Il brano per pianoforte suonato
e descritto nel capitolo è l’Etude Op.10 N.4 di
Chopin (consigliato, per l’ascolto, la versione di Pollini).
«Oh. Quindi da quel momento non vi siete ancora visti?»
La domanda di Haruichi è semplice, ed è certo che l’amico non stia tentando di
sottolineare quanto strana risulti la cosa. Sono tornati a scuola già da una
decina di giorni, ma l’ultimo sabato è saltato – con tanto di comunicazione
alla famiglia da parte di Miyuki – e Eijun sa
che non è per quanto si sono detti, ma non può fare a meno di chiedersi se sia
tutto a posto. Picchietta con le bacchette contro il bordo del contenitore del
suo bentou
e borbotta qualcosa di non meglio comprensibile.
Haruichi gli rivolge un sorriso e, con pochi movimenti, deposita in quello
stesso contenitore una piccola porzione di omelette; Eijun alza lo sguardo su
di lui confuso, chiedendosi se abbia una faccia da funerale tale da invogliare
qualcuno a cedergli del cibo per tirarlo su di morale, ma incontra niente più
del sorriso incoraggiante che Haruichi gli rivolge sempre, anche durante le
partite o gli allenamenti. In qualche modo, almeno in parte sembra tornare
tutto a posto.
«Perché nel pomeriggio non vieni da me?» domanda osservandolo «Per oggi le
attività del club sono sospese, io e Satoru pensavamo di studiare insieme. E
sicuramente faremo la cioccolata calda, a un certo punto.» azzarda, come se
quello fosse un motivo più che valido per accettare l’invito. Haruichi ha
questa capacità di trattarlo con riguardo senza farlo sentire un perfetto
imbecille a cui qualcuno sta facendo da bambinaia. Storce il naso, sospira
quasi rassegnato e finge di darsi un’aria d’importanza: «Beh, non mi va l’idea
di un intero pomeriggio con quell’altro, ma se proprio devo…»
lascia cadere la frase, recuperando l’omelette gentilmente offerta e
mangiandola senza troppe cerimonie.
Haruichi ridacchia, perché per quanto Eijun si finga infastidito dalla presenza
altrui, sa meglio di chiunque altro che in campo – e, per assurdo, soprattutto
fuori da esso dove la rivalità lascia spazio a una quotidianità del tutto
normale – Eijun sia forse una delle persone che più apprezza Satoru, o che
quantomeno lo conosce al punto da saper individuare i suoi pregi e non solo
l’essere poco loquace e il sembrare in alcuni casi niente più di un arrogante.
Ci hanno messo tre anni, ma Haruichi non scambierebbe un solo giorno della loro
amicizia.
Ciò che Eijun non si aspetta, è di ritrovare in casa Kominato altri
ospiti: lui e Satoru varcano la soglia subito dopo Haruichi, si liberano delle
scarpe e vengono indirizzati verso
il soggiorno. È una volta lì, in procinto di entrare e già pronti a posare le
borse a terra, che Eijun si blocca sul posto perché ad accoglierlo non c’è solo
il saluto di Ryousuke – il fratello maggiore di Haruichi – ma anche di Miyuki;
è chiaro che nessuno dei due fosse al corrente della presenza dell’altro, e se
Eijun fosse stato portato dalla sorpresa a credere che Haruichi ne sapesse più
di lui, capisce immediatamente di aver sbagliato quando l’amico guarda spaesato
il fratello. Sembra cercare in lui una risposta che, tuttavia, Ryousuke non gli
può dare.
Il primo a lasciarsi scivolare nella stanza è Satoru, con la sua invidiabile
indifferenza verso tutto e tutti, come se non sentisse il bisogno di alcun
chiarimento né la tensione che invece appare palpabile tra Miyuki e Eijun. È il
più grande a parlare, rivolgendo un saluto generale a tutti e tre e
soffermandosi su Haruichi: «Stavo giusto chiedendo a Ryou-san come stesse
andando la vostra squadra.» dà voce all’argomento più scontato – e l’unico che,
in effetti, può portarlo a una conversazione innocua su un argomento di comune
interesse con il minore dei Kominato.
