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Autore: Blablia87    06/03/2016    12 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Molly Hooper aprì la porta del laboratorio cercando di fare meno rumore possibile e si avvicinò al banco degli strumenti con passo incerto, una tazza di caffè caldo ben stretta tra le mani.
Sherlock, chino sul microscopio, alzò un attimo gli occhi su di lei, abbassandoli nuovamente sulle lenti un attimo dopo.
La donna poggiò il recipiente di cartone accanto allo strumento, ed il detective le rivolse un rapido gesto di una mano, in segno di ringraziamento.
“Cosa… Cosa fai?” Domandò Molly, con voce insicura, sporgendosi a leggere i fogli carichi di appunti e formule chimiche che Sherlock aveva sparso per il bancone di legno chiaro.
“Esperimento.” Le rispose lui, sbrigativo, aggiustando con gesti misurati la messa a fuoco.
La donna rimase ad osservare le dita affusolate muoversi con delicatezza attorno alle manopole del microscopio, quasi trattenendo il respiro.
“John?” Chiese poi, notando che Sherlock aveva stretto la presa su i selettori non appena udito quel nome.
“John?” Le domandò a sua volta il detective, alzando la testa per guardarla.
“Come sta? Mike… Mike mi ha detto che non si è sentito molto bene e… e che è tornato a casa con te. A casa vostra…” Rispose lei, sottolineando con un tremore nella voce l’ultima parola.
“John sta bene.” Tagliò corto Sherlock, tornando a dedicarsi al microscopio.
Tra i due cadde il silenzio, ma la donna non accennò a muoversi. Dopo una decina di secondi, il detective le lanciò uno sguardo fugace con la coda dell’occhio, trovandola ferma, rigida, ostinatamente voltata verso di lui.
Sherlock alzò la schiena, sbuffando.
“Molly, che succede?” Domandò, con voce tagliente. “Sono occupato. Grazie per il caffè, ma adesso, se non ti dispiac-“
“È che non sembravi il tipo…” Lo interruppe lei, avvampando. La sua scia divenne salata, e Sherlock aggrottò le sopracciglia, confuso. Tristezza? Perché mai avrebbe dovuto esprimere tristezza?
“Non sembravo cosa?” Chiese, osservandola ondeggiare lievemente.
“Il tipo di persona che… beh che avrebbe creato un Legame con qualcuno…” Molly fece un paio di passi indietro, in direzione della porta.
“Dio, che assurdità!” Sbottò Sherlock, alzando gli occhi al cielo. La donna arrossì con ancora più intensità, ed il detective sospirò, cercando di calmarsi.
“Non ho un Legame.” Iniziò, tentando di rendere la propria voce atona e distaccata, in uno sforzo di pazienza. “Dovresti sentirlo da sola, dalla mia scia.” Le fece presente, sottolineando la frase con un’alzata di sopracciglio. “John ed io non abbiamo alcun tipo di rapporto, se non quello di dividere lo stesso appartamento. Adesso, però, devi scusarmi, ma devo proprio tornare al mio esperimento. È di vitale importanza che lo termini il prima possibile.”
Sherlock rimase con gli occhi sul viso della donna, in attesa di un suo cenno di assenso.
Lei, alla fine, annuì appena, abbassando lo sguardo.
“Grazie per il caffè.” Ripeté il detective, addolcendo la voce. “Sei stata davvero gentile.” Le concesse, sperando che bastasse a convincerla a lasciarlo solo.
Molly accennò un sorriso, mantenendo lo sguardo fisso a terra.
“Se… se hai bisogno di me sai dove trovarmi.” Disse infine, voltandosi verso la porta e raggiungendola senza aggiungere altro.
“Certo. Grazie.” Le confermò Sherlock, chinandosi nuovamente sulle lenti del microscopio.
Sentì la donna uscire e si fermò un attimo, ascoltando il silenzio e tentando di ritrovare la giusta concentrazione. Chiuse gli occhi, respirando il modo lento e profondo. Poi tornò a chinarsi sul microscopio.
