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Autore: clairemonchelepausini    29/02/2016    7 recensioni
Adel Ait Hammou è un giovane giudice di soli trent’anni che, nonostante la sua giovane età, è molto conosciuto nel mondo della magistratura.
Nel corso della sua vita ha sacrificato tanto per arrivare al suo obiettivo: difendere gli innocenti e arrestare i colpevoli, ma adesso… qualcosa stava per cambiare.
Si stava per imbattere nei fantasmi del suo passato, quei fantasmi che lo avevano tormentato troppo a lungo e che rischiavano di distruggere l’equilibrio che con fatica aveva raggiunto.
Riuscirà a superare l’ostacolo senza rovinare la sua carriera e la sua vita? Riuscirà ad agire secondo la legge?
NOTE: La storia è stata scritta per il contest " Una idea, diversi autori", indetto da Principe Dracula sul gruppo Facebook "EFP recensioni, consigli e discussioni."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nell’oscurità vedo la luce






 

NOTE
La storia è stata scritta per il contest “ Una idea, diversi autori”, indetto da Principe Dracula sul gruppo face book “EFP famiglia: recensioni, consigli e discussioni”.
Il mio prompt era: “ Scrivere Storia di un giudice che ha appena dato una condanna di morte e la sua riflessione( o della persona che deve eseguire quella condanna)”
Lo stesso prompt lo avevano Laky099   e  Balder Moon  







 
Non possiamo aspettarci che le persone abbiano rispetto per la legge e l’ordine fino a quando
 non insegneremo il rispetto a chi abbiamo affidato il compito di fare rispettare tali leggi.
(Hunter S. Thompson)
 
 
 



 
Le belle giornate iniziano sempre con un caffè o un cappuccino e un cornetto caldo, le mie invece, arrestando un cattivo, anche se comunque la colazione non manca.
Sono Adel Ait Hammou e nonostante la mia giovane età – trent’anni – posso vantarmi per aver messo dentro più cattivi di quanto un giudice con molta più esperienza di me abbia fatto.
Ah, dimenticavo… se non si fosse capito sono un giudice.
È vero, qui a Wahabita, una piccola cittadina dell’Arabia Saudita, la legge non è una cosa facile. Alcuni giudici decidono cos’è la legge senza rispettare nessun diritto, senza dare il beneficio del dubbio all’arrestato, ma io no. Io mi sono sempre distinto per dare a tutti la stessa possibilità: colpevoli o innocenti.
La legge per me è come Allah: inviolabile, anzi posso proprio affermare che la legge è Allah dato che si basa sulla sharia; tuttavia molti la impugnano andando contro ogni principio.
Potrei dire così tante cose, ma ho paura di annoiarvi e quindi… forse seguirmi tutto il giorno vi potrà chiarire qualche dubbio e potrà farvi capire come sono o ciò che faccio.

Lavoro di norma quarantotto ore alla settimana e mi svago nel tempo libero, con la mia famiglia, a fare volontariato o praticando sport.
Mi alzo ogni mattina alle cinque, pronto per correre 6 km mentre musica classica si alterna a quella tradizionale per finire poi con quella moderna, accompagnandomi così in tutto il tragitto per darmi la scossa necessaria. Finito l’allenamento ritorno a casa e faccio la doccia, colazione con i miei e poi lavoro.
Beh, non chiedetemi perché vivo ancora con i miei perché io vi risponderei… perché no?
Per quanto riguarda la colazione, diciamo che dopo aver corso tanto devo pur mangiare e poi, dopo una bella doccia, trovarsi davanti “l’ultima cena” dà una carica che non si può neanche spiegare.
E quindi perché dovrei andare via di casa quando qui ho tutto quello che voglio e di cui ho bisogno?
Anche noi usiamo fare tipiche colazioni occidentali e spesso ci fermiamo a farle nei bar, ma mamma è molto all’antica e quindi accanto ai piatti moderni affianca sempre quelli tradizionali. Appena varco la porta della cucina, vengo inondato da un misto di profumi che incendiano i miei sensi, lo stomaco inizia a brontolare e solo allora mi accorgo di avere davvero fame.
Trovo la tavola imbandita con 
labne con crema divisi tra i kishta fatti con il latte di mucca e i qaimar fatti con il latte di bufalo domestico: hanno un gusto diverso e mamma sa che mi piacciono entrambi. Il labne è servito con olivementa disseccata e abbondante olio d'oliva.  Inoltre questa mattina ha anche preparato le manaqish, la sfiha, le fata'ir e il kahi, delle focacce così buone che senza non saprei come iniziare la giornata. Papà invece, non appena mi sono seduto, porta a tavola la pita con olio d'oliva e za'tar. Ovviamente a tutto questo si unisce anche la cucina moderna con il caffè, i cornetti caldi e, inevitabilmente, il tè.
Una volta sazio dal punto di vista culinario, la mia giornata lavorativa inizia con un altro tipo di fame: quella di arrestare i colpevoli e dare loro la giusta punizione, nessuno deve essere esente da questo indipendentemente da quanti soldi abbia o dalla famiglia da cui proviene, tutti devono pagare. Non potrei mai e dico mai, vivere bene con me stesso se non facessi questo lavoro, se non facessi di tutto per scagionare gli innocenti e condannare i cattivi.
Volevo sin da piccolo diventare giudice, ma solo negli ultimi anni è diventata una cosa indispensabile. Arrivare fin qui non è stato facile: ogni cosa ha un costo e io ho pagato quello più alto e per farlo ho rinunciato a molte cose; l’avrei fatto comunque, se questo l’avesse riportata indietro.
E quindi, dopo una bellissima e gustosissima colazione prendo la macchina e scappo in tribunale.
Ogni giorno è una nuova avventura e io… io non potrei chiedere di meglio.
 

