L’infanzia di Brandon (Brandon’s
version)
D’accordo,
dimenticate tutto quello che vi ha detto Anita. Non me ne volere, tesoro, ma
non si possono raccontare balle a gògò e pretendere che la gente ci creda: mica
la massa è tanto stupida come i politici si gongolano di credere. Il fatto è
che la mia infanzia fu tutt’altro che rose e fiori: fu più spine e rovi, come
d’altronde è quella della maggior parte della popolazione mondiale.
Avete
presenti quelle splendide pubblicità della famiglia modello a colazione, in cui
la mamma è sempre ai fornelli e truccata come una top model, il papà felice e
sorridente con una perfetta messa in piega anni ’50 e i bambini saltellano come
cuccioli di lepri da una parte all’altra del tavolo impazienti di fare
colazione per poi andare a scuola? Sì, le avete presenti? Bene. La mia famiglia
era esattamente il contrario, soprattutto a colazione.
Immaginate
la scena: ore 6 del mattino, cucina semisommersa dalle ombre della notte, atmosfera
soporifera altamente contagiosa. A capotavola mio padre, frettolosamente vestito
per andare a lavoro, la mascella grave, la linea delle labbra contratta in una
smorfia infastidita; mia sorella Grace e mio fratello Larry rispettivamente ai
due lati della tavola, lei che rigira automaticamente il cucchiaino nella tazza
di latte senza mai assaggiarne un sorso, lui che ad occhi chiusi continua a
russare con la testa in precario equilibrio su una mano; all’altro capo della
tavola mia madre, in vestaglia e bigodini, che mentre si porta alla bocca un biscotto
osserva torva mio padre nella tacita speranza che qualcosa gli vada di
traverso; infine io, seduto accanto a lei, con la testa abbandonata sul tavolo
ed il cuscino ancora stretto al petto. Questa era la nostra famiglia alle 6 di
un mattino qualunque, come credo che, con tutte le varianti del caso, fosse
anche la vostra. Ma, vi assicuro, la mia era di certo più incasinata di quanto
lo fossero tutte le vostre messe assieme.
Ora,
prima di continuare, mi sembra però doveroso farvi sapere che ci sono
moltissime cose che io odio con tutto me stesso, cose come l’ipocrisia,
l’indifferenza, i terroristi, la droga, la sveglia puntata alle sei, il mobbing
del mio capo (diamine, forse questo dovevo evitare di dirlo…), gli slip
ultraderenti, le diete ipocaloriche, i programmi massacranti della mia personal
trainer, i clienti che mi scambiano la pancia per la faccia e via dicendo, ma
la cosa che mi fa imbestialire di più in assoluto è il vittimismo. Quindi, sebbene
sappia che molti che hanno vissuto un’infanzia come la mia sarebbero entusiasti
di farlo, io non farò la vittima. Ciononostante se desiderate provar pena per
me, siete liberi di farlo…basta che siate furbi e non me lo facciate capire.
Tanto
per cominciare, io so che la mia venuta al mondo non avvenne per puro caso.
Sì,
certo, chiunque di voi creda in un Principio Superiore in opposizione al Caos
starà dicendo che nessuno mai viene al mondo per puro caso, ma che ognuno nasce
per una ragione, per svolgere una funzione più o meno utile in questo mondo;
concordo con voi, ma non è questo quello che intendo dire. Voglio dire che il
mio concepimento fu il frutto di un progetto ben preciso, un progetto che non
stava tanto scritto nella mente di Dio, quanto piuttosto in quella dei miei
genitori.
Dopo
quasi dieci anni di matrimonio e due figli, infatti, mia madre e mio padre erano
entrati in una crisi che pareva irreversibile: non si parlavano, non si
toccavano, non si guardavano, se potevano cercavano persino di non ritrovarsi
insieme nella stessa stanza. Insomma, non sopportavano più la presenza l’uno
dell’altro.
I
miei due fratelli più grandi, Grace e Larry, che hanno rispettivamente sei e
otto anni più di me, sono stati per me dei fedeli cronisti della situazione
familiare precedente alla mia nascita. E, come è logico supporre, Grace stava
dalla parte di mia madre, Larry da quella di mio padre.
