clavicola e il collo.

Romano gettò il capo all’indietro.

L’esplosione di dolore, il calore del sangue che schizzò sulla guancia e sulle labbra, la pressione contro la carne e le ossa gli sottrassero il fiato dai polmoni.

Rantolò un sibilo, le ginocchia cedettero, la testa si fece pesante, il nero si espanse come una macchia di petrolio davanti ai suoi occhi, e...

“Signore, corra, presto!”

La mano che si era posata sulla sua spalla lo fece sobbalzare.

Romano saltò sul tavolo, ingollò un gemito in fondo allo stomaco, il cuore schizzò in gola, e spalancò gli occhi ristretti e tremanti.

La mano sulla sua spalla strinse, gli trasmise una scossa di energia, e la voce dell’uomo si fece più vicina e squillante.

“Forse siamo riusciti a...”

La voce del soldato si interruppe. Lo sguardo si soffermò sul viso bianco e sudato di Romano, sui suoi occhi larghi, bordati di nero, lucidi e vibranti, che fissavano un punto del terreno. Guardò la sua mano aggrappata al petto, le dita arpionate alla giacca dell’uniforme, all’altezza del cuore. Percepì il respiro pesante e sibilante, affaticato, che gli faceva tremare le labbra aperte, e il ritmico martellare del cuore che riusciva a sentire sotto il palmo poggiato alla sua spalla.

L’entusiasmo del soldato sbiadì dal volto. “Sta...” Chinò lo sguardo, cercò quello di Romano, mostrò occhi apprensivi. “Sta bene, signore?”

Romano assorbì altri due affanni dalla bocca. Aprì e chiuse le labbra, cercò saliva nel palato ma trovò solo un sapore amaro e pastoso.

“Co...” Scrollò il capo, scosse i capelli dal viso. La mano risalì il petto, la stoffa era asciutta, incontrò la spalla e si aggrappò alla clavicola. Non provò dolore. La giacca era intatta e asciutta. “Cosa?” Gli sciami di vertigini e i battiti del cuore che galoppavano in gola continuarono a stordirlo.

“Se sta bene,” rispose il soldato. “È pallidissimo. Vuole stendersi?”

“Sto...” Il corpo annaffiato dal sangue, i battiti di dolore che crivellavano il corpo, la pioggia gelida che sbatteva in faccia, la scintilla argentata a forma di punta di lancia che scendeva lungo l’aria, spingeva sulle spalle, affondava nella carne, spezzava l’osso in due. Romano si prese la fronte fra le mani, sospirò a lungo, e massaggiò le tempie e i capelli con profondi movimenti dei polpastrelli. “Sto be...”  

Un pensiero gli trafisse il cranio come un proiettile.

Romano spalancò gli occhi dietro le dita divaricate sul viso.

E se Grecia lo avesse già raggiunto?

La sensazione di panico tornò a sorgere come una marea, gli fece salire l’acqua alla gola, un’acqua fredda e scura. Gli strozzò di nuovo il fiato, arpionandogli il collo.

Quelle ferite erano di...

“Ottime notizie, signore.” La mano del soldato gli sbatté sulla spalla, scacciò via i pensieri. La sua voce squillava come se stesse sorridendo. “Siamo riusciti a stabilire un contatto, abbiamo riaperto una parziale comunicazione.”

“Contatto? Ma con...”

Gli si accese una scintilla nel cervello. Romano irrigidì, il cuore si fermò, il fiato bloccato in gola.

Veneziano! È vivo! Dio, dimmi che...

Romano si sporse dal tavolo, tese le braccia in avanti e si aggrappò all’uniforme del soldato.

“Vuole dire che –”

“Aspetti.” L’uomo lo fermò mostrandogli un palmo.

Romano inarcò un sopracciglio, lo sguardo implorante e scuro incollato a quello del soldato.

Il soldato gli strinse delicatamente i polsi, lo guardò negli occhi.

“Non abbiamo ancora notizie di suo fratello,” precisò, “dal momento in cui lo hanno trasferito.”

Romano sentì subito il sapore dell’amarezza e della delusione venire su dallo stomaco e riempirgli la bocca. Un sapore ancora più cattivo di quello della zuppa.

Il soldato lanciò un’occhiata alla radio e agli altri due uomini raccolti attorno alle apparecchiature. “Ma credo che questo contatto possa esserci comunque utile per progredire nell’avanzata.”

Romano storse una palpebra, assottigliò l’occhio e gli lanciò un’occhiata sbilenca, ancora scura e annebbiata dallo sconvolgimento di prima.

Il soldato fece scivolare le dita di Romano giù dal suo petto, strinse le braccia dietro la schiena e inclinò di scatto la testa. “Mi segua.”

Un’ombra di sospetto attraversò il volto di Romano. Il battito del cuore rallentò, il respiro si fece flebile, debole, e il nero dell’ombra coprì il pallore che si era creato sulle guance.

Per progredire?

Romano balzò giù dal tavolo.

Tunf!

Spazzolò la giacca fino ai fianchi, spolverò i pantaloni battendovi sopra con i palmi, e lisciò le maniche fino ai polsi. Voltò lo sguardo, fissò i tre uomini vicino alle apparecchiature radio da sopra la spalla.