 
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«Buongiorno capo» mi saluta allegramente Thomas, il mio assistente tirocinante. Come ogni mattina mi aspetta davanti il tribunale, mi dà il giornale e il caffè e prende in cambio la mia borsa mentre ci avviamo verso il mio ufficio.
Il suo entusiasmo per un nuovo caso contagia anche me il più delle volte, anche se quando si tratta di dover assistere una condanna a morte non riusciamo mai ad arrivare fino alla fine. E davvero… non riesco neanche a trovare le parole per esprimere ciò che provo. So che è la giusta conseguenza che i condannati devono subire per i crimini commessi, ma non è facile assistere e rimanere impassibili a qualcosa che ti condiziona per sempre. A volte penso che… nessuno dovrebbe subire tanto, ma non dovrei dire questo dato che sono un giudice, giusto?
Così, mentre raggiungiamo l’ufficio, ascoltare i suoi resoconti non possono che mettermi di buonumore; ricordo anch’io com’ero alla sua età, anche se poi, nell’arco di qualche anno, è cambiato tutto. Thomas è un ragazzo davvero speciale di cui andare fieri, ha un’energia e una voglia di imparare e di conoscere davvero stimolante.
«Buongiorno  a te» rispondo, scompigliando i suoi capelli intatti: ogni giorno, sembra che sia appena uscito dal parrucchiere. Adoro farlo perché subito dopo inizia a sbuffare, alzare gli occhi al cielo e fare tutte quelle facce buffe che mi strappano sempre un sorriso, anche quando tutto sembra crollarmi addosso.
Ci fermiamo spesso lungo la strada a parlare con alcuni colleghi, ma non appena arriviamo in ufficio tutto prende un ritmo diverso, più serio: meno parole e più lavoro. Ci trasformiamo.
«Capo Hammou, sono arrivati oggi» mi dice affacciandosi alla porta e, poco dopo, entra stringendo tra le mani delle cartelle. Quello è il nostro segnale, mi chiama così solo per una ragione.
Alzo le sopracciglia per nulla sorpreso, lo guardo serio e…
«Sì, è un altro caso. Ci è stato affidato dal tribunale perché hanno troppe pratiche da smaltire e… visti i tuoi successi… non potevano fare diversamente»ammicca lui orgogliosamente e anticipando la mia domanda.
Ci conosciamo da poco meno di sei mesi, ma già all’inizio è stato semplice tra di noi. Ci siamo capiti subito. Avevo avuti altri tirocinanti, ma con Thomas c’è stata una buona chimica sin dal primo sguardo: siamo entrati in sintonia così tanto che ci capita spesso di finire l’uno le frasi dell’altro.
Apro i documenti, leggo velocemente per farmi un’idea del caso ma tutto ciò che vedo sono delle parole che attirano subito la mia attenzione, le stesse che mi portano a chiedere se non sia solo una coincidenza ad avermelo affidato.

Uomo, stupro, giovane donna, studentessa, tenta il suicido, viva per miracolo: queste sono le parole che riecheggiano nella mia mente, che mi fanno sbiancare portandomi indietro nel tempo a quel fatidico giorno in cui tutto il mio mondo è crollato.
 



