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Autore: Trevor    19/03/2005    1 recensioni
Raccolta di storie da me scritte ispirate da alcuni episodi del libro “I 900 Giorni – L’epopea dell’assedio di Leningrado”. I fatti storici a cui si riferiscono sono realmente avvenuti. Data però l’esiguità del materiale di partenza, queste ricostruzioni non pretendono di essere né dettagliate né esatte. Inoltre probabilmente non le pubblicherò nella giusta sequenza cronologica.
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Guerre mondiali
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Questa storia parla della battaglia che la 1° brigata fanteria di marina sovietica ingaggiò con le forze naziste davanti alla città ormai circondata.

Krasnoje Selo – 10-11 Settembre 1941

I tuoni delle bombe che cadevano provenivano ormai da tutta la città. Era quasi un rituale, un abitudine, anche se era da poco che era iniziato. Il forte rombo di decine di aerei, i riflettori che saettavano tra le nuvole, i primi colpi della contraerea ed infine il fragore delle bombe.
Se mi avessero detto che la guerra sarebbe andata così male, avrei probabilmente riso a crepapelle. Se mi avessero detto che un nemico qualsiasi sarebbe arrivato ad assediare e conquistare Tallin partendo dall’ovest europeo avrei sputato dalle risate. Credevo, come la maggior parte della popolazione della Russia, che l’Armata Rossa fosse invincibile. O perlomeno abbastanza forte da impedire a qualsiasi nemico di calpestare il suolo russo.
Ma era successo. Il nemico, non solo aveva messo piede sulle terre della Russia, ma si era spinto fino al cuore del paese. Dopo un mese di durissimo assedio la marina aveva evacuato Tallin, la principale base navale negli stati baltici, perdendo nella battaglia e nella ritirata decine di migliaia di uomini e moltissime di navi da guerra. In generale, in meno di tre mesi di guerra la metà della potenza umana e industriale della Russia era in mano tedesca.
Guardai un calendario appeso in quella caserma improvvisata. Era il 10 settembre del 1941, ed era quasi mezzanotte. Forse quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei guardato un calendario. La mia unità aveva ricevuto ordine di tamponare la falla di fronte a Krasnoje Selo. Dal centro della città di Leningrado venivamo trasferiti a sud-ovest, dove poche ore prima un’unità di carri armati aveva distrutto le linee della 3° Guardie dei Volontari.
Si prevedeva una fitta pioggia … di piombo.

Neanche in città la situazione era tranquilla. I bombardamenti tedeschi sulla città erano iniziati da poco, ma erano pesanti, ed avevano già distrutto più della metà delle riserve di viveri della città. Una bomba era caduta a poca distanza dalla mia caserma, e i vetri erano andati in pezzi.
La flotta e l’artiglieria navale erano l’unica cosa che impediva ai nazisti di avanzare in forze contro la città. Tranne quelle poche unità di fanteria che ancora resistevano. Anzi, sarebbe più giusto dire ESISTEVANO. Nessuno lo ammetteva, ma le forze di Leningrado erano state ormai quasi piegate. Le divisioni di fanteria che erano ancora attive, contavano al massimo trecento uomini, senza equipaggiamenti e in alcuni casi anche senza fucili. Stavano in piedi solo perché nessuno si decideva a colpirle con forza sufficiente.
Avevo visto personalmente una delle unità arrivate da Tallin. L’ultima unità che aveva abbandonato le linee. Trovare un fucile per tre soldati era difficile. E trovare tre soldati illesi di fila, era un impresa.
A volte ai soldati non mancavano solo i fucili, ma anche una mano con cui impugnarlo. O una gamba. O anche due.

Salii su un camion del convoglio che ci avrebbe trasferiti, aiutandomi con il calcio del fucile. Mi sedetti sulla panca di legno installata nel retro, a tra due commilitoni. L’unica protezione per gli uomini era un telone mimetico crivellato di colpi. C’erano ancora larghe macchie di sangue coagulato sul pavimento del camion. Qualcuno, salito su quello stesso camion prima di me, doveva aver visto l’ultima luce entrare dai buchi prodotti dalla stessa raffica che lo aveva ucciso.
Non era certo un bel pensiero, per uno che si dirigeva in prima linea. Mi strinsi nel cappotto. Se c’era una cosa di cui andavo fiero era di portare quel mantello. Un pesante mantello di lana nera, l’uniforme dei fanti di marina che i tedeschi chiamavano con terrore “la Morte Nera”.