Che siano riusciti a contattare un battaglione? Socchiuse le palpebre, gli occhi si fecero ancora più bui. Magari uno di quelli in Macedonia che si sono ritirati nelle retrovie?

Il soldato che era venuto a chiamarlo impennò un braccio, sventolò la mano sopra le teste chine dei suoi compagni.

“Venga, prego.”

Romano prese un respiro che gli gonfiò il petto, allargò le spalle, strinse i pugni contro i fianchi, e mosse un primo passo.

La pioggia martellava contro la tenda sopra le loro teste, il fango secco scricchiolava sotto le suole degli stivali, il vento che ogni tanto soffiava faceva gonfiare e sgonfiare le pareti del tendone, dando l’impressione che stessero crollando.

Due dei soldati si scambiarono un’occhiata perplessa, uno di loro passò le cuffie imbottite al terzo – quello che aveva chiamato Romano – e spinse il ricevitore sotto il pannello di lancette e manopole.

Il terzo soldato strinse l’anello delle cuffie con entrambe le mani e tese le braccia verso Romano. “Si metta queste.” Anche sul suo viso balenò un barlume di preoccupazione.

Romano gli lanciò un’occhiata storta, a mento alto, e strinse un padiglione imbottito.

Le mani del soldato trattennero la presa. “Per favore, cerchi...” Il soldato tenne la fronte bassa ma ruotò gli occhi verso quelli di Romano. Deglutì. Una riga di sudore discese la fronte e gli bagnò la guancia che si era fatta più pallida. “Cerchi di essere persuasivo.”

Una scossa di timore si trasmise dall’estremità imbottita della cuffia alle dita di Romano.

Romano scoccò uno sguardo interrogativo al soldato, non gli disse nulla, e gli sfilò le cuffie dalle mani. Piegò il capo, fece scivolare i ciuffi di capelli dalle orecchie, e spinse le cuffie contro i padiglioni. Ovattò il fracasso della pioggia, si ritrovò con la testa in una bolla. Strinse il ricevitore, avvicinò le labbra all’estremità bucherellata, e piegò le spalle in avanti.

Se non può essere Veneziano, allora chi diamine...

“Qui Divisione Ferrara. Sono il responsabile, vi ricevo. Passo.”

“Romano.”

Lo stomaco di Romano divenne un buco vuoto e profondo. Il cuore ghiacciò, divenne di pietra, e precipitò sul fondo della pancia.

L’eco della voce che aveva parlato dalle cuffie si restrinse in un fischio che trafisse il suono ovattato della pioggia. Il viso di Romano divenne più bianco di prima, un violento capogiro fece tremare il suolo sotto i piedi, il fango si divise, vibrò sotto le suole, i tremori risalirono le gambe e ingabbiarono lo stomaco. Romano socchiuse il labbro inferiore, “Ah,” gli occhi stravolti deformarono l’immagine del quadrante della radio, i pulsanti e le manopole si fusero in un vortice nero e grigio. Il fischio ondeggiava nelle orecchie, trapanava il cervello.

“Romano, sei tu?” ripeté la voce di Germania dall’altro capo delle cuffie.

Romano strinse il pugno, il braccio vibrò affianco al ricevitore posto davanti ai quadranti. Le pupille si restrinsero, le sopracciglia aggrottate crearono una fitta ragnatela di ombre scure tutte concentrate attorno alle palpebre in una maschera di ira e odio che fece fiammeggiare gli occhi come spirali di fuoco.

Le immagini lo schiaffeggiarono come una serie di fotografie lanciate sulla superficie di un tavolo, una alla volta.

La nebbia, il fango, l’acqua dell’Isonzo alle caviglie, le rocce carsiche stritolate sotto i gomitoli di filo spinato, l’immagine di Italia stretto fra le braccia di Germania, due sagome nere in mezzo al grigio, sommerse dal diluvio che si frastagliava fra le loro gambe, dentro le ondate del fiume. Il braccio di Romano che si tendeva verso la spalla del fratello, la mano che si aggrappava alla giacca, che lo strappava via dalla presa del bastardo, lo trascinava al sicuro. Lo sparo. Un tuono che fece tremare le montagne. Il corpo di Italia si accasciava su di lui, Romano sentiva l’odore del sangue unirsi a quello ferroso della pioggia. Le gambe cedevano, il peso di Italia crollava fra le sue braccia, il capo ciondolava di lato, e un fiore di sangue sbocciava sul petto. Il sangue impregnava l’uniforme, tingeva le acque del fiume, sporcava le dita di Romano.

“Romano, mi ricevi? Passo.”

Ci siamo di nuovo ricascati.

Romano abbassò gli occhi – due lampi di rabbia nel nero – verso l’estremità del ricevitore.

Il disgusto salì come un conato di vomito, la rabbia gli carbonizzò il cuore, arroventò il viso, le guance presero fuoco, il respiro accelerò.

Romano sfilò lentamente le cuffie dalle orecchie, lasciò ciondolare l’anello rigido attorno al collo. Impennò il braccio che reggeva il ricevitore sopra il capo, gonfiò i muscoli della spalla, le vene salirono in rilievo tra le nocche, e vide già la sua mano calare e sbattere l’apparecchio contro la radio.

Il peso dei tre soldati trattenne il braccio in aria.

Nooo, fermo!”

Tre paia di braccia si appesero al suo polso, alla sua spalla, al suo gomito.