«Ehi! Fratellino dove vai così di fretta?» mi ferma Amira, mia sorella, tirandomi per un braccio prima che io sparisca di nuovo da una stanza all’altra.
«Ehi, principessina. Scusami sto andando in facoltà e sono in ritardassimo» le rispondo baciandole la fronte e scappando subito dopo.
«Non fare tardi stasera, dobbiamo parlare» mi urla dalla cucina con un tono di voce strano, ma penso che non sia nulla e così chiudo in fretta la porta di casa.
«Ti voglio bene fratellone» mi dice affacciandosi al balcone, sporgendosi dalla ringhiera e mandandomi un bacio con la mano, come facevamo quando eravamo bambini.
«Ti voglio bene anch’io» le rispondo sorridendo e a sua volta mandando un bacio prima di salire in macchina.
Lo so, è stupido comportarsi così, ma lei è la mia sorellina e farei qualsiasi cosa per lei.
 
 
 
Ritorno alla realtà, scuoto la testa per cercare di togliere quel ricordo mentre un brivido corre lungo la mia schiena. È l’ultimo ricordo felice che ho di lei, l’ultimo momento passato insieme prima che io la trovassi in fin di vita sul letto con accanto una lettera d’addio.
Quel forte senso di devastazione ti cresce dentro fino a lasciare un vuoto colmo di odio difficile da superare, se non quasi impossibile. Quella sensazione mi fa perdere dentro me stesso; era come se fossi precipitato in un profondo abisso nero da cui è impossibile risalire.
Solo allora scoprì che un pazzo l’aveva stuprata, che le aveva tolto la possibilità di essere libera e di dare la sua innocenza all’uomo che avrebbe amato. Amira ha mantenuto quel segreto per mesi, ha lottato con tutte le sue forze, ha stretto i denti… ma il senso di colpevolezza, il sentirsi a disagio con se stessa e “sporca” l’avevano portata a quel folle gesto. Erano questi i motivi per cui si era uccisa, almeno era ciò che aveva scritto nella lettera.
Se mi fossi fermato a parlare con lei quella mattina, se non avessi fatto tutto di fretta e mi fossi comportato di più come fratello maggiore, forse…
Ma i “se” non fanno andare avanti, non potevo fare nulla allora, ma potevo fare qualcosa adesso, potevo salvare ancora questa ragazza. E lo avrei fatto.
«Prendi tutti i fascicoli, le informazioni dei due e tutti i dettagli che riesci a trovare. Voglio tutta la documentazione sulla mia scrivania entro l’ora di pranzo» affermo duramente con tono forte, iniziando nervosamente a sistemare le carte davanti a me che dovevo consegnare nel pomeriggio.
Thomas mi guarda con gli occhi spalancati: non mi aveva mai sentito parlare così, neanche in aula, mi sono sempre controllato, ma lui non poteva sapere. Non mi chiede nulla, lascia la stanza dandomi il tempo e lo spazio di cui ho bisogno. Lui sa che appena sarò pronto gliene parlerò, lo faccio sempre. Nonostante il poco tempo da cui ci conosciamo so che capirà, ho solo bisogno di ritornare a respirare tant’è che non mi ero nemmeno accorto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
La vita a volte può sembrare come una puntata al gioco d’azzardo in cui non sai quello che succederà o come andrà a finire. In questo momento mi sento in bilico, così stravolto da non riuscire a dire o fare nulla. La rabbia è uno dei sentimenti negativi più devastanti, da cui spesso siamo condizionati; si dice che possiamo imparare a gestirla e che sia uno degli esami più difficili da superare della vita. Ma come posso fare? Avevo superato tutto questo e adesso il passato ritorna ancora una volta piombandomi addosso con tutta la sua crudeltà. Negare la rabbia non impedisce la sua manifestazione, reprimerla conduce inevitabilmente a somatizzazioni ed esternarla ci provoca solo sensi di colpa. Allora come posso fare a gestirla? Come posso non essere furioso quando la stessa cosa che è successa a mia sorella si ripete di nuovo?
Ad ogni respiro quel dolore confuso, quel senso di colpa e quel senso di umiliazione si trasformano in odio.
Un odio puro, trasparente e indistruttibile.
È solo rabbia.
Nient’altro.
Soltanto tanta rabbia che, pian piano, sta venendo fuori.
I battiti del cuore accelerano, le mani cominciano a sudare e intorno a me tutto si confonde tra realtà e passato. In pochi minuti stavo rivivendo il dolore di quel giorno, l’impotenza di non poterla salvare, la rabbia che vibra dentro di me fino ad esplodere in un urlo agghiacciante. Sarebbe bastato un minuscolo movimento e il cuore sarebbe scoppiato. Più respiravo, più il dolore diventava lancinante e la rabbia si incarnava dentro di me, entrando persino nelle mie ossa. Tutto ciò mi stava distruggendo dall’interno.