Per fortuna nessun aereo tentò di crivellare per la seconda volta il camion, anche se ogni tanto veniva scosso da un proiettile d’artiglieria che cadeva poco lontano, e arrivai sano e salvo nel luogo del ritrovo, dopo alcune ore di marcia. C’era un vento leggero. Ogni tanto una forte folata d’aria proveniva dalle vicinanze, dove le bombe d’artiglieria della flotta esplodevano una dopo l’altra nel tentativo di fermare i tedeschi.
Erano ormai alcune ore che mezzanotte era passata. Avremmo passato lì le ultime ore prima della battaglia. Forse le ultime ore in assoluto. Mi appoggiai ad una delle betulle del boschetto, aspettando che qualcuno portasse l’ordine di entrare in azione. Anche i miei compagni si stavano sistemando tra le radici. Quasi tutti portavano un fucile, alcuni – soprattutto ufficiali – portavano un mitra.

Mi svegliai di soprassalto quando un sergente mi scosse violentemente, ordinandomi in malo modo di alzarmi. Con tutte le bombe che continuavano ad esplodere a poca distanza, non avrei creduto di potermi addormentare. Afferrai il fucile e mi rimisi in piedi. Tutti i miei compagni si stavano freneticamente allineando attorno ad un piccolo spiazzo tra le betulle. Ci siamo, pensai.

C’era qualcuno che parlava al centro dello spiazzo. Un emissario del Quartier generale, senza dubbio. Poi, vidi l’aspetto dell’uomo che era al centro dell’attenzione. Chiusi gli occhi, per poi riaprirli. No, l’uomo era ancora lì. Un uomo robusto, sulla sessantina … Che ci faceva lì il maresciallo Voroscilov, comandante del fronte? Ma si, perché non ci aveva pensato prima? Voleva fare uno dei soliti discorsi che i comandanti fanno nei momenti difficili, per poi guardare qualche centinaio di poveracci andare alla morte.

Effettivamente il discorso ci fu. La voce era alta, forte e decisa, quasi folle in alcuni momenti. Parlò per alcuni minuti, mentre non distante a noi gli scoppi dell’artiglieria sollevavano colonne di terriccio e polvere, spronando gli uomini alla battaglia. Poi, tacque per un attimo, rimanendo in silenzio, guardandosi in giro. Bene, pensai, ora ci augura buona fortuna e se ne torna in città.
<< Andiamo. >>

Forse non avevo capito bene. Non aveva detto “andate”, aveva detto “andiamo”. Effettivamente aveva estratto la pistola, e si era messo alla testa della brigata, camminando verso le linee tedesche. Un lieve sorriso si fece spazio sul mio volto. Non seppi dire se fosse coraggio o semplicemente il mio istinto di sopravvivenza che si era preso una vacanza. Come molti altri commilitoni, innestai la baionetta e seguii il maresciallo senza esitare. La brigata si avvicinò al villaggio di Koltzelevo, occupato dai tedeschi. Intravidi, tra le spalle di coloro che erano davanti a me, le posizioni tedesche. Tutta la brigata gridò un “hurrà” e si lanciò alla carica, mentre i nazisti iniziavano a sparare. Alcuni soldati vennero colpiti, altri puntarono il fucile e risposero al fuoco. Nonostante il fuoco, entrammo nel villaggio, combattendo spesso con la baionetta, e poco dopo, gli ultimi nazisti se l’erano data a gambe.