Sotto di lui, sul vetrino, le molecole di Snubber - tonde, grandi, satolle di particelle Determinate - stavano esplodendo una ad una sotto l’attacco di alcune cellule che il detective non riusciva ad identificare. Ad ogni rottura dei legami dell’inibitore veniva rilasciata, liberata, una particella Om+ (il nome che i biologi avevano dato agli elementi caratterizzanti i mutamenti chimico-fisici nei soggetti Omega, elementi su i quali agivano poi gli inibitori), che andava ad unirsi alle altre ai bordi della piastra. Quanto rimaneva dello Snubber veniva fagocitato e smaltito da altre cellule, anch’esse non classificate, che seguivano le prime con un ritardo di qualche secondo.
Sherlock osservò rapito la precisione con la quale agivano le due unità biologiche.
Non era qualcosa di improvvisato, ma di altamente sofisticato. Qualunque cosa avessero iniettato a John, agiva selettivamente su le molecole di Snubber, rendendole inefficaci prima e del tutto metabolizzate e assenti dopo.
Non aveva idea della vita media di questi elementi estranei, ma finché fossero rimasti nel corpo del medico, nessun inibitore, neanche assunto in quantità massiccia, sarebbe servito a qualcosa.
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale della sedia, e si portò le mani su gli occhi, facendole scivolare poi verso le tempie.
Doveva pensare, in fretta. Trovare qualcosa che riuscisse ad eliminare quelle cellule.
“Devo isolarle.” Iniziò ad elencare, visualizzando i passaggi necessari per una prima analisi. “Poi moltiplicarle ed infine iniziare ad attaccarle con vari agenti, sperando di trovarne uno che riesca a colpirle senza danneggiare altre parti.” Annuì, convinto, alzandosi.
Sarebbe stato un lavoro lungo, faticoso, e con una probabilità di riuscita molto bassa. Ma doveva provare. Lo aveva promesso.
Prese la piastra di vetro e si voltò, in cerca di coperchio. Doveva chiuderla e spostarsi in una stanza con strumenti più potenti.
La porta, alle sue spalle, cigolò sui cardini, aprendosi.
Sherlock inspirò profondamente, tentando di rimanere calmo.
“Molly, ti ho già detto che-“ iniziò, bloccandosi nel momento stesso in cui la scia del visitatore giunse fino a lui.
Appoggiò il contenitore sul bancone e si voltò.
“Lestrade.” Constatò, con aria vagamente sorpresa. “Sei venuto a controllare che non ti avessi mentito, durante la nostra ultima telefonata?” Chiese, canzonatorio, estraendo il cellulare di John dalla tasca della sua giacca, appoggiata allo schienale di una sedia vicina a quella sulla quale era stato seduto fino a poco prima. “Come vedi, ho recuperato davvero la sua roba.”
L’ispettore alzò gli occhi al cielo, portandosi una mano alla fronte e massaggiandosela con movimenti circolari di indice e medio.
“Un genio.” Disse, ironico. “Sei un fottuto genio. Riconosci i criminali con uno sguardo. Ma non ti accorgi che il cellulare di John è spento.”
“Cosa?” Il detective si girò il telefono tra le mani, premendo infine il pulsante centrale. Niente. Lo schermo rimase scuro. “Oh.” Commentò, sorpreso. “Dev’essersi scaricato.” Alzò le spalle in un gesto di noncuranza, e ripose l’apparecchio nel cappotto.
“Certo, meraviglioso. “Deve essersi scaricato”, dice lui, tranquillo. Ho provato a chiamarti per un’ora!” Lestrade lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, rassegnato.
“Non vedo perché continuare a chiamare, dopo la prima volta.” Lo rimbeccò Sherlock, con tono di sufficienza. “Non è logico.”
“Io… Va bene, lasciamo stare!” L’ispettore serrò gli occhi, cercando di calmarsi. “Ne abbiamo trovata un’altra. Un’altra vittima del nostro killer. Vieni?”
