Storie originali > Commedia
Segui la storia  |       
Autore: Dafne ThyCapulet    26/03/2009    0 recensioni
Anita: "La prima volta che vidi una foto di Brandon da bambino fu qualche mese prima del nostro matrimonio[...]; nel momento in cui vidi i suoi ridenti occhioni blu (gli stessi di sempre), il suo faccino pacioccone (che ha tuttora e di cui non capisco perché si vergogni) e il suo sorrisone sdentato (che, fortunatamente, non ha più e spero non rivedrò almeno fino ai suoi settantanni), mi dissi che, semmai avrei superato il terrore del parto e mi sarei convinta a fare un pupazzetto tutto mio, doveva essere identico a lui."

Brandon: "[...]Avete presenti quelle splendide pubblicità della famiglia modello a colazione, in cui la mamma è sempre ai fornelli e truccata come una top model, il papà felice e sorridente con una perfetta messa in piega anni ’50 e i bambini saltellano come cuccioli di lepri da una parte all’altra del tavolo impazienti di fare colazione per poi andare a scuola? Sì, le avete presenti? Bene. La mia famiglia era esattamente il contrario, soprattutto a colazione."
Genere: Romantico, Commedia, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Brandon's version)

L’infanzia di Brandon (Brandon’s version)

 

D’accordo, dimenticate tutto quello che vi ha detto Anita. Non me ne volere, tesoro, ma non si possono raccontare balle a gògò e pretendere che la gente ci creda: mica la massa è tanto stupida come i politici si gongolano di credere. Il fatto è che la mia infanzia fu tutt’altro che rose e fiori: fu più spine e rovi, come d’altronde è quella della maggior parte della popolazione mondiale.

Avete presenti quelle splendide pubblicità della famiglia modello a colazione, in cui la mamma è sempre ai fornelli e truccata come una top model, il papà felice e sorridente con una perfetta messa in piega anni ’50 e i bambini saltellano come cuccioli di lepri da una parte all’altra del tavolo impazienti di fare colazione per poi andare a scuola? Sì, le avete presenti? Bene. La mia famiglia era esattamente il contrario, soprattutto a colazione.

Immaginate la scena: ore 6 del mattino, cucina semisommersa dalle ombre della notte, atmosfera soporifera altamente contagiosa. A capotavola mio padre, frettolosamente vestito per andare a lavoro, la mascella grave, la linea delle labbra contratta in una smorfia infastidita; mia sorella Grace e mio fratello Larry rispettivamente ai due lati della tavola, lei che rigira automaticamente il cucchiaino nella tazza di latte senza mai assaggiarne un sorso, lui che ad occhi chiusi continua a russare con la testa in precario equilibrio su una mano; all’altro capo della tavola mia madre, in vestaglia e bigodini, che mentre si porta alla bocca un biscotto osserva torva mio padre nella tacita speranza che qualcosa gli vada di traverso; infine io, seduto accanto a lei, con la testa abbandonata sul tavolo ed il cuscino ancora stretto al petto. Questa era la nostra famiglia alle 6 di un mattino qualunque, come credo che, con tutte le varianti del caso, fosse anche la vostra. Ma, vi assicuro, la mia era di certo più incasinata di quanto lo fossero tutte le vostre messe assieme.

Ora, prima di continuare, mi sembra però doveroso farvi sapere che ci sono moltissime cose che io odio con tutto me stesso, cose come l’ipocrisia, l’indifferenza, i terroristi, la droga, la sveglia puntata alle sei, il mobbing del mio capo (diamine, forse questo dovevo evitare di dirlo…), gli slip ultraderenti, le diete ipocaloriche, i programmi massacranti della mia personal trainer, i clienti che mi scambiano la pancia per la faccia e via dicendo, ma la cosa che mi fa imbestialire di più in assoluto è il vittimismo. Quindi, sebbene sappia che molti che hanno vissuto un’infanzia come la mia sarebbero entusiasti di farlo, io non farò la vittima. Ciononostante se desiderate provar pena per me, siete liberi di farlo…basta che siate furbi e non me lo facciate capire.

