Gli scogli si allungavano verso nord per ancora una decina di metri, a formare una sottile passerella. Poi: il mare, sconfinata distesa di cristalli color fumo sotto un cielo triste e sgraziato. L’acqua cingeva le rocce con ritmica tenacia, indifferente di fronte alla loro freddezza; l’orizzonte, basso e soffocante, tagliava il paesaggio a metà in una lama violacea: il tramonto era passato da un po’, ma io lo avevo visto tutto. Il sole, nella sua imponente lucentezza, era sorto e tornato a dormire. Era stato un giorno come un altro, di un anno come un altro, in cui il mondo si era ribaltato ed era rimasto esattamente com’era.
Pensai a mio fratello, chiuso nel suo studio di fronte alla sua macchina da scrivere, a distruggersi il fegato con il whisky e la vita con l’orgoglio. Pensai a mia madre, china sulla tomba di mio padre, che piange per un passato che non gli perdonerà mai e ad una fanciullezza che non riavrà. Pensai a Daniele, uomo che tanto mi disprezzava, che altro non voleva che un po’ d’amore da parte di una vita troppo crudele. Pensai al mare, così infinito e così solo.
All’improvviso non capii più nulla. Il mondo mi apparve in un attimo più piccolo, il cielo diventò il vetro di una teca su cui un dio disprezzante talvolta puntava il dito. L’essere umano, la vita, mi parvero all'istante svuotati di senso, nulla aveva più un significato. Chiusi gli occhi, sentii il mare sussurrarmi all’orecchio parole oscene, infernali.
Mi cinsi le spalle.


E scoppiai a ridere.