<<
Tu non hai idea di che tormento fosse per mamma dover sopportare quel
troglodita di papà - mi diceva Grace sventolando nervosamente la mano in aria
come se si fosse scottata con la tazza di tè che aveva in mano - Si comportava
come un selvaggio: aborriva la doccia, disseminava vestiti dappertutto,
lasciava il lavandino pieno di peli, schizzava sempre la tavoletta del water e,
oh…non puoi immaginare in che condizioni fossero le sue mutande. >>
<<
Perché, tu le hai viste? >> le domandavo innocentemente.
Di
tutta risposta, Grace spalancava la bocca portandosi una mano sul cuore,
esattamente come le raffinate signorine inglesi di cui amava tanto leggere.
<<
Santo cielo, certo che no!! Mi sono sempre fatta bastare la descrizione che
mamma me ne faceva. >>
<<
Tutte stronzate!! - sbraitava invece Larry con la sua usuale finezza da
scaricatore di porto, spintonandola sempre tanto forte da farle versare metà
del suo tè sul pavimento - La verità è che mamma si comportava come un fottuto despota:
“togliti quelle scarpe prima di entrare in bagno!”, “non toccare il
centrotavola con quelle mani sudice!!”, “sistema immediatamente il casino che
hai combinato!!” >>
<<
Guarda che queste cose le gridava a te, non a papà. >> interveniva Grace
torva, stringendo più saldamente la tazza di tè fra le mani.
<<
Beh, fa lo stesso!! - la liquidava lui con un gesto noncurante - E poi, non
appena papà le chiedeva gentilmente un favore, lei era più acida di un fottuto
succo d’arancia: “stiratele tu le camicie!!”, “col cavolo che ti cucino
qualcos’altro!!”, “non ci sono piatti puliti? Allora che aspetti a lavarli??” >>
<<
Gentilmente?! Ma quando mai papà chiedeva qualcosa gentilmente??
- lo rimbeccava Grace, sollevandosi di scatto dalla poltrona su cui era seduta
per fronteggiarlo dall’alto del suo minaccioso metro e sessanta - Un uomo delle
caverne sarebbe stato cento volte più cortese di lui!! >>
<<
Ti sfido ad essere cortese con un cazzo di bull-dog in procinto di azzannarti! >>
ribatteva Larry, alzandosi lentamente dal bracciolo della poltrona per
riservarle un sorrisetto sarcastico dai suoi dieci centimetri di altezza in
più.
A
tal punto imbestialita (ma comunque raffinata), Grace gli versava regolarmente
in faccia ciò che era rimasto del suo tè e, sorpreso (ma comunque zotico),
Larry le rovesciava addosso i più leggeri improperi che conosceva, perché
d’altronde era sempre sua sorella.
Ecco,
osservando questa scena più e più volte, arrivai a rendermi conto che le liti
fra mia madre e mio padre prima della mia nascita dovevano essere state
pressoché identiche a quelle che intercorrevano fra Grace e Larry (tranne che
per il linguaggio osceno di mio fratello, ovviamente).
Data
dunque la gravità della crisi familiare che stavano vivendo, i miei genitori
(ergo mia madre) decise di andare a consultare un medico specializzato in
terapie di coppia o in qualcosa del genere insomma, per capire quale fosse il problema
reale alla base di quella mal celata insofferenza che l’una provava per
l’altro: non poteva certo essere soltanto la propria autorevolezza o la
sporcizia del marito, le diceva il suo intuito. Di tutta risposta, il
medico/psicologo/agente matrimoniale, chiamatelo come volete, le rivelò che
c’era un’unica soluzione a tutti i problemi in cui una coppia poteva incorrere:
un figlio.
Mi
immagino perfettamente la faccia perplessa di mia mamma nell’udire la sua
risposta.