Tanto per cominciare, io so che la mia venuta al mondo non avvenne per puro caso.

Sì, certo, chiunque di voi creda in un Principio Superiore in opposizione al Caos starà dicendo che nessuno mai viene al mondo per puro caso, ma che ognuno nasce per una ragione, per svolgere una funzione più o meno utile in questo mondo; concordo con voi, ma non è questo quello che intendo dire. Voglio dire che il mio concepimento fu il frutto di un progetto ben preciso, un progetto che non stava tanto scritto nella mente di Dio, quanto piuttosto in quella dei miei genitori.

Dopo quasi dieci anni di matrimonio e due figli, infatti, mia madre e mio padre erano entrati in una crisi che pareva irreversibile: non si parlavano, non si toccavano, non si guardavano, se potevano cercavano persino di non ritrovarsi insieme nella stessa stanza. Insomma, non sopportavano più la presenza l’uno dell’altro.

I miei due fratelli più grandi, Grace e Larry, che hanno rispettivamente sei e otto anni più di me, sono stati per me dei fedeli cronisti della situazione familiare precedente alla mia nascita. E, come è logico supporre, Grace stava dalla parte di mia madre, Larry da quella di mio padre.

<< Tu non hai idea di che tormento fosse per mamma dover sopportare quel troglodita di papà - mi diceva Grace sventolando nervosamente la mano in aria come se si fosse scottata con la tazza di tè che aveva in mano - Si comportava come un selvaggio: aborriva la doccia, disseminava vestiti dappertutto, lasciava il lavandino pieno di peli, schizzava sempre la tavoletta del water e, oh…non puoi immaginare in che condizioni fossero le sue mutande. >>

<< Perché, tu le hai viste? >> le domandavo innocentemente.

Di tutta risposta, Grace spalancava la bocca portandosi una mano sul cuore, esattamente come le raffinate signorine inglesi di cui amava tanto leggere.

<< Santo cielo, certo che no!! Mi sono sempre fatta bastare la descrizione che mamma me ne faceva. >>

<< Tutte stronzate!! - sbraitava invece Larry con la sua usuale finezza da scaricatore di porto, spintonandola sempre tanto forte da farle versare metà del suo tè sul pavimento - La verità è che mamma si comportava come un fottuto despota: “togliti quelle scarpe prima di entrare in bagno!”, “non toccare il centrotavola con quelle mani sudice!!”, “sistema immediatamente il casino che hai combinato!!” >>

<< Guarda che queste cose le gridava a te, non a papà. >> interveniva Grace torva, stringendo più saldamente la tazza di tè fra le mani.

<< Beh, fa lo stesso!! - la liquidava lui con un gesto noncurante - E poi, non appena papà le chiedeva gentilmente un favore, lei era più acida di un fottuto succo d’arancia: “stiratele tu le camicie!!”, “col cavolo che ti cucino qualcos’altro!!”, “non ci sono piatti puliti? Allora che aspetti a lavarli??” >>

<< Gentilmente?! Ma quando mai papà chiedeva qualcosa gentilmente?? - lo rimbeccava Grace, sollevandosi di scatto dalla poltrona su cui era seduta per fronteggiarlo dall’alto del suo minaccioso metro e sessanta - Un uomo delle caverne sarebbe stato cento volte più cortese di lui!! >>

<< Ti sfido ad essere cortese con un cazzo di bull-dog in procinto di azzannarti! >> ribatteva Larry, alzandosi lentamente dal bracciolo della poltrona per riservarle un sorrisetto sarcastico dai suoi dieci centimetri di altezza in più.

A tal punto imbestialita (ma comunque raffinata), Grace gli versava regolarmente in faccia ciò che era rimasto del suo tè e, sorpreso (ma comunque zotico), Larry le rovesciava addosso i più leggeri improperi che conosceva, perché d’altronde era sempre sua sorella.

Ecco, osservando questa scena più e più volte, arrivai a rendermi conto che le liti fra mia madre e mio padre prima della mia nascita dovevano essere state pressoché identiche a quelle che intercorrevano fra Grace e Larry (tranne che per il linguaggio osceno di mio fratello, ovviamente).

