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Autore: _Frame_    06/03/2016    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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73. Deluso e Arrabbiato

 

 

4 novembre 1940,

Conca di Coritza, Villaggio di Vovousa

 

Due voci si sovrapposero nel buio steso attorno a lui. Voci lontane e sfocate, due echi ovattati che si alternarono al battito del cuore che pulsava lento, direttamente nelle orecchie.

“...ui.”

La seconda voce lampeggiò.

“... ors...”

E tornò il nero.

Italia strinse le palpebre, il buio di accese in un bianco abbaglio doloroso che centrò gli occhi come un pugno in mezzo alla fronte. Il lampo di luce scintillò, si fece color argento, e divenne lungo e sottile come una lama affilata. La lama sorretta dalla sua mano si innalzava davanti agli occhi, si stendeva in orizzontale dividendo il nero in due. La punta della lancia cadeva tracciando un arco attraverso l’aria, e precipitava contro il profilo del gladio. Scintille metalliche spruzzavano dall’incontro delle due lame e piovevano come una cascata di fuochi artificiali appena esplosi.

Italia strizzò ulteriormente gli occhi già chiusi. Due gocce di sudore scivolarono dalla fronte e gli bruciarono le palpebre, strisciando in mezzo alle ciglia increspate.

Il brusio di voci divenne fioco e sgranato. Il buio lo inghiottì. Lo sostituirono lo sbattere delle armi – cleng! –, il suono stridente dello strisciare delle due lame l’una sull’altra, quello viscido della dory che penetrava nella carne dividendone i tessuti, il rumore forte e secco – cri-crack! – dell’osso che si rompeva sotto la pressione della lancia conficcata tra la spalla e la clavicola.

Italia gettò il capo all’indietro. “Ah!”, sibilò, e affondò la nuca in qualcosa di morbido che andò a tappargli le orecchie. Il sudore gelato scese dalla fronte, dietro le orecchie, lungo il petto e attraverso le braccia. Imperlò le dita sbiancate strette attorno alle lenzuola che lo avvolgevano.

Italia schiuse le labbra e boccheggiò. Gli faceva male il petto, la pressione spingeva sullo sterno, scendeva a torcergli la pancia, e gli stritolava le ossa di braccia e gambe. I sudori freddi sgorgavano come acqua da una sorgente, il dolore andava e veniva a onde, come una marea.

Il ricordo della lama che usciva dalla sua spalla strappandogli l’osso, che si innalzava davanti al cielo grigio gocciolando il suo sangue e scintillando sotto il getto di nevischio, gli stappò le orecchie.

“Hai riprovato?”

Qualcosa fischiò. Il gracchiare di una manopola che si girava fece vibrare l’aria.

La seconda voce fece schioccare la lingua, frustrata. “È inutile. Tutto inutile.”

Altro fischio. Arrivò come una sottile trapanata al cervello.

Italia prese un debole respiro che passò tra le labbra pallide e tremanti. Dischiuse le dita. Il tessuto della coperta si rilassò e si distese sopra di lui, sfregando sulle bende che fasciavano il corpo.

La seconda voce si inasprì. Secca e irritata. “Quei dannati hanno fatto saltare tutte le linee.”

Le palpebre di Italia, increspate sotto lo sforzo di tenerle strette, traballarono facendo brillare le goccioline di sudore racchiuse fra le ciglia. Il viso pallido si distese, il cuscino dietro la nuca gli irradiò il capo di una piacevole sensazione di tepore che strisciò sotto le bende come un balsamo spalmato su un’ustione. Il calore arrivò in una piacevole ventata di aria estiva che profumava di polline, soffiò via la sensazione pungente della neve sulla faccia, delle rocce aguzze che premevano contro le ossa, e del fango ghiacciato che entrava sotto i vestiti. Italia si rilassò, rilasciò un lungo sospiro. Socchiuse le ciglia, le scie di sudore gli pizzicarono gli occhi, e una macchia bianca e appannata gli riempì la vista.

La botta di luce lo stordì.

I capogiri ridussero di nuovo le due voci a lontani brusii confusi.

Il sudore scivolò via dagli angoli delle palpebre, strisciò lungo le tempie, e le due lacrime rotolarono per finire inghiottite dai capelli.

Italia sbatté di nuovo gli occhi. Guardava in alto, un soffitto bianco si stese come il tappeto di neve su cui era svenuto. Arricciò il naso, fece strisciare una mano da sotto le coperte e si stropicciò un occhio con una nocca bendata. Era il soffitto di una tenda da campo.