<<
…mi sta prendendo in giro? >>
<<
Nossignora - dovette ridacchiare insulsamente il medico - Vedrà che un figlio
aggiusterà tutto quanto. >>
<<
Guardi che io e mio marito abbiamo già due figli e, più che aggiustare tutto,
ci stanno portando sull’orlo di un collasso nervoso. >>
<<
Oh, ma vedrà che con il prossimo sarà diverso. Il terzo figlio è sempre il
migliore: non ha mai sentito dire che tre è il numero perfetto? >>
Tanto
disperata da credere a una fesseria del genere, mia madre si convinse che solo
la presenza di un’altra piccola peste avrebbe risolto i problemi che aveva con
suo marito: così ne parlò a mio padre e lui, che quella sera era appena tornato
dal Bangladesh e non capiva più se fosse notte o giorno, si lasciò scappare un
assenso assonnato per poi piombare finalmente in fase rem.
La
sera successiva, allora, mia madre smise la vestaglia e i bigodini ed indossò
la lingerie della sua prima notte di nozze, infilandosi emozionata sotto le
coperte in attesa che il marito uscisse dal bagno. Non appena vide mio padre raggiungerla
a letto sbadigliando, in ciabatte e pigiama a pois azzurri e verdini, non
fatico a credere che la sua esaltazione fosse rapidamente sfumata via per
lasciar spazio al più triste ribrezzo. Ma ormai era troppo tardi: non appena
mio padre scoprì la sua striminzita biancheria intima, infatti, non ci fu verso
di dissuaderlo dallo sfilargliela.
E
così quella notte, volenti o nolenti, i miei genitori mi concepirono.
In
realtà devo ammettere che per i miei primi cinque/sei anni di vita rappresentai
una presenza benefica per il loro rapporto di coppia: nella memoria della mia
infanzia più lontana, infatti, non riesco proprio a ricordare di averli visti
litigare una sola volta e Grace e Larry mi danno ragione su questo. I problemi
ricominciarono nel giorno del mio settimo compleanno: come Anita ha giustamente
ricordato, allora risiedevamo tutti ad Amburgo ed io, mi ricordo, ero felice come
una pasqua. Peccato che nessuno mi capisse.
<<
Leri, Leri, Leriii!! >> urlavo in preda alla frenesia correndo da una
finestra all’altra del salotto, già addobbato in vista del Natale.
<<
Brandon ti sta chiamando, Larry. >> si limitò a tradurre una annoiata
Grace tredicenne seduta sul divano senza staccare gli occhi dalla rivista di
moda adolescenziale che teneva in mezzo alle gambe. Di tutta risposta Larry,
che allora aveva circa quindici anni, emise un rantolo assonnato e si sistemò
meglio il cuscino sotto la testa, continuando a dormicchiare all’altro capo del
divano.
Io
mi voltai a guardarlo e sbuffai rumorosamente; poi corsi verso di lui e
cominciai a scuoterlo con tutta la mia forza (che allora, per un bambino di
soli sette anni, era abbastanza destabilizzante). Spaventato, difatti, Larry
spalancò gli occhi come se avesse percepito una forte scossa di terremoto.
<<
Ehi, cos…cazzo c’è, Brad?! >>
<<
Je veux che du mit dem Schnee con me spielst!! >> gli risposi con il mio
misto di francese, inglese e tedesco (un connubio dislessico dovuto a quei
continui cambi di Paesi di cui la mia dolce Anita ha accennato sopra).
Larry
mi lanciò un’occhiata allucinata, come se avesse avuto di fronte un
extraterrestre; poi si rivolse a mia sorella con una vocina sommessa che non
era affatto da lui.
<<
Che ha detto…? >>
<<
Ha detto che vuole uscire a giocare con la neve. >> gli tradusse scocciata
Grace, che era l’unica in famiglia a capire la mia lingua ibrida e che, a
dispetto di quanto si possa credere, non ne era affatto contenta.
Ancor
meno contento di lei, Larry si passò una mano sul viso assonnato ed emise un
gemito sconsolato.
<<
Leriii… >> mi lamentavo intanto io, saltellando irrequieto sul posto.