Data dunque la gravità della crisi familiare che stavano vivendo, i miei genitori (ergo mia madre) decise di andare a consultare un medico specializzato in terapie di coppia o in qualcosa del genere insomma, per capire quale fosse il problema reale alla base di quella mal celata insofferenza che l’una provava per l’altro: non poteva certo essere soltanto la propria autorevolezza o la sporcizia del marito, le diceva il suo intuito. Di tutta risposta, il medico/psicologo/agente matrimoniale, chiamatelo come volete, le rivelò che c’era un’unica soluzione a tutti i problemi in cui una coppia poteva incorrere: un figlio.

Mi immagino perfettamente la faccia perplessa di mia mamma nell’udire la sua risposta.

<< …mi sta prendendo in giro? >>

<< Nossignora - dovette ridacchiare insulsamente il medico - Vedrà che un figlio aggiusterà tutto quanto. >>

<< Guardi che io e mio marito abbiamo già due figli e, più che aggiustare tutto, ci stanno portando sull’orlo di un collasso nervoso. >>

<< Oh, ma vedrà che con il prossimo sarà diverso. Il terzo figlio è sempre il migliore: non ha mai sentito dire che tre è il numero perfetto? >>

Tanto disperata da credere a una fesseria del genere, mia madre si convinse che solo la presenza di un’altra piccola peste avrebbe risolto i problemi che aveva con suo marito: così ne parlò a mio padre e lui, che quella sera era appena tornato dal Bangladesh e non capiva più se fosse notte o giorno, si lasciò scappare un assenso assonnato per poi piombare finalmente in fase rem.

La sera successiva, allora, mia madre smise la vestaglia e i bigodini ed indossò la lingerie della sua prima notte di nozze, infilandosi emozionata sotto le coperte in attesa che il marito uscisse dal bagno. Non appena vide mio padre raggiungerla a letto sbadigliando, in ciabatte e pigiama a pois azzurri e verdini, non fatico a credere che la sua esaltazione fosse rapidamente sfumata via per lasciar spazio al più triste ribrezzo. Ma ormai era troppo tardi: non appena mio padre scoprì la sua striminzita biancheria intima, infatti, non ci fu verso di dissuaderlo dallo sfilargliela.

E così quella notte, volenti o nolenti, i miei genitori mi concepirono.

In realtà devo ammettere che per i miei primi cinque/sei anni di vita rappresentai una presenza benefica per il loro rapporto di coppia: nella memoria della mia infanzia più lontana, infatti, non riesco proprio a ricordare di averli visti litigare una sola volta e Grace e Larry mi danno ragione su questo. I problemi ricominciarono nel giorno del mio settimo compleanno: come Anita ha giustamente ricordato, allora risiedevamo tutti ad Amburgo ed io, mi ricordo, ero felice come una pasqua. Peccato che nessuno mi capisse.

<< Leri, Leri, Leriii!! >> urlavo in preda alla frenesia correndo da una finestra all’altra del salotto, già addobbato in vista del Natale.

<< Brandon ti sta chiamando, Larry. >> si limitò a tradurre una annoiata Grace tredicenne seduta sul divano senza staccare gli occhi dalla rivista di moda adolescenziale che teneva in mezzo alle gambe. Di tutta risposta Larry, che allora aveva circa quindici anni, emise un rantolo assonnato e si sistemò meglio il cuscino sotto la testa, continuando a dormicchiare all’altro capo del divano.

Io mi voltai a guardarlo e sbuffai rumorosamente; poi corsi verso di lui e cominciai a scuoterlo con tutta la mia forza (che allora, per un bambino di soli sette anni, era abbastanza destabilizzante). Spaventato, difatti, Larry spalancò gli occhi come se avesse percepito una forte scossa di terremoto.

<< Ehi, cos…cazzo c’è, Brad?! >>

<< Je veux che du mit dem Schnee con me spielst!! >> gli risposi con il mio misto di francese, inglese e tedesco (un connubio dislessico dovuto a quei continui cambi di Paesi di cui la mia dolce Anita ha accennato sopra).