«Bene, so che il coach voleva organizzare un’amichevole dopo le vacanze
invernali, ma non so se ne abbia già fissate o meno.» replica, rivolgendosi poi
a Satoru ed Eijun «Possiamo spostarci in camera mia, e—»
«Lascia stare, Haruichi.» lo richiama il maggiore, abbandonando la posizione
seduta vicino al tavolino basso: «Non stareste granché comodi, a studiare in
camera. Io e Kazuya stavamo giusto facendo una pausa prima di riprendere con il
saggio che dobbiamo scrivere per l’università.» assicura, facendogli cenno di
seguirlo in cucina per preparare qualcosa da offrire agli ospiti. C’è
un’occhiata discreta di Haruichi all’indirizzo dei due compagni di classe – più
di Eijun che di Satoru, ma lo maschera bene – prima di seguire il fratello. Il
silenzio che cala è a dir poco scomodo; sorprendentemente è Furuya a romperlo,
dopo aver tirato fuori come se niente fosse i quaderni e l’occorrente.
«Miyuki-senpai» pronuncia «sei bravo in matematica?»
«Direi di sì.» è la replica pronta che l’altro gli rivolge con un sorrisetto.
Se sia lui che Eijun si aspettavano l’altro stesse per chiedere un aiuto, sono
entrambi presi in contropiede dal «Aiuta Eijun, per favore. Ci rallenta.»
pronunciato da Satoru con un’espressione indecifrabile in viso che non permette
di capire se lo stia facendo per aiutare Eijun, per prenderlo in giro, o per
una capacità tutta sua di parlar chiaro.
Miyuki si apre in una risata che Eijun riconosce come quella che accompagna le
sue prese in giro: «Sawamura, la tua bravura in matematica ti ha reso famoso.»
ironizza con un sorrisetto sghembo e al diretto interessato basta, perché è
quello che si dicono sempre, il modo in cui interagiscono ogni volta ed è molto
meglio dell’imbarazzo di chi non sa come comportarsi ora che le cose tra loro
stanno cambiando. Soprattutto perché Eijun non ha idea del modo in cui lo stiano facendo, se sia o meno quello giusto o se
porterà a qualcosa.
«Perché tu sei un pessimo insegnante!» rimbecca con il tono alto che lo
contraddistingue, e Satoru sospira rassegnato al suo fianco guadagnandosi un
«Tu sta’ zitto!» con tanto di spallata – che è niente più di un muto
ringraziamento.
Non ci vuole molto perché i padroni di casa li raggiungano: l’odore di
cioccolata calda riempie la stanza quasi prima dell’ingresso dei due fratelli,
accompagnati dal profumo più lieve ma ben percepibile di biscotti allo zenzero.
Il piatto viene messo al centro del tavolo, le tazze ognuna davanti a uno degli
ospiti; passano quasi quaranta minuti in silenzio, ognuno con il proprio
quaderno o libro davanti al viso, l’espressione più o meno concentrata, la
penna che scivola sul foglio con una pausa qua e là. L’assenza di chiacchiere
sembra quasi innaturale, come un tacito accordo cui nessuno sembra intenzionato
a venire meno. Quando accade, è con un sospiro esasperato di Eijun e un
solidale: «Ti serve una mano, Eijun?» di Haruichi. Riceve in risposta lo
scuotere di una testa e uno sguardo concentrato che neanche passa su di lui,
rimanendo sulle pagine che gli rimandano indietro un’espressione aritmetica
sviluppata solo a metà. Haruichi sorride, limitandosi a tornare ai suoi
compiti.
È Miyuki che, dieci minuti e nessun progresso dopo, si allunga appena sopra il
tavolino e punta l’indice sull’ultima parte scritta da Eijun: «Qui non puoi
svolgerla in questo modo.» gli fa notare, gli occhi che rimangono sul quaderno
altrui «Fa’ attenzione, è un errore che fai spesso. Ti ricordi cosa abbiamo
rivisto prima degli esami invernali?»