Uno dei soldati tese la mano in alto salendo sulle punte dei piedi e le dita sfiorarono il ricevitore, sperando di agguantarlo. “Signore, la scongiuro, non lo faccia!” La sua voce vibrava affianco all’orecchio di Romano.

Romano diede uno strattone di lato, finì schiacciato contro gli altri due uomini. Ringhiò di rabbia e frustrazione. “Mollatemi, bastardi!”

“La prego, signore,” lo implorò la seconda voce contro il suo petto, “non si faccia prendere da –”

“Da cosa?” esplose Romano. Inspirò una forte boccata d’aria, il petto si gonfiò sotto le braccia dei tre uomini, e tornò a strattonare dall’altro lato. Scosse il capo più volte, strizzò le palpebre. “Non ho intenzione di sentire la sua voce, non voglio nemmeno sentirlo respirare!” urlò.

Una mano gli agguantò il polso che reggeva il ricevitore. La voce più secca e autoritaria delle altre tre lo pietrificò.

“Signore, non c’è tempo per questo.”

Romano irrigidì. Le tre paia di braccia che gli avvolgevano il busto e le spalle si serrarono, strinsero di più, la presa del soldato attorno al polso si fece di ferro e la mano di uno degli altri due riuscì a raggiungere il ricevitore. Tenne stretto l’apparecchio nella presa di Romano, non glielo lasciò riagganciare.

Il soldato che lo aveva richiamato avvicinò il viso a quello di Romano. Espressione ferma, rispettosa ma severa.

“Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile, in questo momento, e non possiamo permetterci di perderci in chiacchiere o...” Guardò il ricevitore, un quadrante della radio, la lancetta che rimbalzò a sinistra e tornò al centro, e di nuovo Romano. “O in litigi.”

Romano sbuffò dal naso, strinse la mandibola. Gettò lo sguardo di lato e finì con le labbra a sfioro di un padiglione delle cuffie che ciondolavano sulle sue spalle. La mano che impugnava il ricevitore vibrò. Viscidi tremiti di disgusto risalirono le dita e si raccolsero nel palmo e nel dorso, dove stringevano le mani dei soldati.

“La prego,” lo implorò l’uomo. La sua stretta e la sua presenza si fecero più vicine e calde. “Pensi ai soldati, pensi a se stesso, alla sua condizione, signore.” Prese un respiro profondo. La voce uscì calma, compassionevole. “Pensi a suo fratello.” Con un pizzico di sfida nel tono.

Romano gli gettò un’occhiata di fuoco da dietro il braccio che tremava, impannato davanti al viso. Lo sguardo schioccò come uno schioppo di fulmine. Il ramo di elettricità si tese, ramificò fino al viso del soldato, ma non gli fece niente.

L’espressione dell’uomo divenne ancora più grigia e inflessibile. “Noi abbiamo sempre contato su di lei.” Il soldato abbassò il pugno che stringeva il polso di Romano. Gli portò il ricevitore davanti al petto, continuando a guardare fisso quegli occhi di brace che fumavano scintille, e rimase freddo come ghiaccio. “Non ci deluda proprio ora.”

Romano stropicciò il viso, strinse i denti e storse verso il basso gli angoli della bocca. Fronte aggrottata, sopracciglia corrugate che assottigliarono gli spiragli luminosi e fiammeggianti degli occhi. Romano abbassò lo sguardo. L’estremità rigonfia del ricevitore lo osservava. Romano deglutì, trattenne l’onda di disgusto e odio nel petto, la sentì pulsare sullo stomaco, formicolare nel sangue, e bruciare a fior di pelle.

“Pensi a suo fratello.”

Romano rilassò i nervi aggrovigliati lungo le giunture del corpo. Sciolse i pugni, la pressione delle dita, e sentì le strette dei soldati allentarsi attorno al suo busto.

Calò il braccio dolorante che impugnava il ricevitore, la pressione della mano del soldato si sciolse, e tutti e tre fecero un passetto all’indietro. Romano guardò a terra, piegato e sconfitto. L’umiliazione ribolliva come un calderone nella pancia. Afferrò le cuffie, le rinfilò sopra le orecchie, e accostò le labbra al ricevitore. Non lo guardò.

“Che cazzo vuoi?”

Un breve sospiro di sollievo si levò sia dalle labbra dei tre soldati sia dai pori delle cuffie.

“Dove ti trovi?” chiese la voce sgranata di Germania. “Sei ferito?”

Che cazzo te ne frega!

Romano sbuffò in mezzo ai denti. “Sto bene. Sono...” Buttò l’occhio fuori dalla parete spalancata della tenda. Non aveva ancora smesso di piovere. Uno dei muli legati alla palizzata scrollò il capo dondolando le orecchie. Una ventata d’acqua era entrata sotto il tettuccio e gli aveva inzuppato il pelo. Romano serrò il pugno che tremava sul fianco e la voce gorgogliò. “Sono nel fango,” esclamò. “Ecco dove sono, cazzo!” Spalancò un braccio verso l’uscita della tenda e per poco non colpì uno dei soldati. Accostò la bocca al ricevitore e urlò nei fori. “Come merda vuoi che stia?”

Uno dei soldati fece roteare gli occhi al soffitto.