Sherlock si voltò verso la piastra, ancora da chiudere.
“Io… “ Iniziò, incerto su cosa fare.
“Sherlock, ho già perso troppo tempo. Vieni o no?” Lo incalzò Lestrade, irritato.
“Ok. Facciamo così: dammi l’indirizzo. Finisco una cosa qui e ti raggiungo.” Rispose il detective, iniziando a radunare i fogli sparsi sul bancone.
“Cosa?!” Rispose l’altro, assumendo un’aria sorpresa. “Che accidenti hai da fare, che sia più importante di una scena del crimine e di un serial killer?!” Chiese, tra lo spazientito e l’incuriosito.
“Niente che ti riguardi. Dammi quell’indirizzo e sparisci. Sarò lì entro venti minuti dal tuo arrivo.” Ringhiò Sherlock, girandosi.
Lestrade sospirò, mandando indietro la testa.
“E va bene. Come sempre, hai vinto tu. Dammi un pezzo di carta, che ti scriv-“
“Dimmelo e basta. Me lo ricorderò.” Lo interruppe il detective, chiudendo la piastra e voltandosi.
“69 di Paget Street.” Gli disse l’ispettore, bloccandolo con una mano mentre lo stava superando, diretto alla porta. “Che sta succedendo? Dico davvero, Sherlock. Se ha a che vedere con questo caso, devi dirmelo.” Aggiunse, guardandolo negli occhi.
“Niente che ti riguardi.” Ripeté Sherlock, in un sibilo. “Niente che possa intralciare le indagini, se è questa la tua paura. E adesso, se vuoi scusarmi…” Terminò, divincolandosi dalla presa dell’altro senza grossa fatica e dirigendosi alla porta.
“Paget Street!” Gli ricordò Lestrade, affacciandosi nel corridoio che Sherlock stava percorrendo a passo svelto.
“Ho capito!” Gli rispose l’altro, irritato. “Il 69 di Paget Street! Va’ lì e fa’ il tuo lavoro, invece di preoccuparti inutilmente per il mio!” Aggiunse, girando l’angolo e sparendo alla vista dell’ispettore che, preso un profondo respiro, si incamminò verso l’uscita, sconsolato.
 
 
Emily Brent - Beta Plus, impiegata di banca – sembrava una bambola di pezza, abbandonata con braccia e gambe molli su la poltrona a fiori del suo salotto.
“Avete toccato qualcosa?” Chiese Sherlock, rimanendo sulla porta, immobile.
“No, niente.” Disse Lestrade, dritto di fianco al corpo, guardando l’altro strizzare gli occhi in segno di riflessione.
“Quindi la siringa è sempre stata lì.” Constatò il detective, concentrandosi sull’ago, ben chiuso nel suo cappuccio protettivo.
“Sì. Ed il biglietto era stretto tra le sue mani.” Rispose l’ispettore, indicando la donna.
“Ripetimi come c’era scritto.” Sherlock fece un passo indietro, inclinando la testa da una parte, guardando la scena nel suo insieme.
“Sei e sette e otto e nove, vorrei tanto essere altrove! Anima nera, sguardo di morte, lacrima di tenebra nella notte.” Lesse l’altro, guardando la foto scattata con il suo cellulare prima che la scientifica catalogasse il reperto e lo portasse via.
“Poetico.” Commentò Sherlock, distrattamente.
“Come sempre.” Lastrade lanciò un’occhiata al viso della vittima, contorto in una maschera di dolore.
“Più del solito.” Rispose Sherlock, muovendo gli occhi per la stanza, vigile. “A quanto pare John si sbagliava…” Aggiunse, più rivolto a se stesso che all’altro.
“Scusa?” L’ispettore si avvicinò alla porta, attento a non toccare nulla nella stanza.
“Non ha finito.” Disse il detective, con tono ovvio. “Sta facendo un altro giro di giostra.”
“Non capisco.” Ammise Lestrade, cercando di seguire la traiettoria dello sguardo di Sherlock.