Larry mi lanciò un’occhiata allucinata, come se avesse avuto di fronte un extraterrestre; poi si rivolse a mia sorella con una vocina sommessa che non era affatto da lui.

<< Che ha detto…? >>

<< Ha detto che vuole uscire a giocare con la neve. >> gli tradusse scocciata Grace, che era l’unica in famiglia a capire la mia lingua ibrida e che, a dispetto di quanto si possa credere, non ne era affatto contenta.

Ancor meno contento di lei, Larry si passò una mano sul viso assonnato ed emise un gemito sconsolato.

<< Leriii… >> mi lamentavo intanto io, saltellando irrequieto sul posto.

<< Brad, fa un freddo cane là fuori… >>

<< Dai, dai… allez, allez!! >>

<< Allez un fico secco! Non ho voglia di gelarmi le chiappe. >>

<< Leri, SCHNELL!! >>

<< Larry, ti conviene portarlo fuori. - intervenne a quel punto Grace, alzando gli occhi al cielo - Sai quanto è testardo quando si mette in testa una cosa, soprattutto quando è il suo compleanno: sarebbe capace di gridare per tutta la sera. >>

Mio fratello sbuffò, mi lanciò un’occhiata torva e dal cruccio determinato che dovette vedere sul mio viso si rese conto che, come sempre, mia sorella aveva ragione; allora si alzò di malavoglia dal divano, mi lanciò il giubbotto e la sciarpa e poi cominciò ad infilarsi gli scarponi. Elettrizzato dalla prospettiva del mio nuovo divertimento, io non facevo altro che corrergli attorno come un fedele cagnolino e poi, quando lo vidi imbacuccato per bene, lo afferrai per la mano e lo trascinai con un sorriso verso la porta di casa.

<< Dai, Leri, schnell! >>

<< Sì, sì, è inutile che continui a ripeterlo, tanto non capisco una fottuta sillaba di tedesco. >>

Ricordo che sguazzai nella neve di fronte a casa con mio fratello (che dopo i primi minuti di disorientamento, ci aveva preso anche più gusto di me) per quello che mi parve un tempo splendido ed interminabile, finché non udii il rombo sordo e poi vidi la carrozzeria grigio chiara della Volkswagen dei miei genitori che faceva per entrare nel box dal sapore gotico adiacente alla villetta.

Con un urlo esaltato, mi sollevai dal petto di Larry e corsi in direzione dell’auto, impaziente di lanciarmi fra le braccia dei miei e di ricevere il mio regalo di compleanno, ma il destino volle che sprofondassi in una collinetta di neve, cadendo lungo a faccia in avanti. Più divertito che infastidito da ciò, mi risollevai in ginocchio sputacchiando neve di qua e di là e fu allora che distinsi le sagome di mia madre e di mio padre accanto all’auto, intente a fissarsi in cagnesco stringendo ciascuna le estremità dello stesso pacco regalo: il loro atteggiamento aggressivo mi stupì così tanto da impedirmi di balzare in piedi e di continuare la mia corsa verso di loro. Ad ogni modo dubito che sarebbe servito a qualcosa: quando due persone muoiono dalla voglia di litigare, non c’è nulla che possa impedirglielo.

<< Leva quelle manacce, Adolphe! >>

<< Sarò io a darglielo, Thandie!! >>

<< Glielo darò io, dato che sono stata io a sceglierlo!! >>

<< Dopo due estenuanti ore di indecisione e dodici battibecchi con le commesse?! Scordatelo!! >>

<< Sei stato tu a farmi innervosire e sai che quando sono nervosa odio dover scegliere!! >>

<< Non scaricare la colpa su di me, perché se avessimo scelto quello che dicevo io, adesso saremmo a casa da un pezzo! >>

<< Quello che dicevi tu?! Ma se non hai un briciolo di buonsenso nel fare i regali!! Credi che al bambino sarebbe interessato un mini manuale di economia aziendale?? >>

<< Beh, sicuramente prima o poi gli sarebbe tornato utile a differenza di questo stupido peluche!! >>