Germania sospirò di nuovo. Un sospiro più breve. “Se hai tutta questa forza di insultarmi, deduco che tu non stia così male come temevo.”

Romano strinse così tanto l’impugnatura del ricevitore che si udì lo scricchiolio della plastica echeggiare sotto la pressione delle unghie. Ringhiò, i denti vibrarono e le labbra si torsero. Avrebbe avuto voglia di ficcare una mano dentro i quadranti della radio, affondare il braccio, raggiungere Berlino dall’altro capo della comunicazione, e strangolarlo fino a fargli saltare la testa dalle spalle.

Altre voci crearono un brusio sgranato dall’altro capo dell’apparecchio, più lontane di quella di Germania, che si alternavano a onde.

“Dai, West, passa qua.”

Un altro pizzicore di irritazione punse Romano alla base del collo.

La voce di Prussia era come della cartavetrata che veniva sfregata dietro il padiglione dell’orecchio.

“Allungami la cuffia e fammi sentire.”

“Non starmi appiccicato.” Voce soffice e delicata come un panno di velluto strappato da una piega di costante disappunto. Austria. “E sei pregato di non soffiarmi sul collo.”

“E allora levati dalle palle.”

“Ci sto provando e tu mi stai schiacciando.”

“Fate silenzio!”

Romano strizzò un occhio e scollò la cuffia dall’orecchio.

L’urlo di Germania esplose come una granata, tagliò in due il brusio di sottofondo sollevato da Prussia e Austria.

Cadde il silenzio come se Germania avesse girato la manopola del volume fino allo zero.

Romano lasciò andare il padiglione della cuffia che aveva scollato dall’orecchio e quello tornò al suo posto, aderendo al capo come un guanto.

La voce di Germania tornò limpida e seria. “Romano, ascoltami, dov’è Italia?”

Romano sussultò. La mano che impugnava il ricevitore tentennò.

Gli occhi vacillarono in mezzo alla terra sotto i suoi piedi, la confusione ronzò fra le pareti del cranio come uno sciame di mosconi. La pelle gelò, ventate di brividi di freddo lo assalirono sulla schiena e dietro il collo, lo avvolsero in un abbraccio bruciante.

Già... dov’era Italia?

“Sappiamo già che siete partiti separati,” proseguì Germania. “E siamo riusciti a contattare te per pura fortuna, non potendo trovare lui. Devi darci tutte le informazioni che possiedi, in modo che possiamo aiutarti, mi hai capito?”

Romano socchiuse la bocca. “Io non...” Sentì le labbra pesanti e secche, la lingua paralizzata e incapace di muoversi. “Non so dove...” Stropicciò la fronte, premette una mano contro il padiglione della cuffia. Le dita sudavano, i polpastrelli tremavano inumidendo l’imbottitura. Il tono di Romano divenne un mormorio basso e fioco. “Dove sia adesso.”

Il sangue, i capogiri, la pioggia in faccia, la lama che scintillava, che si avvicinava trapassando l’aria e che affondava sulla clavicola.

Romano scrollò il capo, spazzò via le immagini.

La mano aggrappata alle cuffie strinse come quella sul ricevitore. Romano avvicinò le labbra ai pori, gli occhi restarono vacui e lontani, e si sforzò di alzare il tono.

“Mi hanno solo detto che lo hanno fatto trasferire in uno dei battaglioni della Julia qualche giorno fa. Nel...” Le dita sul padiglione scesero, grattarono la tempia e strofinarono i capelli dietro l’orecchia calda e umida che prudeva già. Romano stropicciò uno sguardo confuso e pensoso. “Nel Tolmezzo, credo. Quello di riserva.” La mano scivolò da sotto la cuffia, gli occhi di Romano guardarono il ricevitore. L’alone di confusione e di timore si sciolse come nebbia sotto il sole. “Ma era già programmato, quindi non credo che...”

“Alla Julia?” Germania lo interruppe. La sua voce sfrigolò, tornò chiara. “La divisione alpina?”

Romano sollevò un sopracciglio. “Sì, quella.”

“Romano.”

Romano sbatté le palpebre. Attese. Un brivido spazientito gli fece traballare un sopracciglio.

Fuori dalla tenda e sopra di loro, la pioggia scrosciava. Un diluvio impazzito.

La voce di Germania, anche se era lenta e bassa, fu un fulmine nella tempesta. “La Julia è stata appena attaccata. È successo questa mattina.”

La saetta di elettricità colpì Romano alla nuca, perforò la testa, paralizzò la mente, ingrigì il viso e gli fece spalancare gli occhi.

Una folata di aria ghiacciata lo travolse da capo a piedi, contrasse i muscoli, le ossa, le braccia, e le ginocchia presero a tremare. Si sentiva svenire.

“Co...”

Dalla gola uscì una voce rauca e mozzata che non sembrava nemmeno la sua. Romano toccò il palato con la lingua. Secco. Il sapore amaro tra le guance gli scese giù in gola e riempì lo stomaco facendo sorgere un conato di vomito.

“Cosa?”

Quella visione, allora... era sua. Non ho vissuto ricordi miei, ma i suoi! Se è stato attaccato... se Veneziano è stato attaccato ed è finito massacrato da quel figlio di puttana, io...

Romano strinse il ricevitore. Stropicciò il viso in una smorfia di rabbia e incredulità. Le guance divennero rosse. “Stai fottutamente scherzando?”