E così che la vita ti frega. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine, un odore o un suono che poi non riesci a togliere più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quando è troppo tardi e già sei a migliaia di chilometri da quell’immagine, da quel suono o da quell’odore. Alla deriva. [1] Baricco “Castelli di rabbia”

Faccio un profondo respiro e cerco di ritrovare la calma quando poco dopo sento bussare la porta e alzo gli occhi. Thomas entra molto cauto in punta di piedi, mi consegna il materiale e aspetta mie istruzioni; mi alzo e l’abbraccio. Non so nemmeno perché l’ho fatto, ma ci sediamo e gli racconto tutto e alla fine è lui ad abbracciare me. Non mi ero nemmeno reso conto che era l’ora del pranzo, così ci diamo appuntamento nel pomeriggio in tribunale e corro a casa. Oggi ci sarà la prima udienza e io voglio vedere in faccia l’animale che ha fatto quel gesto, che ha distrutto la vita di una ragazza solo per puro divertimento o per qualche sua perversa mania.
 


 
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«مرحبا طفلي » [Ciao piccolo mio] mi saluta in arabo mia madre baciandomi la fronte.
«مرحبا الأم، الأب مرحبا» [Ciao mamma, ciao papà] affermo sempre in arabo quasi in un sussurro, ma con il sorriso sulle labbra.
«ما هو الخطأ؟ لماذا أنت غاضب؟» [Cosa c’è che non va? Perché sei arrabbiato?] mi chiede non appena mi siedo a tavola. Ho cercato di nascondere le mie emozioni una volta varcata la soglia di casa, ma sono così furioso da non sapere gestire questa sensazione di rabbia che ho dentro e lei in qualche modo deve essersene accorta.
«لا أمي، لا شيء حقا، هادئة » [No mamma, nulla davvero, tranquilla] rispondo scrollando le spalle e sorridendole ancora una volta. Sono sempre riuscito a nascondere tutto dietro un sorriso, ma forse stavolta non ci sono riuscito.
Facciamo la preghiera del Mezzogiorno e mi sento ancora osservare, alzo gli occhi e vedo che i miei mi guardano fissi. Tengo ancora alto lo sguardo, ma poco dopo crollo e confesso tutto, accigliato.
«ماذا تفعل؟» [Cosa vuoi fare?] mi chiede mio padre a voce bassa e io lo guardo sembrando uno stupido perché non so cosa rispondere. Non mi era mai successo un caso simile e non sapevo come reagire.
C’erano troppi particolari che mi riportavano ad Amira, all’uomo che le aveva fatto del male che non abbiamo mai arrestato perché lei non ci ha detto chi fosse. Ma in tutto ciò c’era un particolare davvero importante che faceva la differenza: la ragazza era viva, anche se ancora in terapia intensiva.
«سوف تفعل الشيء الصحيح. سيكون لديك للقيام بعملك مما يتيح لك أكثر من افضل ما لديكم. لديك للقتال من أجل هذه الفتاة» [Farai la cosa giusta. Dovrai fare il tuo lavoro dando ancora di più del tuo meglio. Devi lottare per questa ragazza] afferma duramente mia madre, lasciando me e mio padre senza parole.
«أمي، ولكن أنا ... أنا لا أعرف ما إذا كنت تستطيع ... أنا لا أعرف ما إذا كنت يمكن أن تفصل بين ما حدث لأميرة وهذه الفتاة» [Mamma, ma io... non so se ci riesco... non so se riesco a dividere ciò che è successo ad Amira e a questa ragazza] replico poco dopo essermi ripreso dallo stupore delle sue parole.
«صح التعبير. أنا أثق بك و... تعلمون أن أختك قد أراد هذا » [Ci riuscirai. Io mi fido di te e... sai bene che tua sorella avrebbe voluto questo] dice asciugandosi velocemente una lacrima con la mano prima che noi potessimo vederla, ma a me non era sfuggito. Allunga la mano sul tavolo, prende la mia e l’accarezza. Quel gesto in qualche modo era ciò di cui avevo bisogno per farmi forza e cercare di accantonare il passato, anche se non era una affatto facile.
Mamma mi distrae con il cibo: sono sempre stato un golosone e vedere tutti i miei piatti preferiti ha il potere di farmi dimenticare tutto il resto, anche se solo per un breve momento. In questo modo,  mi godo il maraq, il  
riso, le lenticchie e i bagel con il contorno dell'Ayran , karkadè e del mio infuso preferito: quello all’uva il Naqi' al-zabib.
La pancia adesso è così piena che potrei scoppiare e devo ammettere che non mi dispiacerebbe, così avrei una scusa per evitare l’udienza. Ripenso però ad Amira: posso fare adesso ciò che non è stato possibile fare in passato, Huriyya ha tutto il diritto di avere giustizia.
«تذكر من أنت» [Ricordati chi sei] mia madre mi sussurra all’orecchio abbracciandomi poco prima di uscire di casa.
Lei nonostante conosce cinque lingue come me e Amira, parla quasi sempre l’arabo e dice che lo fa per non dimenticarlo anche se io non le credo. Penso che abbia paura di cambiare: aveva iniziato a parlare altre lingue ma dopo la morte di Amira è tornata a parlare solo ed esclusivamente l’arabo, come se quello fosse l’unico modo di sentirsi ancora accanto a lei. So bene a cosa si riferiva, voleva che pensassi al significato del mio nome. Mi hanno chiamato Adel perché nella nostra lingua significa giusto. Voleva che facessi la cosa giusta, ma come poteva chiedermelo? Come faceva ad essere così forte? Come faceva a perdonare l’uomo che ci aveva portato via Amira?
 