«Mh…» Eijun corruga la fronte e si acciglia appena –
la cosa richiede un doppio sforzo di memoria, dal momento che matematica non è
esattamente la sua materia – dopodiché recupera la gomma da cancellare, toglie
l’ultima parte, e la corregge. Non sembra proprio sicuro di quanto fatto, a
giudicare da come indugia con la punta della matita sul foglio per poi alzare
lo sguardo incerto su Miyuki. Quello che trova è un sorriso soddisfatto,
l’indice puntato in precedenza sulla carta che va a picchiettare contro la
fronte di Eijun; c’è un secondo incurvarsi di labbra e sa di presa in giro pura
e semplice, ma bonaria: «Allora qualcosa di quello che dico ti rimane in
testa.» ironizza.
Eijun vorrebbe fargli presente che non è simpatico, per niente, e comincia
imbronciandosi. Non arriva a pronunciare quell’affermazione condita anche da
qualche insulto perché Ryousuke li guarda entrambi e non si risparmia il
commento che ammutolisce Sawamura in meno di un secondo: «Se volete fare i
piccioncini forse è davvero meglio la stanza di Haruichi.»
C’è un momento in cui il silenzio sembra gelo e nessuno si azzarda a dire
nulla; la prima risposta palese è il colorito assunto da Eijun, qualcosa di
inequivocabile. La seconda è l’espressione di Miyuki, che il primo a notare è
Haruichi, dal momento che Sawamura è troppo preso a fissare i suoi esercizi di
matematica e Satoru sembra concentrato sul suo biscotto allo zenzero: Miyuki guarda
Ryousuke in un tacito “so che ti stai divertendo” – probabilmente perché in
quello sono molto simili, bravi a leggere le persone al punto da potersi
permettere il lusso di insinuare con facilità sicuri di cogliere nel segno. C’è
però anche qualcosa che Haruichi non è sicuro di riuscire a riconoscere
davvero, ma sembra ammorbidire in qualche modo quell’espressione a cui non ha
mai potuto né saputo associare l’affetto puro e semplice, né la tenerezza di
fronte a qualcosa che suscita un moto di amore, di qualunque natura e forma
esso sia.
«Non essere geloso, Ryou-san.»
C’è un messaggio implicito ma chiaro, nelle sue parole, una risposta ovvia a
una domanda che Eijun non aveva ancora avuto il coraggio di fare direttamente a
Kazuya.
«La volete smettere?!» sbraita Sawamura, imbarazzato – ma Haruichi nel
guardarlo è abbastanza sicuro che si tratti di una vergogna che trabocca
felicità.
Satoru fa un tratto di strada con loro, e a conti fatti li abbandona
soltanto quando manca un isolato alla stazione. Eijun e Miyuki continuano
ancora, e non ci sono silenzi scomodi mentre parlano del torneo per il quale il
club scolastico di cui fa parte Eijun si sta preparando. Non ha bisogno di
spiegare a Kazuya gli allenamenti o le parti tecniche, perché quello è un
universo di cui ha fatto parte anche l’altro, fino all’anno prima, e che si
trascina ancora dietro adesso per quanto a livello meno agonistico.
«È stato massacrante!» ribatte con una nota di disperazione nel tono di voce,
di chi non vuole mai più provare la sensazione delle gambe che gli cedono o
delle braccia pesanti come mattoni: «Certo, ho comunque battuto Satoru ma lui
non conta. Non ha resistenza e poi è ovvio io sia migliore.» commenta con
quell’arroganza in cui non sembra credere davvero, per quanto pronunci la cosa
con tutta la convinzione del mondo. Miyuki lascia che sulle labbra rimanga il
sorrisetto formatosi quando Eijun ha cominciato a parlare, lascia a quello il
compito di accogliere qualsiasi cosa di cui l’altro vuole parlargli e non per
fare la parte della persona interessata anche se non lo è, quanto più perché
Eijun brilla di luce propria ogni volta che parla di quello sport. Anche se gli
racconta di un allenamento sfiancante, o del campo estivo dell’anno precedente
dove era convinto di morire sulla salita di montagna che dovevano percorrere
avanti e indietro per almeno dieci volte, Eijun sembra aver amato ogni singolo
istante.