“No, Romano.” Il tono di Germania si era abbassato. Trasmise un contenuto fremito di sconsolatezza attraverso la sgranatura della connessione. “È normale che voi non lo sappiate ancora, se le comunicazioni sono interrotte anche tra le divisioni. Io l’ho saputo solo tramite gli alti contatti, persino i bollettini di guerra sono inaffidabili, sono stati tutti censurati per non...”

La voce di Germania offuscò in lontananza, il rumore bianco generato dall’imbottitura ovattata delle cuffie tappò i suoni attorno al capo di Romano, lo chiuse dentro a una bolla d’acqua che riempì la testa e le orecchie. Le immagini che erano corse davanti ai suoi occhi come una pellicola tornarono a schiaffeggiare la vista.

Raffiche di spari sciamavano nell’aria come nuvoloni di piombo e attraversavano il corpo di Italia, aprendo fori roventi sul suo busto, sulle gambe, sulle braccia, sui fianchi. La pressione dei proiettili schiacciava i muscoli e le ossa, lo costringeva a piegare la schiena ad arco, il viso rivolto al cielo, e a cadere di spalle.

È morto...

Il filo della lama tagliava le gocce di pioggia, perline d’acqua scorrevano sulla punta della lancia e scivolavano verso il manico. La pressione spingeva sulla spalla. Gocce di sangue spesse e luccicanti come rubini schizzavano fuori dalla ferita e si sparpagliavano nell’aria. Gli bagnavano il viso, le labbra. Il sapore ferroso entrava in gola, e la macchia nera si allargava all’altezza della clavicola, unendosi alle ferite dei proiettili.

Romano vacillò, vide l’interno della tenda capovolgersi, l’aria si fece troppo pesante da respirare, gli faceva male il petto.

Ormai lo ha... Grecia lo ha...

Si morsicò il labbro inferiore. Il bruciore che galleggiava tra le palpebre tornò in fondo allo stomaco, vorticò nella pancia. Divenne un turbine di rabbia.

“... quindi credo che la cosa migliore da farsi per voi due sia...”

“Vaffanculo.” Romano lo disse quasi sputando.

Due dei soldati sollevarono gli occhi al cielo. Il terzo premette il palmo sul viso e si voltò di fianco.

Germania rimase in silenzio, il suono della pioggia che scrosciava contro la tenda tornò a riempire l’udito di Romano ovattato dalle cuffie.

Romano aveva già ripreso a tremare e a trattenere i sibili di rabbia tra i denti, quando Germania rispose.

“Prego?” Tono piatto.

Romano sentì la fiamma di rabbia ruggire nel petto e i fumi scuri puzzare sotto il suo naso arricciato.

“Tu...” Fece stridere i denti, chiazze scarlatte si espansero sulle guance. “È solo per questo che ti sei preso la briga di chiamarmi, allora?” sbraitò. “Solo per dirmi che mio...” Premette la mano libera contro la bocca per non singhiozzare. Chiuse gli occhi, inspirò a fondo, deglutì. Le dita scivolarono dalle labbra, e la maschera di rabbia tornò a stendersi sul suo viso nero. “Che mio fratello è probabilmente morto, eh?” Quando disse ‘fratello’, la voce tentennò, annacquata dal flusso di lacrime che stava trattenendo in gola.

“Romano, ascoltami,” disse Germania, paziente. “Non ho mai detto che...”

Romano portò il ricevitore più vicino alle labbra e gli urlò contro, a spalle chine e viso basso, nascosto dai capelli. “Chiudi la bocca!” I tre soldati si allontanarono di un passetto. Romano strinse la mandibola, digrignò i denti. Il braccio che impugnava il ricevitore vibrò. “Già... perché,” deglutì, “perché diavolo uno come te dovrebbe chiamare me, dopotutto? A te...” Il turbine che frullava nella testa divenne un vortice nero e opprimente. La sabbia che si sollevava dai ricordi e dalle emozioni svelò vecchi tormenti, mise a nudo gli angolini più nascosti della testa di Romano. La sua voce divenne un singhiozzo strozzato. “A voi interessa solo Veneziano, dopotutto.”

Sentì un coltello affondare nel petto e attraversargli il cuore. Un unico taglio netto. Il cuore gocciolava sangue, e il sangue espandeva una macchia calda e viscida tra le costole. Il petto bruciava.

Romano scosse la testa. “Non hai chiamato per sapere se ero vivo io, ma se era vivo lui. Quando mai...” Inspirò forte, e rigettò tutta la rabbia in un’unica frase che gli esplose nel cranio. “Quando mai c’è qualcuno che pensa anche a me? E poi non sei nemmeno andato a salvarlo. Lui avrebbe dato ascolto solo a te ma non hai fatto niente per fermarlo. E adesso vieni qua a dirmi che Grecia lo ha ammazzato? È tua la colpa!

Germania prese un lento respiro paziente. “Romano, adesso calmati e lascia...”

“Senti un po’.”

Una voce più aspra, austera e graffiante suonò limpida dentro l’imbottitura delle cuffie. Una voce che raffreddò i bollori di Romano, facendogli ringoiare gli sputi di rabbia. La voce di Prussia.