“Non è un cerchio. È un otto.” Il detective fece un passo in avanti, occhi bassi.
“Ancora non capisco.” Ripeté l’altro, abbassando a sua volta la testa.
“Non è importante, ora. Sai cosa lo è?” Sherlock gli rivolse un sorriso beffardo, al quale Lestrade rispose con un cenno negativo del capo. “Che l’ha spostata.”
Il detective entrò nella stanza, e si portò vicino alla poltrona, abbassandosi fino a toccare con la punta di due dita la moquette ai piedi della donna.
“Tracce di vomito. Qui.” Disse, indicando prima a terra e poi l’angolo della bocca della vittima.
“Era stesa a terra. Ha agonizzato. Tremori, rigidità…” Iniziò ad elencare.
“Rigidità?” Chiese Lestrade, avvicinandosi a sua volta.
“Le hai guardato braccia e gambe? Che ha detto Stamford a riguardo?” Chiese Sherlock, alzandosi.
“Che deve avergliele rotte, in qualche modo.” Rispose l’ispettore, lanciando uno sguardo alla piega innaturale degli arti.
“Non ha segni visibili, almeno su le braccia.” Sherlock alzò la manica della camicia bianca della donna, fin sopra il punto di rottura.
“I segni possono comparire anche successivamente.” Tentò Lestrade, ricordando le parole del medico legale.
“Vero.” Gli concesse Sherlock, senza scomporsi. “Ma per me vomito e - si inginocchiò, chinandosi sulla siringa - odore di mandorle, vogliono dire una cosa sola: acido cianidrico.”
“Odore di mandorle?!” Lestrade si abbassò a sua volta ai piedi della donna. “Cazzo!” Esalò.
“Ed acido cianidrico, più vomito, ci porta ad una soluzione inferiore ai cinque, sei grammi,  che sarebbero immediatamente letali. Cosa che a sua volta ci conduce a…?” Chiese Sherlock, alzando gli occhi sull’ispettore.
“A?” Rispose quello, confuso.
“Dio, John ci sarebbe arrivato subito. Alle convulsioni, Lestrade. Cefalea, ansia, vertigine, bruciore alla bocca e alla faringe, dispnea, tachicardia, nausea, vomito, ipertensione, diaforesi e dolore ai muscoli, all’inizio. Ed infine convulsioni, paralisi, coma, ipotensione.”
“Stai dicendo che le convulsioni le hanno rotto gambe e braccia?!” Lestrade assunse un’aria scettica, mettendosi in piedi.
“Hai mai visto qualcuno in preda alle convulsioni?” Chiese Sherlock, alzandosi a sua volta. “È esile. Arriverà a stento a cinquanta chili. O se le è procurate da sola, o gliele ha procurate lui tenendola ferma contro il pavimento, ed in quel caso vedremo comparire i lividi a breve. Ad ogni modo, questo non cambia i due fattori determinanti di questa scena del crimine.”
“E sarebbero?” Domandò Lestrade, incrociando le braccia.
“Ma davvero ti pagano, per il tuo lavoro?” Sherlock si allontanò dalla donna, tornando verso la porta, mentre l’ispettore assumeva un’espressione offesa.
“Le ha dato una quantità di veleno sufficiente ad ucciderla, ma non immediatamente. Ha lasciato che soffrisse per minuti interi. E dopo l’ha spostata e messa su questa poltrona. Deve esserci un motivo, se la voleva esattamente lì. E quella siringa? È messa in evidenza in modo quasi teatrale. Sembra dirci “Non impazzite per capire cosa sia successo, ve lo dico io”.” Sherlock riprese a muovere gli occhi per il salotto. “In più è tornato al suo vecchio modus operandi. Non è progredito, è regredito.”
“Inizio a pensare che agisca senza una reale logica.” Lestrade emise un sospiro, scuotendo la testa.