<<
Brad, fa un freddo cane là fuori… >>
<<
Dai, dai… allez, allez!! >>
<<
Allez un fico secco! Non ho voglia di gelarmi le chiappe. >>
<<
Leri, SCHNELL!! >>
<<
Larry, ti conviene portarlo fuori. - intervenne a quel punto Grace, alzando gli
occhi al cielo - Sai quanto è testardo quando si mette in testa una cosa,
soprattutto quando è il suo compleanno: sarebbe capace di gridare per tutta la
sera. >>
Mio
fratello sbuffò, mi lanciò un’occhiata torva e dal cruccio determinato che
dovette vedere sul mio viso si rese conto che, come sempre, mia sorella aveva
ragione; allora si alzò di malavoglia dal divano, mi lanciò il giubbotto e la
sciarpa e poi cominciò ad infilarsi gli scarponi. Elettrizzato dalla
prospettiva del mio nuovo divertimento, io non facevo altro che corrergli
attorno come un fedele cagnolino e poi, quando lo vidi imbacuccato per bene, lo
afferrai per la mano e lo trascinai con un sorriso verso la porta di casa.
<<
Dai, Leri, schnell! >>
<<
Sì, sì, è inutile che continui a ripeterlo, tanto non capisco una fottuta
sillaba di tedesco. >>
Ricordo
che sguazzai nella neve di fronte a casa con mio fratello (che dopo i primi
minuti di disorientamento, ci aveva preso anche più gusto di me) per quello che
mi parve un tempo splendido ed interminabile, finché non udii il rombo sordo e
poi vidi la carrozzeria grigio chiara della Volkswagen dei miei genitori che
faceva per entrare nel box dal sapore gotico adiacente alla villetta.
Con
un urlo esaltato, mi sollevai dal petto di Larry e corsi in direzione
dell’auto, impaziente di lanciarmi fra le braccia dei miei e di ricevere il mio
regalo di compleanno, ma il destino volle che sprofondassi in una collinetta di
neve, cadendo lungo a faccia in avanti. Più divertito che infastidito da ciò,
mi risollevai in ginocchio sputacchiando neve di qua e di là e fu allora che
distinsi le sagome di mia madre e di mio padre accanto all’auto, intente a fissarsi
in cagnesco stringendo ciascuna le estremità dello stesso pacco regalo: il loro
atteggiamento aggressivo mi stupì così tanto da impedirmi di balzare in piedi e
di continuare la mia corsa verso di loro. Ad ogni modo dubito che sarebbe
servito a qualcosa: quando due persone muoiono dalla voglia di litigare, non
c’è nulla che possa impedirglielo.
<<
Leva quelle manacce, Adolphe! >>
<<
Sarò io a darglielo, Thandie!! >>
<<
Glielo darò io, dato che sono stata io a sceglierlo!! >>
<<
Dopo due estenuanti ore di indecisione e dodici battibecchi con le commesse?!
Scordatelo!! >>
<<
Sei stato tu a farmi innervosire e sai che quando sono nervosa odio dover
scegliere!! >>
<<
Non scaricare la colpa su di me, perché se avessimo scelto quello che dicevo
io, adesso saremmo a casa da un pezzo! >>
<<
Quello che dicevi tu?! Ma se non hai un briciolo di buonsenso nel fare i
regali!! Credi che al bambino sarebbe interessato un mini manuale di economia
aziendale?? >>
<<
Beh, sicuramente prima o poi gli sarebbe tornato utile a differenza di questo
stupido peluche!! >>
<<
D’accordo, se il regalo non ti piace, sarò io a darglielo!! Mollalo! >>
<<
No, sono stato io a pagarlo, quindi glielo darò io!! >>
La
forza che i miei genitori esercitarono nel tentativo di staccare il pacco
regalo l’uno dalle mani dell’altra e viceversa fu tale da farlo schizzare lontano
da entrambi fino a farlo precipitare a pochi metri di distanza dal punto in cui
ero caduto io. Confuso, gli lanciai una rapida occhiata e poi tornai a fissare
i miei genitori nella tacita attesa di una spiegazione sensata, ma loro non mi
guardavano: erano ancora intenti a inveire l’uno contro l’altra con tutta
l’energia che avevano in corpo.