“Primo,” disse Prussia, secco. “Non abbiamo mai fatto parola sul fatto che Italia sia ferito o morto.” Restò un secondo in silenzio, ma Romano non sentiva più il rumore della pioggia in sottofondo. “Secondo,” Prussia inspirò, parlò più forte, “piantala di comportarti come se tutto il casino che vi sta piovendo addosso sia colpa nostra, perché se siete con il fango al collo è solo causa della vostra sconsideratezza. Terzo.”  

Romano era paralizzato. Sentiva le cuffie incollate alle orecchie, la voce di Prussia imprigionata in testa senza possibilità di farla uscire.

“Se non lo avessi notato, stiamo cercando di aiutare entrambi proprio in questo istante, a cominciare da te,” sottolineò. “Se la cosa non ti sta bene e preferisci essere sepolto dal diluvio e dal pantano, accomodati. Una fatica in meno per noi da risolvere.”

I tre soldati si voltarono a guardare Romano. Era impallidito come una presa di sale, rigido come una statua. Due di loro si scambiarono un’occhiata preoccupata e intimorita.

“Considerando che avete sollevato questo disastro di testa vostra, senza dirci nulla,” proseguì Prussia, “noi non abbiamo nessun obbligo verso di voi e verso la vostra situazione. Potremmo benissimo restarcene a braccia conserte e guardarvi marcire in Grecia, se lo volessimo, e avremmo ogni ragione per farlo.”

Romano strinse il pugno sul ricevitore, l’altra mano avvolgeva uno dei padiglioni delle cuffie e il braccio tremò. Romano prese un respiro vibrante ma non riuscì a dire nulla.

“Ma come vedi ci stiamo lo stesso facendo in quattro per venirvi in contro.” Anche Prussia inspirò. A Romano gli parve di sentire il suo fiato direttamente sul collo, i denti aguzzi che premevano sul labbro e gli occhi rossi che scintillavano nell’ombra del viso. “Quindi frena la lingua, quando ti rivolgi a noi.”

Un brivido di paura gli scese lungo la spina dorsale. Paura viscida e fredda, appuntita come la carezza data da un artiglio d’acciaio. Era la stessa sensazione di terrore che Romano aveva provato mesi prima, durante la riunione, quando aveva provato a colpire Germania, e Prussia si era buttato di mezzo.

“Sono stato sufficientemente chiaro?”

Di nuovo quel giorno.

Le braccia di Italia che lo trattenevano, allacciate ai suoi fianchi, il petto di Romano gonfio di rabbia sotto la presa, il braccio alzato, il pugno rivolto verso l’alto, le vene pulsanti attorno alle nocche. Occhi rossi che lo trapassavano come frecce di fuoco, la sensazione del cuore che si fermava per la paura, di una lama che passava sotto la gola lasciando dietro di sé una scia di sangue che colava lungo il collo. Uno sguardo che ammazzava con gli occhi.

“S...” La frustrazione si spense. Il formicolio si sciolse dalla presa delle dita, la pelle tornò fredda, i muscoli rigidi, le guance pallide. Romano gettò la fronte verso il basso. Cedette. “Sì,” mormorò. Il senso di sconfitta gli opprimeva le spalle, lo schiacciava verso il basso.

Prussia emise uno sbuffo compiaciuto dall’altro capo della connessione. Qualcosa scricchiolò, come un pugno di sabbia soffiato contro il ricevitore.

“Tutto tuo.”

La sua voce era lontana. Si era sfilato le cuffie e le stava passando a Germania.

“Hai esagerato.” Austria. Ancora più flebile e lontano. “Adesso si sarà impaurito e non sarà più in grado di andare avanti e pensare lucidamente.”

Naah,” gracchiò Prussia, divertito. “Un po’ di sana strizza fa bene in guerra. Tiene in circolo l’adrenalina.”

Austria sbuffò come se avesse sollevato la punta del naso. “Barbaro.”

“Principessa.”

Le cuffie gracchiarono di nuovo. Scricchiolii più intensi e ravvicinati rimbombarono nelle orecchie di Romano.

“Romano,” qualcosa si mosse, Germania stava sistemando le cuffie attorno al capo, “sei ancora lì?”

Per la prima e unica volta nella vita di Romano, la voce di Germania gli trasmise un profondo e piacevole senso di sollievo.

Il sangue tornò a scorrere, la pelle ridiventò calda, il cuore riprese a battere, la nebbia svanì dalla testa, i pensieri tornarono limpidi.

Le palpebre si appesantirono. Si fecero bollenti e brucianti come le guance, senza che Romano se ne accorgesse.

Socchiuse la bocca.

“Che...”

Un filo di pianto sgorgò dagli occhi, traboccò come latte sul fuoco.

Romano schiacciò il braccio contro il viso prima di sentire le lacrime scivolare sulla pelle.

Italia era in pericolo, potenzialmente morto, Prussia gli aveva fatto il culo a strisce, e l’unica consolazione era stata la voce di Germania, calma e fredda.

Romano strinse i denti. L’umiliazione era un macigno di pietra che gli schiacciava le spalle e che premeva sullo stomaco, seppellendolo nel fango.

Strinse i denti, ne uscì un lamento ondeggiante e stridulo. “Che cosa vuoi da me?” Ingollò un singhiozzo sofferto.