Per fortuna erano pochi. La brigata aveva preso il controllo del villaggio, ed ora si scavavano frettolosamente delle basse trincee e dei ripari di fortuna per cercare di respingere il contrattacco tedesco, che non avrebbe certamente tardato.
Il primo << Allarme >> arrivò troppo presto. I marinai si dispersero tra le rovine del villaggio, riparandosi dietro i muri abbattuti e i calcinacci. Io mi sistemai nel pianterreno di una casa abbattuta, ad una stretta finestra. Vicino a me stavano altri soldati. Come primo assalto non era affatto male. Non riuscivo a contare gli uomini, ma erano appoggiati da diversi blindati e da alcuni carri armati. Mentre li contavo, un lampo rosso uscì dal cannone di uno dei carri. La prima cannonata colpì un muro poco distante, e alcuni uomini furono scaraventati indietro, chiaramente morti. I fanti avanzavano affiancati dai blindati. Noi non avevano armi pesanti, oltre alle bombe a mano e a qualche fucile anticarro. Facemmo fuoco con i fucili contro i fanti nemici che si avvicinavano, colpendone molti. Gli altri si gettarono a terra o si ripararono dietro i blindati o a qualche rudere, mentre le mitragliatrici montate sui veicoli cominciavano a cantare. I nostri fucili anticarro colpirono ripetutamente un blindato che avanzava sulla strada principale, facendolo esplodere. Alcuni colpi di mortaio cominciarono a piovere sul villaggio, costringendoci ad interrompere il fuoco.
A sud, alcune case erano state prese dal nemico, ma con un rapido contrattacco vennero di nuovo liberate. Il primo assalto era stato fermato. Ma i nazisti non avevano subito perdite rilevanti, e si prevedeva che ci avrebbero riprovato presto.
Per tutta la mattinata, i tedeschi tentarono di riprendere il villaggio, ancora ostinatamente tenuto dai marinai. Per tutta la mattinata, sentivo gli ordini urlati dall’anziano maresciallo.

Ero ancora riparato all’interno di una casa diroccata, e continuavo a sparare attraverso una delle strette finestre, anche se lo avrei fatto ancora per poco. I bossoli che giacevano a terra erano decisamente più numerosi dei proiettili che ancora potevo sparare. Nessuno ci avrebbe portato dei rifornimenti, e non c’erano riserve con cui appoggiarci. Eravamo NOI la riserva. Se cedevamo, Krasnoje Selo sarebbe caduta di lì a poche ore, e la strada maestra per Leningrado sarebbe stata praticamente sgombra.
Di fianco a me uno dei miei compagni venne colpito al torace, e cadde all’indietro. Mi abbassai appena in tempo, mentre la raffica di un arma automatica passava dalla sua finestra alla mia. Due compagni lo sollevarono e lo portarono via da lì.

Sgusciai fuori dalla casa appena prima che un folto gruppo di nazisti vi entrasse. Riuscii a ripiegare alla periferia nord del villaggio, dove stava l’ultimo nucleo di resistenza. Un trasporto truppe blindato tedesco era spuntato vicino a me. Gli gettai rapidamente sotto i cingoli l’ultima bomba a mano che tenevo alla cintura, sperando di fermarlo. Non mi fermai per vedere se c’ero riuscito. Mentre correvo verso nord sentii solo la bomba esplodere. All’ultima linea di trincee, scavata precedentemente dai tedeschi per difendersi da possibili contrattacchi, si combatteva alla baionetta, o lanciando bombe a mano. A volte un esplosione all’interno della trincea scaraventava in aria numerosi corpi di soldati. Le uniformi nere e verdi erano ormai mischiate in molti punti. L’artiglieria pesante di Leningrado aveva ripreso i cannoneggiamenti sulla zona. La fine della resistenza era vicina.

Pochi minuti dopo, infatti, appena fu respinto l’ultimo attacco tedesco, fu ordinata la ritirata verso Krasnoje Selo. Contro la cittadina erano pronte ad attaccare numerose forze tedesche ben equipaggiate. Non c’era niente con cui fermarli per adesso. I superstiti dell’assalto, appena furono relativamente al sicuro, si diressero verso le trincee scavate più a nord. Quasi tutti avevano ancora la baionetta innestata. Il sole illuminava le lame, che lanciavano riflessi argentati, con alcune macchie rosse.





Personaggi storici o realmente vissuti

Kliment Voroscilov: sostituì il generale Kuznetsov alla guida del fronte di Leningrado fino all’ 11 settembre 1941, quando venne sostituito da Zukov.

Nota 1: Non sono riuscito a trovare un indicazione precisa della differenza tra il calendario ortodosso e quello che usiamo qui nell’Europa occidentale, quindi per le date ho utilizzato quelle del nostro calendario.

Nota 2: Il coinvolgimento di Voroscilov nel contrattacco non è stato considerato da tutti un atto di coraggio. Era caduto in disgrazia con le sconfitte sul fronte di Leningrado, e quella sera stessa fu estromesso dal comando del fronte. In molti pensarono che, piuttosto che rischiare l’ira di Stalin, abbia preferito cercare la morte in battaglia.
  
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