<<
Sei la solita sfrontata, Thandie, esattamente come quando ti ho conosciuto!! >>
<<
Ah sì? Ha parlato mister cortesia!! E pensare che una volta ti piaceva la mia sfrontataggine;
cos’è, hai per caso trovato qualcuna che riesce ad esserlo ancora di più?! >>
Mio
padre si irrigidì tutto, diventando rosso paonazzo sotto il cappello imbottito
che aveva in testa.
<<
Questo è troppo, Thandie. Hai oltrepassato il limite. >>
<<
No, Adolphe. Ho centrato il segno. >>
Rimasero
a fissarsi immobili, rigidi come due grossi pupazzi di neve imbacuccati dalla
testa ai piedi; poi mia madre si voltò di scatto, il viso contratto in una
smorfia furiosa, e si diresse a grandi falcate verso casa. Io la seguii con lo
sguardo finché non notai che mio padre stava rapidamente salendo di nuovo in
macchina, rimettendola in moto ed ingranando la retro. Lo vidi sgommare nel
vialetto d’entrata e poi allontanarsi a tutto gas nella strada principale, lasciandosi
dietro una striscia di neve scura come la pece.
Rimasi
immobile, in ginocchio nella neve, per un tempo che mi parve infinito,
sforzandomi strenuamente di capire che cosa fosse appena successo davanti ai
miei occhi. Poi udii un rumore sordo di passi dietro di me e percepii il corpo
di Larry che si piegava sulle ginocchia accanto a me, in assoluto silenzio.
Io
ero ancora intento a fissare il punto della strada bianca in cui l’auto di mio
padre era scomparsa alla mia vista, ma non riuscii a non notare di sbieco la
mano di Larry che si allungava verso il pacco regalo, lo stringeva e lo
ripuliva delicatamente dalla neve che lo ricopriva. Poi lo sentii avvolgermi le
spalle con un braccio e percepii il calore del suo respiro nell’orecchio.
<<
Buon compleanno. >>
Mi
porse gentilmente il pacco regalo che stringeva nell’altra mano, ma io non lo
presi. Lentamente, invece, lo abbracciai e sprofondai il viso nel suo giubbotto
a vento, cominciando a piangere.
Io
non sono un tipo dal pianto facile. Pensate che un giorno mia madre mi rivelò
che persino nel momento in cui tirai la mia prima boccata di ossigeno, nel
momento in cui qualunque individuo scoppia a strillare, lei ebbe la sensazione
che invece di piangere io stessi ridendo. Ma quel giorno, quel 3 dicembre di
quell’anno, fu uno dei giorni più tristi di tutta la mia vita.
E,
non bisogna dimenticarlo, fu anche il giorno in cui il progetto di
ricostruzione dei miei genitori fallì miseramente: da quel momento in poi,
infatti, entrambi smisero di sforzarsi di andare d’accordo e ben presto anch’io
mi abituai alle loro sadiche frecciatine e alle loro occhiate torve che avevano
regolarmente luogo quando nelle festività di famiglia erano ancora costretti a
coesistere nella stessa stanza.
Fortunatamente,
però, non ebbi il tempo di saggiare appieno l’acidità del loro pre-divorzio
perché il mio enorme background familiare mi coinvolgeva tanto da distogliermi
dal clima teso di casa: non ho ancora capito come, ma in realtà possiedo circa
trenta parenti (più relativi figli e nipoti) sparsi in giro per il mondo e tutti
quanti, soprattutto nelle grandi feste comandate, hanno l’usanza di tornare al
nostro comune ovile, ossia a Toronto, per condividere le loro incredibili
esperienze con tutto il resto della loro tribù (mi piace questo termine, Anita,
ho deciso che lo userò anch’io da questo momento in poi!!).