Quella passione è una cosa che ha fatto parte di Miyuki, qualcosa che era
convinto avrebbe dovuto abbandonare quando ha scelto di dare precedenza
all’università e non a una possibile carriera sportiva, e si era convinto
avrebbe perso qualcosa di sé – l’unica cosa che è convinto lo rendesse Miyuki
Kazuya, l’unica capace di definirlo: ancora adesso non è sicuro di aver
qualcosa che inquadri con la stessa precisione o pronunci per lui la verità
assoluta sulla sua esistenza.
«Ma sei durato per tre anni.» gli fa quindi presente, un tono strano che Eijun
non sa riconoscere e che lo porta a indirizzare lo sguardo su di lui,
facendogli inarcare un sopracciglio. A volte non è sicuro se riuscirà mai a capire Miyuki, altre gli sembra che siano
così simili da non doversi nemmeno impegnare per comprendere.
«Dopo pensi di continuare? Dopotutto hai intenzione di prendere una facoltà
focalizzata sulle attività motorie. Non sarebbe strano, né difficile.»
«Non lo so. Forse.» pronuncia Sawamura, le mani in tasca e la sinistra che
giochicchia con il cellulare: «Ovvio che voglio continuare con il baseball,
perché mi piace. Però all’inizio potrebbe anche essere difficile, no? Insomma,
non so nemmeno come saranno le lezioni. Però potrei, perché no.» ammette,
accarezzando l’idea con la mente e sorridendo, anche se lo sguardo va verso
l’alto, verso un cielo dove non si vedono troppe stelle perché coperto e perché
le troppe luci delle strade di Tokyo impediscono di vedere oltre le
illuminazioni degli edifici più alti.
«Come sei giudizioso, Sawamura.» lo prende in giro Kazuya, ridacchiando
divertito nonostante sia colpito dal modo di pensare altrui – non stupito,
perché sembra il tipo di cosa che Eijun e nessun altro potrebbe fare: arrivare
al dunque e improvvisare. Miyuki non ha idea di come l’altro riesca a essere
così, se si tratti solamente di una questione caratteriale o di una forma
mentale acquisita con il tempo e grazie all’ambiente famigliare in cui è
cresciuto. Se così fosse, la spiegazione sarebbe più semplice da trovare: ha
visto abbastanza della famiglia di Eijun da capire come si possa essere così.
«C’è mai qualcosa che mi dici senza prendermi per il culo?» sbotta l’altro in
un borbottio, stringendosi leggermente nelle spalle, il cartello luminoso a
indicare la stazione raggiunta che li accoglie insieme alle scale dirette
sottoterra. Le scendono insieme senza che ci sia risposta da parte dell’altro,
e per quanto ne sa Eijun, questo significa che la replica è implicita: “no, non
dirò mai niente senza sfotterti in maniera più o meno palese”.
Pochi altri passi e devono dividersi, le case in due direzioni diverse.
«Ohi, Miyuki» lo richiama e non ci gira intorno, perché non sa farlo. È una
cosa stupida e lo sa, potrebbe valergli la più grande presa in giro degli
ultimi anni di vita, ma come ha detto Haruichi: gli deve una risposta, giusto?
Non più in merito alla loro relazione, non del tutto almeno, ma in fondo
chiedere non costa nulla. Beh, a parte sentirsi un po’ stupido. Ma si sente
così anche quando si ritrova a pensare di continuo a qualcosa che riguarda
Miyuki – e inutile pensarci per giorni e giorni, perché questo è uno di quei
casi in cui non riuscirebbe a entrare nella testa dell’altro nemmeno se
l’aprisse in due per sbirciarci dentro.
«…potresti non chiamarmi più “Sawamura”, sai.»
Kazuya lo guarda. Non ci vuole certo un genio per capire cosa sottintende
quella richiesta e, in verità, non ha nemmeno un vero e proprio motivo per
rifiutare. Tra i ragazzi della loro età non è nemmeno così strano, essere meno
attaccati alle formalità rispetto ai propri genitori o – ancora di più – ai
loro nonni. Direttamente o meno, loro sono accomunati da più cose di quante ne
abbiano realmente vissute insieme: lo sport, tanto per cominciare, sebbene non
siano mai stati nella stessa squadra. Lo studio, dal momento che Miyuki fino a
prova contraria è ancora lo studente più grande che gli dà ripetizioni. Ed è
quel qualcosa a cui entrambi non hanno ancora dato un vero nome, qualcosa che
per alcuni andrebbe sotto la semplice definizione di “frequentarsi”, per altri
di “stare insieme”, per altri ancora “il mio ragazzo”.