“C’è sempre una logica. Contorta, magari. Malata. Ma c’è. Sempre.” Gli rispose Sherlock, immagazzinando più particolari possibili dell’ambiente, per poterci lavorare successivamente.
“Io non riesco proprio a vederla…” Ammise l’ispettore.
“Non ha finito di giocare con noi. Ci sta portando in giro. Siamo le sue marionette.” Commentò il detective, sovrappensiero.
“Perfetto, adesso sì che sono tranquillo.” Lestrade sciolse le braccia e si portò le mani al viso, stropicciandosi gli occhi, frustrato.
“Mai detto che dovessi esserlo.” Fu la risposta che ottenne, e l’ispettore annuì, aumentando l’intensità dei movimenti.
Sherlock diede un’ultima occhiata alla siringa, e la cosa lo riportò con la mente a John, premuto contro la parete dell’emiciclo, una piccola goccia di sangue lenta che gli scendeva lungo il collo. Focalizzò poi la sua mano far cadere il proprio cellulare su quella tesa del medico, seduto sul divano. Il pensiero subito successivo fu che non avrebbe potuto contattarlo, in caso di necessità: il suo telefono era morto.
“Ok, fa’ venire i tuoi uomini a prendere il corpo. Ho visto a sufficienza.” Disse il detective, alzando la manica del cappotto per guardare l’ora. Le cellule, isolate, avrebbero avuto bisogno di tutta la notte per moltiplicarsi in numero adatto a poter continuare gli esperimenti, quindi poteva tornare a casa, arrivando in tempo per la cena e per controllare che il medico mangiasse in modo adeguato.
“Tutto qui?” Chiese Lestrade, alzando un sopracciglio.
“Per adesso. Ci lavorerò sopra questa notte.” Sherlock alzò il bavero del cappotto ed infilò le mani in tasca.
“John come sta?” Domandò l’ispettore, mentre estraeva il cellulare per chiamare la centrale.
“Non lo so. Ma spero stia meglio, voglio che mi dia una mano ad analizzare questa scena.”
Lestrade si bloccò, alzando uno sguardo sorpreso sul detective.
“Ti ho davvero sentito usare la parola “aiuto”?!” Domandò, incapace di trattenere lo stupore.
Sherlock si accigliò, sembrando non capire. Qualche attimo dopo, un lampo di consapevolezza gli attraversò gli occhi, e l’ispettore lo vide irrigidirsi.
“Sì. Io parlo e lui ascolta. In silenzio.” Cercò di spiegare il detective, con tono di voce più alto del solito.
“Certo.” Gli concesse Lestrade, tornando a dedicarsi al cellulare. Sentì uno sbuffo, poi i passi di Sherlock allontanarsi per il corridoio, fermandosi un attimo per recuperare la giacca di John che aveva abbandonato all’ingresso al suo arrivo. Infine, udì la porta dell’appartamento aprirsi e chiudersi, e non poté trattenere un sorriso soddisfatto.
Sorriso che si spense subito dopo, quando il sergente Donovan rispose dall’altro capo e, voltandosi, si trovò nuovamente al cospetto del viso contratto dal dolore della donna accanto a sé.
 
L’ingresso di Baker Street era immerso nel silenzio e nella penombra.
Dall’appartamento della signora Hudson non proveniva alcun rumore. La donna, con molta probabilità, doveva essere uscita per fare la spesa.
Sherlock iniziò a salire le scale, lentamente, poggiando una spalla contro il muro, quasi a frenare ulteriormente i propri passi ed il loro rumore, nel caso il medico stesse dormendo.
Arrivato sul pianerottolo, si affacciò nel salotto, trovandolo deserto. Le finestre, ancora aperte, avevano cancellato ogni traccia di John, facendo rimanere nella stanza solo un vago accenno dell’odore del detective.
Sherlock si sporse in cucina, vuota e silenziosa come il resto della casa.
Tornò quindi verso le scale, poggiando un piede sul primo gradino della rampa che saliva fino alla camera del medico.