Grazie
ai loro divertenti resoconti provenienti da ogni angolo del mondo, quindi, ed
al fatto che io, essendo il più piccolo ed il più buffone della famiglia, fossi
il loro beniamino, quegli anni non furono poi così terribili come avevo temuto:
devo ammettere che la vicinanza e l’affetto di tutti i miei parenti e, anche se
in sede separata, dei miei splendidi genitori, mi aiutarono a superare tante
altre difficoltà davanti a cui la vita mi pose, a cominciare da quella più
ardua di tutte, quella che tutti chiamano “adolescenza”, termine che è in
realtà un eufemismo per “l’età in cui il tuo corpo diventa così stronzo da
farti i peggiori scherzi della natura fino ad arrivare a farti odiare te
stesso, sebbene tu sappia che sei una persona meravigliosa” (grr…non
potete immaginare quanto mi sapeva di falso quando me lo sentivo dire allora).
Allora,
secondo la mia modesta esperienza sul campo, “l’età in cui il tuo corpo…etc
etc” è quel periodo della vita in cui, grazie alle esplosioni di ormoni,
vorresti fare solo tre cose:
- spaccare la faccia a
chiunque, anche senza motivo (ma di solito un motivo lo si trova sempre);
- fare sempre, continuamente,
il contrario di ciò che gli adulti considerano giusto e ragionevole;
- fare sesso con ogni bella
ragazza che incroci per strada senza preoccuparti di conoscerla.
Guai
a voi, e in particolare mi rivolgo ai maschietti, se osate negare anche solo uno
dei tre punti suddetti, perché mentireste alla grande: nobili o no,
gioiosamente conseguiti o soltanto fervidamente agognati, sono questi i tre
grandi desideri dell’adolescente maschio.
Io
realizzai il primo all’età di quindici anni: all’epoca risiedevo a New York, i
miei erano già divorziati da un pezzo ed io avevo deciso di stare con mio
padre, sia perché avevo scoperto che mi piaceva da matti andare in giro per il
mondo ogni quattro mesi sia perché avevo testato che non riuscivo a sopportare
le acrobazie erotiche in cui mia madre si cimentava con il suo nuovo compagno
(quelle di mio padre con la sua nuova donna erano molto meno rumorose per un
povero adolescente in calore come ero io all’epoca).
A
New York frequentavo una delle classiche scuole superiori americane, sapete,
quelle in cui la scolaresca è suddivisa in quattro categorie: i quarterback (= i
ragazzotti sportivi tutti muscoli e poco cervello), le cheerleader (= le
ragazzette tutte cosce e poco meno cervello), i bulli (= i ragazzoni che,
essendo rifiutati dai quaterback per la loro mancanza di stile, sfogano la loro
frustrazione a suon di botte e calci su chiunque capiti loro sotto tiro) e gli “sfigati”
(= la massa indifferenziata di ragazzi e ragazze che non rientrano in nessuna
delle tre categorie precedenti).
Ecco,
all’epoca io facevo parte di questa ultima categoria ed in un bel giorno
piovoso e tetro in cui ero uscito di casa senza ombrello beccandomi l’intero
diluvio universale, ero inciampato nella gamba di un banco provocando un
terremoto del terzo grado Richter, avevo ricevuto un elettrizzante “D -” nel
compito di chimica ed una rintronante pallonata di football in piena faccia, un
corposo gruppetto di bulli mi aveva adocchiato ed avvicinato nello spogliatoio
maschile, sperando di poter sfogare su di me l’invidia che avevano provato per
tutto il tempo nei confronti del quarterback Henry Woodland, che li aveva letteralmente
stesi durante la partita.
<<
Ehi. >> mi richiamò un tizio con una voce roca che mi ricordò quella dei
mafiosi italiani del Padrino.
Io
mi voltai verso di lui con metà della faccia gonfia e un occhio nero socchiuso,
il piccolo regalo che mi aveva lasciato il pallone.
<<
Hai proprio una faccia di merda. >>
Squadrato
il gruppo di poveri imbecilli, decisi di prenderla con filosofia.