 
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«Alzatevi. Entra in aula il giudice Adel Ait Hammou» sento dire a gran voce non molto lontano da me. Quello è il preciso momento in cui devo entrare in scena.
Non mi abituerò mai ad essere al centro dell’attenzione e neanche a vedere lo sguardo di tutti su di me: chi mi implora pietà, chi mi chiede aiuto e chi chiede solo giustizia. Loro ti guardano e tu non puoi fare altro che guardarli a tua volta ed emettere la giusta condanna. Nessuno è immune dalla giustizia. Non per me: i colpevoli devono pagare e gli innocenti devono essere salvati; inoltre alle vittime presto in modo particolare la mia attenzione in quanto sono loro ad avere più bisogno di me, della mia voce e della mia difesa quando loro non hanno la forza di parlare.
Una volta in aula, gli avvocati di entrambe le parti presentano l’accusa e la difesa, ognuno cerca di avvalorare la propria tesi anche se volte tendono a perdere di vista il quadro d’insieme, ovvero ciò che è successo. Tutti gli elementi che sono stati forniti, le prove raccolte, indicano che l’accusato è colpevole e che è lui l’animale che ha stuprato quella povera ragazza indifesa; tuttavia il processo dovrà essere rimandato almeno fin quando la ragazza non si sarà ripresa dalla terapia intensiva e potrà testimoniare davanti la giuria.

«أنا بريء. كانت مؤطرة أنا. إنهم أبرياء. [Io sono innocente. Mi hanno incastrato. Sono innocente] continua ad urlate in arabo mentre i poliziotti lo trascinano fuori dall’aula per riportarlo in carcere, cercando allo stesso tempo di fermare il suo dimenare.
Nel sentire quelle parole il respiro si fa più veloce, i muscoli si tendono e la rabbia inizia a ribollirmi di nuovo dentro. Volevo saltargli alla gola e pestarlo a sangue, volevo essere io a dargli la giusta punizione e torturarlo in mille modi diversi.
«Portatelo via» ordino ancora una volta con voce dura e forte, abbassando le sopracciglia e tenendo gli occhi fissi su quell’uomo spregevole, così da dimostrargli di non avere paura.
In quel momento, provavo tante emozioni, forse troppe, alcune delle quali non andavo fiero e mi facevano sentire in colpa. Sono di nuovo nel caduto nel baratro senza via d’uscita, in preda alla rabbia, al dolore e alla profonda tristezza che confondono e annebbiano il presente; fin quando, ad un tratto, dietro al tunnel buio intravedo una luce fioca e l’immagine di Amira che mi sorride. Torno al presente: adesso sento di aver fatto la cosa giusta.
Voglio vedere quell’animale essere condannato a morte dalla stessa ragazza che ha stuprato. Deve essere lei l’ultimo volto che vedrà prima di morire, la ragazza deve essere presente quando io lo condannerò. La legge darà giustizia.
Ho detestato tante volte il mio lavoro per ciò che mi portava a fare, ma in casi come questo ne vado fiero e sono orgoglioso di essere uno dei pochi giudici a rispettare la legge e ad eseguirla in modo corretto.
Ho rimpianto più volte le mie sentenze perché sapevo che avrei privato qualcuno della persona cara, ma dall’altra parte sapevo di fare giustizia e se non l’avessi fatto non sarei riuscito ad andare d’accordo con la mia coscienza. Ho anche ricevuto molti ringraziamenti e molta gratitudine per le persone che salvavo perché accusate ingiustamente, ma per me la soddisfazione più grande era ed è quella di dare la giusta pena a chi ha sbagliato, affinché giustizia sia fatta e così che anche altri possano capire che dalla legge non si scappa.
Sì, è vero, a volte la sentenza è dura. Decidere di condannare a morte qualcuno, per esempio, non deve essere una scelta presa alla leggera e io non lo faccio, ma questo non fa di me una persona cattiva se sono felice nel farlo.
La gente merita di raccogliere ciò che semina, è un detto fatto ma è la pura verità. Ho sempre visto la vita con mille sfaccettature, non mi sono mai fermato solo al bianco o al nero; io andavo oltre, riuscendo a vedere colori che persino un pittore non avrebbe potuto cogliere.
Questa, però, sarà una vittoria che festeggerò, lo devo ad Amira. Non ho potuto farlo allora per lei, ma salvando questa ragazza, in qualche modo riuscirò a renderle giustizia.
 