“Ora cerca di stare tranquillo e di non farti prendere dal panico, hai capito?” disse Germania. “Possiamo ancora recuperare, la situazione non è completamente persa.”

Romano tirò su col naso. Rimase con il braccio incollato al viso, mentre uno dei soldati si avvicinò a lui di un timido passetto, a confortarlo.

Germania emise un sospiro. “È vivo, Romano.”

Romano sussultò.

“Sono sicuro di questo.”

Romano inspirò, fece scivolare il braccio dal viso, sbirciando il ricevitore con occhi gonfi e rossi.

“Io no...” La voce di Germania tentennò attraverso le cuffie. “Io non condivido con Italia lo stesso tipo di legame che unisce voi due, ma sento...” Rafforzò il tono. “Sento lo stesso che è vivo e che vi rincontrerete presto.”

Romano sentì un vuoto allo stomaco.

“È vivo... vi rincontrerete presto...”

“Cerca di crederlo anche tu e abbi fiducia in lui.”

Romano emise uno sbuffo secco, arricciò le labbra. “Grazie al cazzo, eh,” mormorò.

Germania sospirò, rispose come se non avesse sentito. “Non mollare. Fatti forza e vai avanti. Io continuerò a cercare di mettermi in contatto con Italia usando ogni mezzo a mia disposizione.” Un altro respiro, più breve. “D’accordo?”

Romano aggrottò la fronte. Gli occhi erano ancora rossi e lucidi, le guance scarlatte. “Non me lo faccio certo dire da un bastardo come te.”

“L’importante è che tu ci creda.”

“Mhf.”

Lasciò andare il ricevitore semplicemente sciogliendo la presa delle dita. Uno dei soldati si sporse abbassando il braccio per evitare che cadesse a terra.

Le lancette impennate all’interno dei quadranti a mezzaluna precipitarono verso sinistra. Caddero piatti, immobili. Comunicazione terminata.

Romano si sfilò le cuffie. Le orecchie e i ciuffi di capelli rimasti sotto l’imbottitura si rinfrescarono, la pelle pizzicò per l’aria fredda che andò a solleticargli il sudore. Le cuffie caddero davanti ai quadranti, il cavo di gomma si arrotolò fra i due padiglioni e giacque come un serpentello addormentato. L’uomo che aveva raccolto il ricevitore sistemò anche le cuffie. Ancora a spalle basse, levò gli occhi verso Romano.

“A... allora?” domandò con tono intimidito.

Il secondo soldato si avvicinò e giunse le mani davanti al petto. “Che cos’hanno...” I suoi occhi incrociarono di sfuggita quelli di Romano. Ancora bassi, neri di stanchezza, gonfi, e rossi per il pianto. L’ombra dei capelli che toccavano la punta del naso non riusciva a celare la fioca luce di avvilimento che gli ingrigiva lo sguardo. “Signore?”

Le labbra di Romano tremarono. Romano affondò i denti nel rigonfiamento inferiore fino a che la carne non divenne bianca sotto la pressione degli incisivi. Si aggrappò con le mani alle tempie, strinse le dita fra i capelli, e il viso si contrasse in profonde e scure pieghe di dolore.

“Ghn~!”

Gettò via un braccio dal capo, e lo stese di lato in modo da tenere lontani i tre soldati. Corse fuori dalla tenda. Sbatté un pugno contro il telo penzolante, il lembo di tessuto impermeabile sventolò sotto il getto di pioggia, avvolse due fucili che erano stati posati contro un palo del tendone, e tornò piatto.

L’acqua investì Romano come lo scroscio di una doccia. Lo annaffiò da capo a piedi, i capelli gocciolanti si incollarono al viso – scuri, quasi neri – e l’uniforme divenne di un cupo verde oliva, color muschio. Romano sentiva la pelle bruciare, il sangue ribollire. Tutt’attorno a lui, la nebbia di pioggia lo circondava, refrigerando i bollori. Romano calciò una pozzanghera, schizzò acqua e fango, ribaltò una zolla di argilla. Altro passo. Allungò l’altro piede, flesse il ginocchio, e colpì un sasso che schizzò lontano come un proiettile. Calpestò altri tre passi, sbuffando e respirando a boccate affannose, a pugni chiusi, e crollò a terra.

La pozzanghera gli salì sopra le ginocchia, imbevette le gambe, inghiottì i piedi e l’acqua entrò negli stivali. Acqua fredda e collosa si unì a quella del diluvio che lo annaffiava dall’alto.

Romano tornò a stringersi i capelli, inspirò forte dal naso fino a sentire i polmoni bruciare per la pressione, il petto farsi gonfio fin quasi a scoppiare, e rigettò un urlo basso e straziato.

Tutta la tensione uscì. Rigurgitata come dalla bocca di un vulcano.

Quando riprese fiato, lo scroscio della pioggia tornò a battergli dietro le orecchie e contro la schiena, l’aria entrò con un respiro avido e rauco. Non piangeva, ma la pioggia scivolava sulle guance come spesse lacrime cristalline.

Un senso di vuoto gli aprì lo stomaco, il petto, il cuore.

Le dita di Romano scivolarono dai capelli, le mani si aprirono, si tuffarono dentro il fango, e restarono immerse fino ai polsi.

La pioggia frastagliava le pozzanghere, gli schizzi guizzavano come pesciolini e si frantumavano contro il viso di Romano.