Miyuki non ha intenzione di rimangiarsi quel “proviamoci” che gli ha rivolto, e usare un nome non significa
alcuna promessa per la vita, dopotutto. È solo strano perché ha la sensazione
che per Eijun sia importante, molto più di quanto lo sarebbe per chiunque altro
al suo posto – molto più di quanto lo sia stato per chi al suo posto c’è stato
davvero, dalla senpai frequentata un tempo, a chi è stato una frequentazione
breve e passeggera, poco rilevante.
Chiamarlo per nome significherebbe rendere chiaro a chiunque che hanno un
rapporto intimo, una conoscenza profonda, perché è così che è in ogni angolo
del Giappone; Miyuki non è preoccupato da cosa la gente possa pensare, anche
perché per quanto ne sanno potrebbero essere anche niente più di due amici
d’infanzia. Anche se, e questo un po’ lo fa sorridere, Sawamura non è proprio
il tipo capace di mascherare le sue emozioni.
Allunga una mano ed è la prima volta che prende quella di Eijun nella propria,
escludendo il contatto prima del bacio-non-bacio: non
è una presa salda, anzi, somiglia più a quella di un bambino dal momento che
tiene solo due dita di Eijun. È come volerlo trattenere lì, ma non essere
sicuro di volerlo fare; come volergli comunicare in quel modo i suoi pensieri,
ma non volersi ancora sbottonare del tutto.
Le abitudini sono dure a morire. Quella stretta così vaga è come lo specchio dei
suoi sentimenti verso Eijun: forse vuole che funzioni tra loro. Forse non vuole
davvero.
«Ancora un po’.» lo pronuncia con tono basso, e non sa se è per un vago senso
di colpa che non credeva di poter provare ancora in un contesto simile, o
perché semplicemente non ha bisogno di alzare la voce per farsi sentire.
Non aggiunge altro, ma Eijun sembra capire la richiesta implicita: “aspetta”.
Gennaio si rivela un vero inferno: gli esami di ammissione per l’università
incombono, ed è un susseguirsi di gruppi di studio e agitazione. Miyuki si
ritrova ancora più spesso a casa Sawamura, ma non c’è altro che studio e
qualche pausa per evitare che il cervello di Eijun esploda a causa di troppe
informazioni. In quei momenti parlano soprattutto della preparazione al torneo
scolastico che stanno portando avanti, delle condizioni fisiche dei giocatori,
di come Eijun avrebbe tutto il diritto di allontanarsi dalla squadra visto che
è del terzo anno e in piena preparazione esami, il periodo più importante nella
vita di un liceale.
Sawamura, come c’è da aspettarsi, trova la proposta ridicola e Miyuki non fatica
a immaginarselo in mezzo a compagni d’anno e insegnanti che gli consigliano
vivamente di preoccuparsi della sua media e lui che sbraita di responsabilità
da senpai e cose simili. Quando la verità, poi, è solo che Sawamura è proprio
quel tipo di persona: gioca finché ha la forza di muoversi, urla finché ha
fiato in gola, non si arrende e basta – Miyuki sa che non si applica solo al
baseball, quell’insieme di qualità che ormai gli accosta con naturalezza.
Eijun gli racconta di come anche Haruichi e Kanemaru, del suo anno e rispettivamente
il capitano e il vicecapitano della squadra, non abbiano pensato neanche per un
attimo di ritirarsi nonostante siano in pieno studio anche loro; ha ovviamente
accennato a Furuya che continua ad allenarsi e lui – Eijun – non si può certo permettere
di essere da meno. Poi è il turno dei piccoli aneddoti, come Okumura che sembra
scatenare in Eijun un istinto materno in qualche modo perché “voi ricevitori siete bestie strane, che problemi
avete?!”. A Kazuya non dispiace ascoltarlo, perché è innamorato del
baseball quanto lo è Sawamura, in fondo.