<< D’accordo, se il regalo non ti piace, sarò io a darglielo!! Mollalo! >>

<< No, sono stato io a pagarlo, quindi glielo darò io!! >>

La forza che i miei genitori esercitarono nel tentativo di staccare il pacco regalo l’uno dalle mani dell’altra e viceversa fu tale da farlo schizzare lontano da entrambi fino a farlo precipitare a pochi metri di distanza dal punto in cui ero caduto io. Confuso, gli lanciai una rapida occhiata e poi tornai a fissare i miei genitori nella tacita attesa di una spiegazione sensata, ma loro non mi guardavano: erano ancora intenti a inveire l’uno contro l’altra con tutta l’energia che avevano in corpo.

<< Sei la solita sfrontata, Thandie, esattamente come quando ti ho conosciuto!! >>

<< Ah sì? Ha parlato mister cortesia!! E pensare che una volta ti piaceva la mia sfrontataggine; cos’è, hai per caso trovato qualcuna che riesce ad esserlo ancora di più?! >>

Mio padre si irrigidì tutto, diventando rosso paonazzo sotto il cappello imbottito che aveva in testa.

<< Questo è troppo, Thandie. Hai oltrepassato il limite. >>

<< No, Adolphe. Ho centrato il segno. >>

Rimasero a fissarsi immobili, rigidi come due grossi pupazzi di neve imbacuccati dalla testa ai piedi; poi mia madre si voltò di scatto, il viso contratto in una smorfia furiosa, e si diresse a grandi falcate verso casa. Io la seguii con lo sguardo finché non notai che mio padre stava rapidamente salendo di nuovo in macchina, rimettendola in moto ed ingranando la retro. Lo vidi sgommare nel vialetto d’entrata e poi allontanarsi a tutto gas nella strada principale, lasciandosi dietro una striscia di neve scura come la pece.

Rimasi immobile, in ginocchio nella neve, per un tempo che mi parve infinito, sforzandomi strenuamente di capire che cosa fosse appena successo davanti ai miei occhi. Poi udii un rumore sordo di passi dietro di me e percepii il corpo di Larry che si piegava sulle ginocchia accanto a me, in assoluto silenzio.

Io ero ancora intento a fissare il punto della strada bianca in cui l’auto di mio padre era scomparsa alla mia vista, ma non riuscii a non notare di sbieco la mano di Larry che si allungava verso il pacco regalo, lo stringeva e lo ripuliva delicatamente dalla neve che lo ricopriva. Poi lo sentii avvolgermi le spalle con un braccio e percepii il calore del suo respiro nell’orecchio.

<< Buon compleanno. >>

Mi porse gentilmente il pacco regalo che stringeva nell’altra mano, ma io non lo presi. Lentamente, invece, lo abbracciai e sprofondai il viso nel suo giubbotto a vento, cominciando a piangere.

 

Io non sono un tipo dal pianto facile. Pensate che un giorno mia madre mi rivelò che persino nel momento in cui tirai la mia prima boccata di ossigeno, nel momento in cui qualunque individuo scoppia a strillare, lei ebbe la sensazione che invece di piangere io stessi ridendo. Ma quel giorno, quel 3 dicembre di quell’anno, fu uno dei giorni più tristi di tutta la mia vita.

E, non bisogna dimenticarlo, fu anche il giorno in cui il progetto di ricostruzione dei miei genitori fallì miseramente: da quel momento in poi, infatti, entrambi smisero di sforzarsi di andare d’accordo e ben presto anch’io mi abituai alle loro sadiche frecciatine e alle loro occhiate torve che avevano regolarmente luogo quando nelle festività di famiglia erano ancora costretti a coesistere nella stessa stanza.

Fortunatamente, però, non ebbi il tempo di saggiare appieno l’acidità del loro pre-divorzio perché il mio enorme background familiare mi coinvolgeva tanto da distogliermi dal clima teso di casa: non ho ancora capito come, ma in realtà possiedo circa trenta parenti (più relativi figli e nipoti) sparsi in giro per il mondo e tutti quanti, soprattutto nelle grandi feste comandate, hanno l’usanza di tornare al nostro comune ovile, ossia a Toronto, per condividere le loro incredibili esperienze con tutto il resto della loro tribù (mi piace questo termine, Anita, ho deciso che lo userò anch’io da questo momento in poi!!).