Il primo singhiozzo unito al respiro pesante gli scosse la schiena e le spalle. Romano piegò la fronte, tenne i denti affondati nel labbro sentendo il sapore della pioggia e del sangue entrargli in bocca.

Vuoto, debole, impotente, distrutto dalla stanchezza.

Una mano calda gli toccò la spalla, gliela avvolse. Dita forti e solide strinsero la presa delicata e trasmisero un piacevole senso di tepore che irradiò fin dentro le ossa.

Romano sobbalzò.

Occhi spalancati a terra.

Sollevò lo sguardo di scatto aspettando di trovarsi davanti al solo viso familiare a cui poteva appartenere quel tocco.

“Non...”

Pioggia.

La pioggia nascondeva i profili delle montagne del Pindo dietro la nebbia grigia.

Romano sbatté le ciglia bagnate. Si guardò attorno, a destra, a sinistra. I pugni strinsero nel fango, il respiro si fermò per trattenere l’aspettativa.

Pioggia.

Di nuovo il senso di vuoto e la delusione che aprirono un buco allo stomaco.

Romano tornò a stringere i denti. Sentiva l’acqua scivolargli sul viso in una serie di sottili carezze ghiacciate.

No, non devo fare affidamento sui morti. Non devo fare affidamento su nessuno. Inspirò. Sentì il petto gonfiarsi di calore, come se fosse rimasta l’impronta del tocco caldo sulla spalla. Io posso far affidamento solo su me stesso. E sarò io a portare in salvo Veneziano. Né il nonno né il crucco. Il cuore bruciò di determinazione. La fiamma salì fino alla gola. Io soltanto.

Fece emergere una mano dal fango. Divaricò le dita e l’argilla acquosa sbrodolò dal velo che si era aperto a ventaglio tra le falangi, come la zampa palmata di un rospo.

Che cosa sto facendo qui? Scrollò via il fango dal braccio. Veneziano è in pericolo, ferito e disperso chissà dove, e io me ne sto qua imbambolato come uno scemo sotto il diluvio.

Sollevò gli occhi anneriti sotto l’ombra dei capelli bagnati e spettinati. Non vedeva la cima dei monti.

Grecia. Trattenne il respiro tra i denti. Di nuovo il fuoco ribollì nello stomaco. Grecia deve sicuramente sapere quello che gli è successo. Se Veneziano ha combattuto ed è stato sconfitto, allora il prossimo obiettivo di Grecia sono io.

Piegò un ginocchio, la gamba dragò nel fango aprendo in due la superficie della pozzanghera. Romano richiamò il ginocchio alla pancia, spinse il piede a terra, spalancò le mani e premette la forza sui palmi. Si tirò in piedi sgocciolando il fango dai vestiti, dagli arti e dalle dita. La pioggia che gli batté sul viso e sul corpo sciacquò via i grumi di argilla.

Lo troverò.

Romano sfregò un braccio sul viso. Il braccio rimase alzato e i suoi occhi affilati tagliarono la nebbia da sotto i capelli arruffati.

Lo troverò e gli spaccherò il muso fino a che non mi dirà quello che ha fatto a Veneziano. E se mi dirà quello che non voglio sentirmi dire...

Il braccio scivolò giù dal volto.

Svelò uno sguardo scuro, feroce, ma lucido e consapevole.

Lo ammazzerò.

Romano si voltò facendo strisciare i piedi nel fango. Camminò verso l’apertura della tenda, verso i tre soldati che lo osservavano, imbambolati tra le due labbra di telo aperte.

“Sbrighiamoci,” disse Romano.

Passò vicino a loro e raccolse uno dei fucili che erano poggiati alla parete. Lo agguantò per la cinghia e lo sollevò contro il petto.

“Non ho intenzione di stare qui a mettere radici nel fango e farmi mangiare i piedi dalla pioggia.”

Infilò una mano nella tasca bagnata, trovò la piastrina di caricamento e la strinse fra le dita. Con la mano libera impugnò l’anello dell’otturatore, fece scorrere il percussore e snudò il serbatoio di caricamento.

“Metterò a soqquadro tutta Kalibaki, arriverò al Kalamas e sterminerò qualsiasi greco bastardo che oserà mettersi sulla mia strada.”

Crack!

Richiuse il caricatore, girò la leva dell’otturatore, e impennò la canna del fucile davanti al viso.

“Smontate tutto, date ordine alla divisione di muoversi e richiamate anche la Centauro.” Squadrò tutti e tre da sopra la spalla. Scagliò loro un’occhiata che avrebbe fatto rabbrividire anche un orso inferocito. “Uniamoci e andiamo a spaccare il culo a quei figli di puttana!”

I tre soldati si rimpettirono, irrigidirono le spalle e batterono un saluto fiero e gonfio di orgoglio sulla fronte.

“Sissignore!” esclamarono.

Romano annuì. Si caricò il fucile sopra la spalla e tornò a uscire dalla tenda. Scaraventò via il telo, lo sguardo salì subito verso il cielo nero della sera.

Fratello.

Restrinse le sopracciglia. Dolore e speranza gli gonfiarono gli occhi imbevuti dalle gocce di pioggia.

Resisti, sto arrivando.

L’impronta della mano calda lasciata sulla spalla pulsò di energia.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_