<<
Grazie. E’ il miglior complimento che mi aspettassi dopo un colpo del genere. >>
Gli
feci un mezzo sorriso e tornai a rivolgere la mia attenzione verso
l’armadietto, ma il capobanda non dovette essere contento di quella mia
risposta.
<<
Ehi. >>
Mi
voltai di nuovo, sfilandomi la maglietta dalla testa.
<<
Non mi piace come mi hai guardato. >>
<<
Quando, scusa? >>
<<
Poco fa. >>
Mi
strinsi nelle spalle, raccogliendo l’asciugamano dalla panca accanto a me.
<<
Colpa della mia faccia di merda: ti assicuro che non era mia intenzione. >>
Incollerito
per la mia serafica condiscendenza, il capobanda strinse i pugni e mi esaminò
dalla testa ai piedi in cerca di qualcos’altro da dire e, sfortunatamente per
lui, trovò il mio punto debole.
<<
Sei una palla di lardo. >>
Mi
immobilizzai con l’asciugamano attorno al collo.
<<
Che cos’hai detto? >>
<<
Ho detto che sei una palla di lardo. Con la tua ciccia potrebbero farci chili
di sapone. >>
I
suoi compagni risero di gusto nell’udire la sua considerazione, sgranchendosi i
pugni. Io rimasi immobile, più che altro stupito dal fatto che quel tizio che
mi sapeva di ritardato conoscesse il processo di fermentazione del sapone, ma
quando vidi partire il suo pugno mi mossi con la stessa rapidità di un serpente,
riuscendo ad evitarlo per un soffio.
Erano
due anni che, per modellare a mio piacimento quel mio corpo che non sapeva come
assorbire i grassi se non accumulandoli sottopelle, praticavo ogni tipo di
sport, dal jogging alla kick-boxing: dunque, sotto quella che a prima vista
poteva sembrare semplice carne molla e flaccida, avevo sviluppato dei muscoli
da lottatore che neanch’io sapevo di avere fino a quel giorno.
La
mia ignoranza, però, non rese meno efficace il colpo che rifilai di rimando al
capobanda, che finì lungo steso per terra con un urlo di sincero dolore cozzando
rumorosamente contro la panca della fila di armadietti di fronte. I suoi
compagni gli lanciarono un’occhiata sconvolta, ma ciononostante o forse proprio
per vendicarlo, si avventarono su di me con la furia di un branco di lupi
inferociti.
Vedete,
quando io perdo le staffe, cosa che succede assai raramente dato che ho sempre
il sorriso sulle labbra, divento l’essere più pericoloso sulla faccia della
terra: se non mi credete, vi invito a chiederlo al gruppetto di quei poveri
imbecilli, se hanno ancora il coraggio di ricordare quello scontro in cui avrei
finito per spedirli tutti all’ospedale se il quarterback Henry Woodland, che
aveva assistito da lontano al nostro breve diverbio verbale e poi alla rissa,
non mi avesse fermato e riportato alla ragione.
L’unica
cosa che so è che da quel momento in poi nessun altro ragazzotto frustrato osò minacciarmi
e che Henry, affascinato dalla mia ironia da buffone e dalla mia sottovalutata
forza, mi accolse sotto la sua ala protettiva da quarterback, rivelandosi allora
come oggi il mio miglior amico. E che, ovviamente, fu in quel momento che riuscii
ad esaudire il primo dei tre desideri più agognati da un adolescente maschio,
quello di fare una bella e sana scazzottata.
Il
secondo, beh…dire che sono riuscito ad esaudirlo una volta sola sarebbe una
palese menzogna. Ogniqualvolta mio padre o mia madre mi ordinavano o mi
consigliavano di fare qualcosa, difatti, la mia risposta era puntualmente
negativa (o comunque contraria all’ordine/richiesta ricevuta).