Grazie ai loro divertenti resoconti provenienti da ogni angolo del mondo, quindi, ed al fatto che io, essendo il più piccolo ed il più buffone della famiglia, fossi il loro beniamino, quegli anni non furono poi così terribili come avevo temuto: devo ammettere che la vicinanza e l’affetto di tutti i miei parenti e, anche se in sede separata, dei miei splendidi genitori, mi aiutarono a superare tante altre difficoltà davanti a cui la vita mi pose, a cominciare da quella più ardua di tutte, quella che tutti chiamano “adolescenza”, termine che è in realtà un eufemismo per “l’età in cui il tuo corpo diventa così stronzo da farti i peggiori scherzi della natura fino ad arrivare a farti odiare te stesso, sebbene tu sappia che sei una persona meravigliosa” (grr…non potete immaginare quanto mi sapeva di falso quando me lo sentivo dire allora).

Allora, secondo la mia modesta esperienza sul campo, “l’età in cui il tuo corpo…etc etc” è quel periodo della vita in cui, grazie alle esplosioni di ormoni, vorresti fare solo tre cose:

  1. spaccare la faccia a chiunque, anche senza motivo (ma di solito un motivo lo si trova sempre);
  2. fare sempre, continuamente, il contrario di ciò che gli adulti considerano giusto e ragionevole;
  3. fare sesso con ogni bella ragazza che incroci per strada senza preoccuparti di conoscerla.

Guai a voi, e in particolare mi rivolgo ai maschietti, se osate negare anche solo uno dei tre punti suddetti, perché mentireste alla grande: nobili o no, gioiosamente conseguiti o soltanto fervidamente agognati, sono questi i tre grandi desideri dell’adolescente maschio.

Io realizzai il primo all’età di quindici anni: all’epoca risiedevo a New York, i miei erano già divorziati da un pezzo ed io avevo deciso di stare con mio padre, sia perché avevo scoperto che mi piaceva da matti andare in giro per il mondo ogni quattro mesi sia perché avevo testato che non riuscivo a sopportare le acrobazie erotiche in cui mia madre si cimentava con il suo nuovo compagno (quelle di mio padre con la sua nuova donna erano molto meno rumorose per un povero adolescente in calore come ero io all’epoca).

A New York frequentavo una delle classiche scuole superiori americane, sapete, quelle in cui la scolaresca è suddivisa in quattro categorie: i quarterback (= i ragazzotti sportivi tutti muscoli e poco cervello), le cheerleader (= le ragazzette tutte cosce e poco meno cervello), i bulli (= i ragazzoni che, essendo rifiutati dai quaterback per la loro mancanza di stile, sfogano la loro frustrazione a suon di botte e calci su chiunque capiti loro sotto tiro) e gli “sfigati” (= la massa indifferenziata di ragazzi e ragazze che non rientrano in nessuna delle tre categorie precedenti).

Ecco, all’epoca io facevo parte di questa ultima categoria ed in un bel giorno piovoso e tetro in cui ero uscito di casa senza ombrello beccandomi l’intero diluvio universale, ero inciampato nella gamba di un banco provocando un terremoto del terzo grado Richter, avevo ricevuto un elettrizzante “D -” nel compito di chimica ed una rintronante pallonata di football in piena faccia, un corposo gruppetto di bulli mi aveva adocchiato ed avvicinato nello spogliatoio maschile, sperando di poter sfogare su di me l’invidia che avevano provato per tutto il tempo nei confronti del quarterback Henry Woodland, che li aveva letteralmente stesi durante la partita.

<< Ehi. >> mi richiamò un tizio con una voce roca che mi ricordò quella dei mafiosi italiani del Padrino.

Io mi voltai verso di lui con metà della faccia gonfia e un occhio nero socchiuso, il piccolo regalo che mi aveva lasciato il pallone.