Così gennaio arriva alla sua metà, portando con sé gli esami veri e propri,
quelli che non sono una simulazione da tentare all’infinito migliorando di
volta in volta; Eijun è un fascio di nervi che si scioglie solo quando sono
fuori dall’aula, lungo il corridoio e infine sul tetto dove non importa che
faccia anche troppo freddo, lui spalanca le braccia e inspira a pieni polmoni e
gli sembra che tutta la forza vitale lo abbandoni.
È Haruichi a dargli modo di pensare ad altro mentre camminano verso la stazione
in un raro giorno libero da allenamenti, visto l’esame sostenuto – anche se
Haruichi ha pochi dubbi in merito al fatto che Eijun troverà comunque il modo
di fare qualche lancio entro sera, nonostante la stanchezza e qualsiasi
imprevisto nel resto della giornata: «Eijun sei occupato nel week-end la
prossima settimana?» gli chiede mentre la banchina dove aspettano entrambi il
treno si mostra, molto meno affollata del solito.
Sawamura scuote la testa, lo sguardo che tradisce una punta di curiosità che
Kominato non manca di soddisfare: «Il figlio di un amico di famiglia partecipa
a una competizione musicale. Abbiamo ricevuto biglietti per tutta la famiglia,
ma mio padre non può esserci a causa del lavoro: ti va di venire?»
Eijun ha accettato, perché non aveva nulla da perdere e perché un po’
lo incuriosisce, un mondo così diverso dal suo; non potrà apprezzarlo come un
vero intenditore ma, si dice mentre si sistema meglio sulla poltroncina, non
farà certo un torto a qualcuno. Lui si trova tra Haruichi e sua madre, Ryousuke
che siede dall’altro lato del fratello: la signora Kominato tra un musicista e
l’altro ogni tanto gli sussurra qualche suggerimento – è appassionata di musica
classica e ha suonato uno strumento ai tempi del liceo, gli ha accennato mentre
arrivavano all’auditorium che li ospita, perciò è l’unica ad aver seguito molti
concorsi come quello. Molti ragazzi, gli ha spiegato, li ha visti gareggiare
esibendosi altre volte, e sebbene non li ricordi tutti alcuni non possono che
rimanere impressi. Eijun crede di capire, perché alcuni sono così bravi che
persino un profano come lui riesce a rendersene conto mentre li ascolta.
Il turno dell’amico dei Kominato è ancora lontano, ma lui sente la madre di
Haruichi tendersi di fianco a lui e quando la guarda sembra molto più giovane e
piena di sincera aspettativa; Haruichi posa una mano sulla spalla dell’amico e
gli sorride come a suggerirgli di non badarci troppo, che è sempre così: «Il
prossimo a esibirsi è Narumiya-kun. Mamma è una sua fan.»
Lo sguardo di Eijun va al palco, di nuovo, proprio mentre Narumiya avanza verso
il pianoforte; il primo pensiero è che possa avere origini straniere, perché è
così strano vedere qualcuno con capelli così biondi e occhi tanto chiari, in
Giappone. Ha una zazzera disordinata che stona con il completo elegante indossato
in maniera impeccabile, ma la cosa che Eijun nota davvero è lo sguardo:
Narumiya sembra totalmente diverso dai concorrenti che lo hanno preceduto,
perché ha nell’espressione qualcosa che Eijun ha imparato a riconoscere sul
campo di baseball, negli avversari più validi incontrati in tre anni. Narumiya
non ha paura, non teme il giudizio dei presenti ma soprattutto non teme il
fallimento: ha nelle movenze e negli occhi la sicurezza dei propri mezzi, e
quando siede e guarda il pianoforte, lo fa come se rivedesse un vecchio amico
anziché lo strumento che può segnare un successo tanto quanto un insuccesso.
Si siede allo sgabello e le punte delle dita sfiorando i tasti bianchi,
carezzandoli in un saluto, quasi; Eijun non ha idea di quale brano suonerà – ha
provato a leggere il programma all’inizio, per ingannare l’attesa, ma non
intendendosi di musica classica è stato come non farlo.