La rabbia e il rancore ti possono sbarrare la strada. Adesso l’ho capito. Bruciano l’aria che respiri, ti divorano e ti confondono. La rabbia è reale e persino quando non lo è ti può cambiare. Ti modella, ti trasforma in quello che non sei. L’unico aspetto positivo è la persona che diventi dopo. E la rabbia, come la crescita, arriva a scatti e a strappi, al risveglio offre un nuovo giorno alla comprensione e… una promessa di quiete. [2] “Film-  litigi d’amore”

Oggi, è il giorno tanto atteso.
Sono passati esattamente 90 giorni, 10 ore e 30 minuti, no che io li stessi contando.
Questo sarebbe stato il giorno di Huriyya, il momento in cui si sarebbe riscattata e in cui, forse, avrebbe dato la forza anche ad altre ragazze di confessare, di farsi avanti e lottare per la propria vita.
Oggi, Huriyya Madani rinasceva proprio come una fenice: più forte e piena di vita, più di prima.
 
 


 
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Sento bussare la porta, non faccio in tempo ad alzarmi che Thomas entra in ufficio con un grande sorriso, il giornale e una tazza di caffè caldo, anche se solo dopo apprendo che era per lui. Infatti, esce e poco dopo rientra con un vassoio tra le mani con una teiera e una tazza con il mio tè preferito.
«Come sapevi che…» inizio a parlare, anche se non riesco a finire la frase perché lui mi interrompe, cosa che a volte odio, nonostante mi faccia sorridere.
«Ho fatto un accordo con il giornalaio all’angolo. Siamo rimasti che non appena usciva la copia del giornale dove c’era scritto della condanna doveva portarmelo subito. E quindi… eccomi qui per festeggiare con te» finisce lui, versando il tè nella mia tazza, sedendosi e prendendo la sua tazza di caffè tra le mani per brindare.
«Non credi che forse… noi non dovremmo?» chiedo timidamente, sentendomi in colpa per essere felice.
«No, perché hai fatto la cosa giusta. Gli hai dato tutte le possibilità che molti non gli avrebbero dato e un avvocato con cui difendersi, ma lui ha continuato a dire di essere innocente, nonostante tutte le prove fossero contro di lui. Tutto ciò per me è giustizia, sia per Huriyya che per Amira. Anche per lei doveva andare così» afferma serio, senza far trasparire alcuna emozione.
«Non devi sentirti in colpa perché hai fatto il tuo lavoro».
«Ma… e come se stessi andando contro ogni principio, come se stessi cercando vendetta per mia sorella» ammetto angustiato, non riuscendo ad essere felice.
«Io ti conosco da poco e solo adesso conosco la storia di Amira, ma come non l’ho pensato tutte le volte che hai condannato a morte qualcuno, anche se la situazione era diversa, non lo penso nemmeno adesso. So che tu hai fatto di tutto per dimostrare che lui meritava quella sentenza. Non fa alcuna differenza sapere ciò che è successo a tua sorella, hai agito sempre secondo la legge e anche stavolta l’hai fatto» mi rincuora Thomas facendomi un lieve sorriso, allo stesso tempo nei suoi occhi leggo l’orgoglio che prova nei miei confronti.
Non riesco a sostenere a lungo quello sguardo, abbasso gli occhi e mi fermo sulla testata del giornale sulla mia scrivania, non mi accorgo nemmeno che Thomas è uscito dal mio ufficio. Non mi meraviglia, lui sa bene che volevo stare da solo, che avevo bisogno di riflettere e di prendermi del tempo per me.
Prendo in mano il giornale e inizio a leggere, anche se tutto quello che vorrei fare è correre. Liberarmi da questo senso di colpevolezza, avere il vento sul viso e fra i capelli e sentirmi finalmente in pace.
 