<<
Brandon, porta fuori la spazzatura dopo cena. >>
<<
No, lo faccio domani mattina. >>
<<
Brandon, tesoro, togliti le scarpe prima di entrare in bagno.>>
<<
No, tanto sono pulite. >>
<<
Brandon, puoi rimettere ordine in cucina?>>
<<
No. >>
<<
Brandon, vuoi rifarti il letto? >>
<<
No. >>
<<
Brandon, vuoi venti dollari per uscire con gli amici? >>
<<
No…(comprensione tardiva e relativa smorfia frustrata)…cazz!! >>
Per
quanto riguarda il terzo desiderio…mah, io ritengo che alla fine, se non
proprio fisicamente, almeno mentalmente nella privacy della propria camera ognuno
di noi maschietti abbia fatto sesso con una ragazza bellissima e sconosciuta.
Ma io sono qui per raccontarvi la mia esperienza, quindi vi racconterò cosa è
successo a me.
Io
l’ho fatto davvero, fisicamente parlando, con una ragazza molto bella che,
tutto sommato, non conoscevo quasi per niente; non chiedetemi come ci sono
riuscito perché non lo so neanch’io. Avevo diciannove anni, un fisico che stava
cominciando a somigliare più a quello di un atleta imponente che a un obeso,
un’altezza al di sopra della media che metteva soggezione ed una faccia
simpatica: credo che furono questi i presupposti per cui cominciai ad intrigare
le ragazze.
All’epoca
mi piaceva uscire insieme alla comitiva di Henry, di cui ben presto grazie alla
mia bravura per le imitazioni ero diventato la mascotte, e girare locali e
piano bar il sabato sera. Quella sera, non so come (credo che fossi stato così
impegnato per tutto il tempo a far ridere gli altri da non accorgermi di dove
stessimo andando), finimmo in una discoteca psichedelica nei sobborghi del
Bronx. Non rappresentava proprio il mio habitat ideale, ma ero giovane, avevo
voglia di divertirmi e di fare cose fuori dall’ordinario, quindi mentre i miei
amici si scolavano birre e cocktail a volontà (io ero astemio così come lo sono
ora, perché basta mezzo bicchiere di vino per mettermi k.o.), vidi questa
ragazza, la ragazza più bella che avessi mai visto fino ad allora. Era
afroamericana, un incrocio stupendo, con la pelle color onice, corposi capelli
ricci e due occhi di mogano che mi stregarono sin dal primo momento in cui li
incrociai. Non mi resi conto di essere stato ipnotizzato da quel suo sguardo
ancestrale finché non mi accorsi di essermi avvicinato a lei e di stare lì a fissarla
a bocca aperta come un pesce lesso.
Non
ricordo una sola parola di ciò che ci dicemmo, a dir la verità non sono neanche
sicuro che avessimo davvero parlato, sia perché non mi ricordo neanche
lontanamente il suo nome, sia perché la musica e la luce psichedelica di quel
posto infernale mi fanno tuttora ripensare a quell’episodio come ad una
fantasmagoria ipnotica. So solo che ad un certo punto mi ritrovai con lei nel
bagno degli uomini, impegnato a tenerla in equilibrio sul bordo di un lavandino
mentre con l’altra mano mi reggevo (e di nascosto guardavo la nostra immagine
riflessa, mi vergogno a dirlo ma è vero) dallo specchio di fronte. Se devo
essere sincero, e con voi devo esserlo (Dio, ti prego, fa che Anita non stia
leggendo tutto questo), quello fu il sesso più eccitante e trasgressivo che
feci concretamente in tutta la mia vita (senza, dunque, contare le mie fantasie
erotiche mentali). Eppure, nel momento in cui finimmo ed io avrei desiderato
tanto tenere quel suo corpo magnifico ancora un altro po’ fra le braccia, la
ragazza mi fece cenno di spostarmi, saltò giù dal lavandino, raccolse da terra il
suo intimo, lo ficcò nella borsetta e mi ringraziò con un sorriso per poi darsi
una sistemata allo specchio e sculettare fuori dal bagno senza degnarmi di un
solo sguardo.
Credo
che fu in quel momento, mentre triste come mai la osservavo abbandonarmi mezzo
nudo nel bagno degli uomini, che passai dall’adolescenza all’età adulta: perché
fu allora che capii che il sesso più trasgressivo si rivela essere sempre
quello più squallido.