Quando Narumiya comincia a suonare, Sawamura si ritrova a sobbalzare sulla sua
poltroncina: un inizio veloce, quasi violento, che lui non si aspettava. Le
mani del pianista si muovono a una velocità che lui non credeva nemmeno fosse
possibile raggiungere. C’è una forza strana nel modo in cui tocca i tasti – è
forte la musica, forte lo sguardo di Narumiya sui tasti bianchi e neri, ma al
tempo stesso gli sembra che le mani non si posino mai con violenza sullo
strumento, tutt’altro. Un controsenso di cui Eijun non riesce a capacitarsi,
mentre gli occhi rimangono incollati a quelle mani che scorrono alternandosi
tra bianco e nero senza sostarvi mai abbastanza, e a un cambio veloce che non
si aspetta e che quasi somiglia a una brusca inversione di marcia in macchina,
Eijun sente qualcosa stringergli lo stomaco: gli occhi di Narumiya sembrano
pieni di quella che lui non saprebbe definire in altro modo se non con
“ossessione”. Un bisogno fisico di
suonare sembra possedere il pianista che si esibisce a neanche dieci metri da
lui.
Sente per puro caso la madre di Haruichi muoversi di fianco a lui, ma non ha la
forza di spostare lo sguardo dal musicista: sul suo viso si è fatto strada un
sorriso ferino, e all’improvviso Narumiya è più di un pianista ossessionato
dall’idea di arrivare alla fine di quel brano, è un predatore che sta mettendo
alle strette una preda inerme instillandole nella mente niente meno del puro
terrore.
C’è un momento di falsa delicatezza, che dura troppo poco per lasciarsi
ingannare davvero ma abbastanza a lungo da far sperare per poi inghiottire quel
solo istante di debolezza; ripartono veloci, le mani di Narumiya e Eijun sente
al tempo stesso di non poter allontanare gli occhi da lui e l’istinto di voler
andare via da quella stanza, lontano dalla musica che gli riempie le orecchie e
gli fa quasi girare la testa.
E allora, quando sembra che il brano sia concluso, Eijun comprende esattamente
ciò che Narumiya sta gridando con tutto il corpo: guardami, guardami, guardami.
Lui lo guarda, perché non c’è altro che possa fare – e quando il brano finisce
e il silenzio ingloba un’intera sala di respiri trattenuti e stupore malcelato,
si sente stordito e spaesato. Lo richiama all’attenzione la mano della mamma di
Haruichi sulla propria spalla, gli applausi che sembrano esplodere all’improvviso e il palco improvvisamente
troppo vuoto nonostante il musicista seguente stia già prendendo posto al
pianoforte.
Kuramochi non sa bene quando sia diventata un’abitudine avere, come punto
d’incontro, il posto in cui lavora: passa già abbastanza tempo in quel
ristorante con i propri turni, ma in un modo o nell’altro finisce per
ritrovarsi lì anche come cliente – come ora, con Eijun che gli siede di fronte
e controlla il menù con gli occhi che brillano, neanche avesse davvero bisogno
di curiosare tra pietanze che conosce quasi a memoria. Il suo turno è finito
esattamente mezz’ora fa, ma Sawamura si era già presentato lì e Kuramochi non
sa di cosa voglia parlargli, tuttavia sarebbe stato inutile spostarsi in un
altro locale. Senza contare che ha fame, e i racconti di Eijun non sono mai
concisi; specie quando ha nello sguardo quel qualcosa che di solito Youichi gli
vede dopo una partita di baseball, ossia così tanta adrenalina a scorrergli in
corpo da non stupirsi se l’altro passa in bianco quasi tutta la notte.
Considerando che non aveva partite, non è sicuro di voler sapere la causa di
tanta esagitazione, ma si sforza di domandare comunque perché una cosa meno
sopportabile di Sawamura in piena fase di esaltazione è la suddetta fase senza
che gli venga data una valvola di sfogo.
«Allora?» lo esorta, occhieggiandolo: «Cos’è successo?» non ci gira intorno,
anche se teme fortemente di sentire l’altro iniziare un racconto fin troppo
dettagliato su un qualche appuntamento con Miyuki; poco male, si dice, almeno
avrà un motivo per sfottere Kazuya.