 
 
 
L’Arabia Saudita ha condannato a morte Jibran Abid
 
È accusato di stupro, reato gravissimo in Arabia Saudita dove vige la legge islamica della Sharia. Succede nei nostri giorni, nel regno Wahabita, in una piccola città vicino Ad Al Qatif ad una ragazza che aveva appena compiuto diciotto anni durante la festa id al- fitr, la tipica festa tenuta al termine del ramadan.
Jibran Abid armato di coltello l’ha sequestrata puntandole una lama alla gola e portandola in una fattoria fuori della città; le ha, inoltre, scattato foto usando lo stesso telefono della vittima.
«Mi ha detto di non dire niente dello stupro, altrimenti avrebbe spedito quelle foto a tutti dal mio telefonino» confessa in tribunale la vittima.
Quando torna a casa, da ragazzina diciottenne si ritrova donna spezzata: tenta quindi il suicidio ma le pasticche che ingoia la mandano in coma. Finisce in ospedale e dopo giorni trascorsi tra la vita e la morte, si risveglia. Incapace di reggere il peso di quanto subito, decide di parlare. In casa, purtroppo, la giovane non ha trovato comprensione: la famiglia l’ha disconosciuta per il disonore subito.
Jibran Abid è nato a Hafar al Batin, il 2 marzo 1990. Il tribunale saudita lo accusa di stupro e lo condanna a morte; lui si dichiara innocente, ha trenta giorni per appellarsi contro la condanna a morte. L’Arabia Saudita e le sue leggi non sono però note per permettere una legittima e democratica difesa ai suoi imputati.
Ha inoltre affermato che durante il processo non ha avuto diritto ad un avvocato, ma è stato subito smentito dai fatti: il noto giudice Adel Ait Hammou è conosciuto per dare a tutti la stessa possibilità, sia che siano colpevoli o innocenti, senza tradire mai né la legge, né i diritti umani.
Jibran fu arrestato la prima volta nell’agosto del 2013 con l’accusa di violenze domestiche, ma poco dopo l’accusa cadde perché la dichiarazione venne ritirata. Il 1° gennaio 2014 fu arrestato di nuovo ad Abha, una città di circa mezzo milione di abitanti nel sud dell’Arabia, dove gli sono stati dati dieci giorni di prigionia in isolamento. 
Nel maggio 2015 ha avuto una condanna a quattro anni di prigione e a 300 frustate. Il suo appello contro tale sentenza è stato respinto dalla corte saudita che ha anzi deciso di andare di nuovo in processo. Gli ultimi sviluppi e la confessione della ragazza lo hanno portato ad una sentenza definitiva di condanna a morte.
Il caso ricorda quello di qualche anno fa, quando una giovane studentessa era stata stuprata e si era uccisa nove giorni dopo lasciando alla famiglia una lettera d’addio. Questo caso viene anche ricordato in quanto la ragazza in questione è Amira Ait Hammou, sorella del giudice.
Quest’ultimo non ha voluto rilasciate nessuna dichiarazione, ma fonti vicine affermano che ha eseguito la legge come di regola. Il popolo, infatti non ha mai contestato la sua condanna a morte, anzi molti musulmani e suoi colleghi hanno appoggiato la sentenza, anche la famiglia dell’imputato era d’accordo. Oggi, avverrà l’esecuzione ma né il giudice, né la vittima saranno presenti; quest’ultima però ha rilasciato una breve dichiarazione.
«Il giudice che aveva in affido il mio caso ha fatto più di quanto chiunque avrebbe fatto. Ha dato a… quell’essere spregevole possibilità che io non gli avrei mai permesso ed ha anche sempre messo al primo posto ciò che è accaduto senza tralasciare nulla al caso. Sono felice di essere viva e lotterò ogni giorno per il dono della vita che mi è stato dato. Ho capito, grazie al giudice, che nonostante il male ricevuto si può sempre e si deve fare del bene, indipendentemente da chi abbiamo di fronte o dalla situazione che dobbiamo affrontare. Io sono riuscita a rialzarmi e voglio essere un esempio per chi, come me, ha subito violenze; voglio lottare per loro affinché nessun altra donna, nessun altra ragazza paghi con la vita l’atrocità di una violenza subita».
 