<< Hai proprio una faccia di merda. >>

Squadrato il gruppo di poveri imbecilli, decisi di prenderla con filosofia.

<< Grazie. E’ il miglior complimento che mi aspettassi dopo un colpo del genere. >>

Gli feci un mezzo sorriso e tornai a rivolgere la mia attenzione verso l’armadietto, ma il capobanda non dovette essere contento di quella mia risposta.

<< Ehi. >>

Mi voltai di nuovo, sfilandomi la maglietta dalla testa.

<< Non mi piace come mi hai guardato. >>

<< Quando, scusa? >>

<< Poco fa. >>

Mi strinsi nelle spalle, raccogliendo l’asciugamano dalla panca accanto a me.

<< Colpa della mia faccia di merda: ti assicuro che non era mia intenzione. >>

Incollerito per la mia serafica condiscendenza, il capobanda strinse i pugni e mi esaminò dalla testa ai piedi in cerca di qualcos’altro da dire e, sfortunatamente per lui, trovò il mio punto debole.

<< Sei una palla di lardo. >>

Mi immobilizzai con l’asciugamano attorno al collo.

<< Che cos’hai detto? >>

<< Ho detto che sei una palla di lardo. Con la tua ciccia potrebbero farci chili di sapone. >>

I suoi compagni risero di gusto nell’udire la sua considerazione, sgranchendosi i pugni. Io rimasi immobile, più che altro stupito dal fatto che quel tizio che mi sapeva di ritardato conoscesse il processo di fermentazione del sapone, ma quando vidi partire il suo pugno mi mossi con la stessa rapidità di un serpente, riuscendo ad evitarlo per un soffio.

Erano due anni che, per modellare a mio piacimento quel mio corpo che non sapeva come assorbire i grassi se non accumulandoli sottopelle, praticavo ogni tipo di sport, dal jogging alla kick-boxing: dunque, sotto quella che a prima vista poteva sembrare semplice carne molla e flaccida, avevo sviluppato dei muscoli da lottatore che neanch’io sapevo di avere fino a quel giorno.

La mia ignoranza, però, non rese meno efficace il colpo che rifilai di rimando al capobanda, che finì lungo steso per terra con un urlo di sincero dolore cozzando rumorosamente contro la panca della fila di armadietti di fronte. I suoi compagni gli lanciarono un’occhiata sconvolta, ma ciononostante o forse proprio per vendicarlo, si avventarono su di me con la furia di un branco di lupi inferociti.

Vedete, quando io perdo le staffe, cosa che succede assai raramente dato che ho sempre il sorriso sulle labbra, divento l’essere più pericoloso sulla faccia della terra: se non mi credete, vi invito a chiederlo al gruppetto di quei poveri imbecilli, se hanno ancora il coraggio di ricordare quello scontro in cui avrei finito per spedirli tutti all’ospedale se il quarterback Henry Woodland, che aveva assistito da lontano al nostro breve diverbio verbale e poi alla rissa, non mi avesse fermato e riportato alla ragione.

L’unica cosa che so è che da quel momento in poi nessun altro ragazzotto frustrato osò minacciarmi e che Henry, affascinato dalla mia ironia da buffone e dalla mia sottovalutata forza, mi accolse sotto la sua ala protettiva da quarterback, rivelandosi allora come oggi il mio miglior amico. E che, ovviamente, fu in quel momento che riuscii ad esaudire il primo dei tre desideri più agognati da un adolescente maschio, quello di fare una bella e sana scazzottata.

Il secondo, beh…dire che sono riuscito ad esaudirlo una volta sola sarebbe una palese menzogna. Ogniqualvolta mio padre o mia madre mi ordinavano o mi consigliavano di fare qualcosa, difatti, la mia risposta era puntualmente negativa (o comunque contraria all’ordine/richiesta ricevuta).