Eijun si sofferma ancora per qualche istante sulle pagine del menù, dopodiché
lo richiude soddisfatto e la sua attenzione è tutta per l’altro, un sorriso
ampio a incurvargli le labbra e illuminargli il viso. La cosa di cui Kuramochi
non si è mai dovuto preoccupare è leggere l’umore o le espressioni altrui:
Eijun è sempre stato così trasparente, fin dal loro primo incontro, che non ce
n’è davvero mai stato il bisogno.
«Youichi-san!» esclama con il tono troppo alto, come
sempre, ma al quale sono davvero in pochi a girarsi a guardarli – l’orario non
è quello di punta, per il ristorante, mentre tra i dipendenti ormai tutti
conoscono Sawamura al punto da sapere che spesso sembra incapace di tenere il
tono di voce alto nella norma e non come se ti chiamasse da due isolati più in
là. Kuramochi storce appena il naso, visto che a dividerli non ci sono due
isolati ma un tavolo, e lo guarda senza dire nulla: «Conosci Narumiya Mei?»
chiede l’altro pieno di entusiasmo e questo, questo è inaspettato e lo fa irrigidire; per sua fortuna a volte
Eijun non è esattamente ricettivo come persona.
«Narumiya?» domanda con cautela, perché non riesce a pensare a un solo contesto
in cui Eijun possa fargli quella domanda sembrando piuttosto soddisfatto della
sua scoperta anziché irritato, o deluso, o qualcos’altro sul genere. Lo vede
annuire, ma deve aspettare che il suo collega prenda le loro ordinazioni e
torni verso la cucina, per avere una risposta concreta: «Harucchi mi ha
invitato ad andare con lui, sua madre e suo fratello a vedere una specie di
competizione di musica. Narumiya ha suonato il piano lì!» comincia con il suo
racconto – nemmeno così lungo in verità, fatto di un’esagitazione tipica di un
vero fan sfegatato e poco altro, perché a conti fatti non c’è altro che Eijun
sappia davvero di Mei. E quando lo apprende, Kuramochi sente di lasciarsi
sfuggire tra le labbra un mezzo sospiro sollevato perché davvero, non vuole
entrare in una questione tanto spinosa per la seconda volta. Gli è bastata
quella in cui è finito per forza di cose: l’essere l’unico amico di Miyuki.
Non parlano di altro per tutta la sera, se non di quanto forte sia stato
ascoltare Narumiya dal vivo, della sua bravura che persino Eijun ha potuto
capire anche senza essere un esperto, del modo in cui è salito sul palco, della
sua musica; Kuramochi si ritrova a fingere di dover immaginare qualcuno che,
tutto sommato, ricorda piuttosto bene anche senza averci mai avuto molto a che
fare, non direttamente. Eijun parla di Narumiya come di qualcuno di distante,
in un mondo a parte – e non sbaglia di molto, almeno per quel che riguarda le
discipline in cui mettono tutto ciò che hanno; per il resto Sawamura non
sospetta nemmeno di aver incontrato la persona più simile a lui che potesse
capitargli davanti, simile per tanti, troppi motivi.
Youichi non glielo dice: non gli consiglia di chiedere a Miyuki, non gli fa
presente di sapere perfettamente di chi stia parlando, non gli suggerisce di
tenersene alla larga per quanto sia difficile che possano avere un incontro
ravvicinato di qualche tipo. Lo lascia straparlare, lo riprende e insinua prese
in giro di poca importanza come farebbe in qualsiasi altro momento – ed è
contento, Kuramochi, di essere poco avvezzo alle bugie ma che Eijun sia ancor
meno portato a riconoscerle.
Quando lo lascia entrare in casa quasi tre ore più tardi, e lui rientra nella
propria abitazione, non ha davvero la forza di chiamare l’unica altra persona
che potrebbe tenerlo al telefono per più di mezz’ora a parlare di quella stessa
persona. Così l’unica cosa che fa è scrivergli, lanciandogli maledizioni per
averlo costretto a una serata di bugie e lo minaccia di non azzardarsi nemmeno
a chiamarlo fino al giorno dopo; solo dopo quella manciata di caratteri,
aggiunge l’unica cosa che può far capire a Miyuki che la sua non è una mail
piena di soli insulti.
“Eijun ha incontrato Narumiya.”