 
Leggo l’articolo  tutto d’un fiato e ancora una volta sono in contrasto con le mie emozioni.
Stavo provando tante sensazioni, ma due prevalevano l’una sull’altra: rabbia e senso di colpa.
Dicono che la rabbia è un requisito indispensabile per cambiare, ed è vero.
Io, infatti, dopo ciò che hanno fatto ad Amira e la sua conseguenza sono cambiato e ho concentrato tutte le mie forze per diventare un giudice a discapito della mia vita sociale.
La rabbia serve a renderti efficiente, mi disse lo psicologo dopo un paio di sedute dopo la morte di Amira.
Ho dato così tanto da non accorgermi che stavo perdendo una parte di me. E quando ti viene quella voglia pazzesca di urlare, di buttare tutto a terra senza riuscire neanche a fermarti, allora sai che ciò che provi ti sta divorando lentamente e capisci che devi agire, in fretta.
Ad un tratto, nel momento in cui mi sento perso per la mia decisione, mi vengono in mente le parole di Huriyya. Prendo in mano il giornale e le rileggo: un piccolo sorriso spunta dalle mie labbra.
Poco dopo come per magia appare l’immagine di Amira: indossa il suo vestitino bianco a fiori preferito, i capelli biondi e ondulati lasciati liberi ricadere sulle spalle e il suo immancabile sorriso.
«Sono fiera di te fratellino» mi sussurra dolcemente sorridendomi, andando a toccare parti del mio cuore che non credevo esistessero nemmeno.
La sua voce mi riempie di gioia, ma esattamente un attimo dopo mi devasta. Desidero solo poterla abbracciare ancora una volta.
La morte cambia tutto, eppure io cerco ancora un perché.
Lei se n’è andata e io sono qui e tutto sembra così lontano e distante.
Quell’immagine così come appare, si affievolisce lentamente fin quando lascia in me una sensazione ormai così familiare di malinconia e dolore, misto ad una nuova a cui non riesco ancora a dare un nome ma che sembra far luce nel mio tunnel di sofferenza.
Mi scuoto all’istante mentre un brivido mi percorre la schiena e capisco che Amira sarà sempre con me.
Joan Lunden afferma : «Il perdono ti restituisce le risate e la leggerezza nella tua vita»
Beh, io ci sto ancora lavorando.
 
 







 
Spazio d'autore:
Salve a tutti =D
Eccomi con una nuova storia, stavolta con una tematica non facile e su un argomento di cui fatico ancora adesso a credere di aver scritto. Questa è la mia prima storia originale, non avrei mai creduto di poterne scrivere una, non fino ad oggi. Ho sempre scritto fan fiction ma partecipando a questo contest mi sono messa in gioco, sia con la consegna che con la storia originale. Che dire?
Come potete vedere dalla consegna che mi è stata data ho ideato questa storia, forse usando un modo troppo semplice, ma non per prenderla alla leggera perchè penso che ci sono vari modi di poter scrivere una storia su una stessa consegna: e questo è il mio.
Spero di aver rispettato il tema che mi è stato dato senza cadere nel banale o nell'esagerazione e spero anche di aver trattato l'argomento bene, anche se prima di scrivere questa storia mi sono informata parecchio; infatti molte notizie come i piatti arabi e i nomi li ho presi da internet. Nella storia come vedete ci sono presenti vari citazioni che ho deciso di inserire per avvalorare di più ciò che intendevo e l'articolo di giornale che ho deciso di inserire ho avuto un aiuto anche dai giornali trovati su internet per descrivere la situazione.
E poi, per ultima cosa ho inserito frasi in arabo non so se sono scritte correttamente perchè l'ho fatto con Google traduttore, ma la mia decisione era quello di entrare nel contesto non solo con i piatti e i  nomi arabi, ma anche con tutta la storia.
Chiudo dicendo GRAZIE a coloro che la leggeranno e dopo lascieranno un commento, a chi la leggerà solamente e a chi continua a seguirmi pur rimandendo nel silenzio.Grazie a ciascuno di voi e infine, ma non perchè meno importante ringrazio come sempre mia cugina Viviana per starmi vicino e per dare maggior valore alla mia storia leggendola e dandomi consigli di cui a volte la storia necessita.
Buona lettura a tutti ^_^
Un bacio,
Claire
 
 
 
 

 
 
   
 
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