La scia di John, confusa - agre, salata e amara insieme – lo travolse, lasciandolo per qualche secondo senza fiato. Una tale miscela di odori dipingeva solo scenari negativi, e Sherlock iniziò a correre ancor prima di aver pienamente capito perché lo stesse facendo.
“John!” Lo chiamò, quando ormai era arrivato alla sua porta e aveva già abbassato la maniglia.
Non ottenne nessuna risposta, e la porta non si aprì, chiusa evidentemente dall’interno.
“JOHN.” Ripeté, questa volta in modo imperativo, provando ancora una volta a spingere contro il pomello di metallo.
Sherlock sentì qualcosa cadere a terra, e infrangersi contro il pavimento. Una scheggia colorata arrivò ai suoi piedi, scivolando sotto la porta.
Il detective lasciò andare la maniglia e fece un paio di passi indietro, mettendosi con la spalla destra in direzione della porta. Un attimo, il tempo di analizzare la forza necessaria, e si lanciò in avanti. Il legno dello stipite dal lato della serratura cedette con uno schianto, e la porta si aprì verso l’interno, sbattendo contro la parete.
Sherlock quasi cadde nella stanza, e si portò in avanti, cercando di bilanciare con il busto e le braccia la forza in eccesso.
Una volta sicuro sulle proprie gambe, alzò uno sguardo per la camera.
L’armadio era aperto, ed i vestiti erano accatastati di fianco alle ante. Un borsone militare - apparentemente vuoto - giaceva per metà fuori e per metà dentro al guardaroba, afflosciato tra il legno ed il pavimento. Pezzi della lampada che John teneva sul comodino erano disseminati per la stanza, alcuni fino a fuori la porta, come quello che era arrivato ai suoi piedi poco prima.
Ed infine c’erano le pillole. Una ventina, tra quelle ancora nel flacone rovesciato sul comodino, e quelle finite a terra.
Sherlock socchiuse le labbra, incapace di respirare normalmente, cercando febbrilmente John con gli occhi senza riuscire a trovarlo, ad un primo sguardo.
Infine lo vide, ginocchia contro il petto, premuto nel piccolo spazio tra il letto e la parete.
Lo stava guardando con occhi sgranati e rossi, le labbra secche ed un lieve tremore lungo tutto il corpo.
“CHE DIAVOLO HAI FATTO?!” Ruggì Sherlock, raggiungendolo e quasi avventandosi su di lui.
John rimase immobile, stringendo solo un po’ più forte le braccia attorno alle gambe.
“CHE HAI FATTO?!” Ripeté il detective, bloccandogli le spalle con le mani.
“Voglio solo andare via da qui.” Gli rispose il medico, flebile.
“Quante, John. QUANTE!” Chiese Sherlock, stringendo la presa con ancora più forza.
“CINQUE!” Gli gridò in faccia John, al colmo della paura e della tensione, cercando di divincolarsi dalla presa.
“Sei impazzito?!” Sherlock lo tirò su di peso, aiutandosi con la parete dietro di lui.
“Tu adesso vomiti. Tutto. CHIARO?” Gli disse, le parole come affondate in un ringhio sordo.
“Non servirebbe.” Rispose il medico, a fatica, guardandolo negli occhi. “Le ho assunte due ore fa. A quest’ora avrei dovuto essere libero. O morto.” Spiegò, cercando di contrastare l’istinto di far ugualmente quanto gli era stato ordinato.
Sherlock socchiuse gli occhi, cercando di capire se mentisse o meno. Poi, l’immagine delle molecole di Snubber distrutte dalle cellule inoculate affiorò alla sua mente, e gli venne quasi da sorridere.
Lasciò le spalle di John, e fece un passo indietro, accorgendosi solo in quel momento di quanto accelerati fossero il suo respiro ed il suo battito cardiaco.
“Sei forse impazzito?” Domandò, cercando di mantenere bassa la voce quanto più possibile. “Ti ho detto che troverò una soluzione. Ragionevole. Sicura. Non questo!” Aggiunse, indicando con un ampio gesto del braccio la stanza.