<< Brandon, porta fuori la spazzatura dopo cena. >>

<< No, lo faccio domani mattina. >>

<< Brandon, tesoro, togliti le scarpe prima di entrare in bagno.>>

<< No, tanto sono pulite. >>

<< Brandon, puoi rimettere ordine in cucina?>>

<< No. >>

<< Brandon, vuoi rifarti il letto? >>

<< No. >>

<< Brandon, vuoi venti dollari per uscire con gli amici? >>

<< No…(comprensione tardiva e relativa smorfia frustrata)…cazz!! >>

Per quanto riguarda il terzo desiderio…mah, io ritengo che alla fine, se non proprio fisicamente, almeno mentalmente nella privacy della propria camera ognuno di noi maschietti abbia fatto sesso con una ragazza bellissima e sconosciuta. Ma io sono qui per raccontarvi la mia esperienza, quindi vi racconterò cosa è successo a me.

Io l’ho fatto davvero, fisicamente parlando, con una ragazza molto bella che, tutto sommato, non conoscevo quasi per niente; non chiedetemi come ci sono riuscito perché non lo so neanch’io. Avevo diciannove anni, un fisico che stava cominciando a somigliare più a quello di un atleta imponente che a un obeso, un’altezza al di sopra della media che metteva soggezione ed una faccia simpatica: credo che furono questi i presupposti per cui cominciai ad intrigare le ragazze.

All’epoca mi piaceva uscire insieme alla comitiva di Henry, di cui ben presto grazie alla mia bravura per le imitazioni ero diventato la mascotte, e girare locali e piano bar il sabato sera. Quella sera, non so come (credo che fossi stato così impegnato per tutto il tempo a far ridere gli altri da non accorgermi di dove stessimo andando), finimmo in una discoteca psichedelica nei sobborghi del Bronx. Non rappresentava proprio il mio habitat ideale, ma ero giovane, avevo voglia di divertirmi e di fare cose fuori dall’ordinario, quindi mentre i miei amici si scolavano birre e cocktail a volontà (io ero astemio così come lo sono ora, perché basta mezzo bicchiere di vino per mettermi k.o.), vidi questa ragazza, la ragazza più bella che avessi mai visto fino ad allora. Era afroamericana, un incrocio stupendo, con la pelle color onice, corposi capelli ricci e due occhi di mogano che mi stregarono sin dal primo momento in cui li incrociai. Non mi resi conto di essere stato ipnotizzato da quel suo sguardo ancestrale finché non mi accorsi di essermi avvicinato a lei e di stare lì a fissarla a bocca aperta come un pesce lesso.

Non ricordo una sola parola di ciò che ci dicemmo, a dir la verità non sono neanche sicuro che avessimo davvero parlato, sia perché non mi ricordo neanche lontanamente il suo nome, sia perché la musica e la luce psichedelica di quel posto infernale mi fanno tuttora ripensare a quell’episodio come ad una fantasmagoria ipnotica. So solo che ad un certo punto mi ritrovai con lei nel bagno degli uomini, impegnato a tenerla in equilibrio sul bordo di un lavandino mentre con l’altra mano mi reggevo (e di nascosto guardavo la nostra immagine riflessa, mi vergogno a dirlo ma è vero) dallo specchio di fronte. Se devo essere sincero, e con voi devo esserlo (Dio, ti prego, fa che Anita non stia leggendo tutto questo), quello fu il sesso più eccitante e trasgressivo che feci concretamente in tutta la mia vita (senza, dunque, contare le mie fantasie erotiche mentali). Eppure, nel momento in cui finimmo ed io avrei desiderato tanto tenere quel suo corpo magnifico ancora un altro po’ fra le braccia, la ragazza mi fece cenno di spostarmi, saltò giù dal lavandino, raccolse da terra il suo intimo, lo ficcò nella borsetta e mi ringraziò con un sorriso per poi darsi una sistemata allo specchio e sculettare fuori dal bagno senza degnarmi di un solo sguardo.

Credo che fu in quel momento, mentre triste come mai la osservavo abbandonarmi mezzo nudo nel bagno degli uomini, che passai dall’adolescenza all’età adulta: perché fu allora che capii che il sesso più trasgressivo si rivela essere sempre quello più squallido.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Commedia / Vai alla pagina dell'autore: Dafne ThyCapulet