“Non voglio niente da te.” Sibilò John, serrando i pugni.
“Si può sapere che ti prende?!” Sherlock lo guardò con aria interrogativa, cercando di riprendere fiato e calmarsi.
“Cosa prende a te!” Lo rimbeccò il medico, sorridendo amaramente. “Da quando aiuti gli Omega, dato che li consideri esseri inutili?”
“Ma che stai dicendo?! Quando mai mi hai sentito dire una cosa del genere?!” Sherlock alzò le mani, scuotendo la testa. “Ascolta, lo so che sei sconvolto. Che stai cercando qualcuno al quale dare la colpa, ma non sono io. E adesso abbiamo anche un altro problema, c’è stato un nuovo omic-“ John, lento, malfermo sulle gambe, si staccò dal muro e si portò a pochi passi da Sherlock, che si bloccò, rimanendo immobile.
Rimasero così, occhi negli occhi, qualche secondo, mentre le loro scie si mescolavano, diventando mutevoli, cangianti.
“Dimmi che non ci ritieni tutti spazzatura.” Disse John, calmo, ostinatamente ancorato agli occhi degli altri, anche se tutto il suo corpo gli diceva di allontanarsi il più possibile.
“Se ti ritenessi spazzatura, non saresti qui.” Rispose il detective, osservando le sue labbra muoversi nel riflesso delle iridi dell’altro.
“Che non ritieni nessuno di noi, spazzatura.” Aggiunse il medico, riuscendo a smettere di tremare.
“Sono un reietto, John. Un emarginato che si fa aiutare da altri esclusi. Pensi che potrei mai considerare qualcuno un rifiuto? Forse qualcuno ai piani alti, non certo un Omega.”
Rispose, atono, continuando a sostenere lo sguardo dell’altro.
“Saresti capace di mentire anche guardando negli occhi qualcuno, non è vero?” Domandò John, sorridendo senza traccia di allegria.
“Sì.” Confermò Sherlock. “Certo, ne sono capace. Come chiunque altro. Ma non lo sto facendo, non adesso.” Terminò, senza aggiungere altro.
Rimasero ancora qualche attimo immobili, John incerto se credere o meno alle parole del detective. Alla fine rilassò le spalle, abbassandole, ed insieme a loro la sua scia.
“Allora raccontami di Victor Trevor.”
 
Angolo dell’autrice:
Sono riuscita a caricare l’immagine a inizio capitolo! XD Non ci credo!
 
Non ho molto da aggiungere, il capitolo è relativamente breve ma carico di avvenimenti e scoperte (piccole e grandi, scientifiche e sul killer, “sentimentali” e non), e penso che parli sufficientemente bene da solo. (Almeno lo spero! ^_^) Ammetto che la parte biologica è "pura invenzione ", e che il neurobiologo molecolare che ho in casa l'ha definita "possibile" solo in un AU come questo, sogghignando anche un po'. Volevo comunque che fosse chiaro cosa fosse successo a John, quindi... Eccoci qui XD
 
Ho finalmente diviso i prossimi avvenimenti in capitoli sommari, e posso dirvi che ne mancano circa sette, tutti da scrivere ma già buttati giù su carta negli aspetti principali. Questo quando scrivo significa una sola cosa: storia che vedrà sicuramente una fine, rallentamenti o meno.
Sono felice, perché fino a quando non raggiungo questo livello di chiarezza c’è sempre una certa possibilità (remota, ma c’è) che non sia un percorso che troverà una conclusione. ^_^
 
Grazie come sempre a tutte/i voi! A chi legge, a chi aggiunge (abbiamo sforato quota 90! *O*), a chi, soprattutto, è fedele commentatore di ogni capitolo.
Grazie, grazie, grazie.
 
Alla prossima!
B.

PS: mi ricollego ad una cosa detta in un commento da BlackStone, e chiedo anche a voi: se aveste una scia, come sarebbe? :)
   
 
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