“E provare con dei collegamenti ausiliari?” La prima voce si era avvicinata, era tornata limpida.

Italia sollevò la nocca dalla palpebra, ruotò gli occhi verso il basso, guardò oltre il mucchio della coperta di lana cotta color sabbia che creava delle piccole dunette lungo il suo corpo.

Due ufficiali tenevano le spalle chine davanti a un tavolo, i pugni stretti sui bordi e i visi bassi. L’apparecchio radio creava una macchia nera crivellata da manopole e quadranti davanti al bianco della tenda. Sagome nere e alte camminavano dietro il telo e poi sparivano come in uno spettacolino di ombre cinesi.

Uno dei due ufficiali allungò il braccio verso l’apparecchio radio.

“Forse se risaliamo la cima della montagna, uscendo dall’isolamento della valle, potremmo...”

“Uhm.” La voce di Italia era così impastata in gola che non gli sembrò nemmeno la sua. Italia si inumidì le labbra, strofinò la lingua sul palato, e riprovò. “Si... signori?”

Il suono della sua stessa voce gli martellò la testa, la tempia pulsò di dolore e una manciata di scintille galleggiò davanti agli occhi. La mano, bendata fino alle falangi sbucciate, salì e si posò sulla fronte, sotto la frangia scompigliata. Le vene pulsarono di nuovo. Lampi di luce bianca sfarfallarono nel buio.

I due ufficiali si voltarono con uno scatto. Uno di loro aveva ancora le mani allungate verso la radio.

L’uomo spalancò gli occhi. Sottilissime pieghe scavate sulle guance gli inarcarono le labbra verso l’alto. “Signore!”

L’altro ufficiale scollò le mani dal tavolo e le giunse davanti al petto facendo schioccare i palmi. “Si è svegliato, grazie al Cielo!” Allungò un passo.

Il primo ufficiale lo precedette, lo superò, e gli fece cenno di stare fermo. “Sta’ alla radio,” scoccò una rapidissima occhiata a Italia, “ci penso io.”

Il secondo ufficiale ritirò il piccolo passetto, si mise di fronte alla radio, e annuì. “D’accordo.” Prese il ricevitore a forma di cornetta del telefono e lo tenne stretto fra l’orecchio e la spalla. Le mani sull’apparecchio radio voltarono un paio di rotelle, il pollice pigiò un pulsante, e la lancetta dietro a uno dei quadranti a mezzaluna schizzò verso l’alto. Tornò piatta. L’ufficiale annuì a se stesso, mostrò sguardo duro e determinato. “Faccio tutto il possibile.”

Il primo ufficiale si avvicinò a passo svelto verso Italia. Italia riuscì a riconoscere i gradi sull’uniforme sgualcita e incrostata di terra: un capitano.

Due ombre proiettate sulla parete bianca della tenda passarono dietro di lui. Le sagome grigie dei due uomini si trascinarono dietro il suono scricchiolante di una lenta e pesante camminata sulla neve.

“Signore.” Il tono e l’espressione del capitano si piegarono in un accenno di dolore e compassione. Gli occhi impietositi guardarono il braccio di Italia che era emerso dalla coperta. “Signore, si sente bene?” domandò. Andò a sedersi affianco al suo letto, spinse la cassa di munizioni vuota più vicina al capezzale del ferito e chinò le spalle. “Le fa ancora molto male?”

Italia stropicciò gli occhi, si massaggiò la fronte. “Uh.” Scrollò il capo ancora poggiato al cuscino. Fece uno sforzo con la schiena, spinse il peso sull’altra mano, e sollevò le spalle dal letto. “Io...” Le vertigini sciamarono attorno alla sua testa come cerchi concentrici, stringevano sul cranio aumentando la pressione. Italia abbozzò una smorfia di dolore. “Io non lo so,” sussurrò.  

Raccolse le gambe facendole strisciare sotto la coperta ruvida di lana cotta. Le bende che avvolgevano ginocchia e polpacci fecero un leggero attrito. La schiena di Italia scivolò contro il cuscino, le spalle si misero dritte e si ingobbirono. Le gambe tornarono distese e rilassate.

“Dove...” Tornò a infilare le dita sotto i capelli e si massaggiò la nuca ancora calda e intiepidita dal tepore del cuscino. Guardò le pareti della tenda chiusa, la luce bianca che colpiva il telo, le poche sagome che si spostavano all’esterno. Le vertigini gli diedero la nausea. Stritolarono lo stomaco, gli fecero salire un conato al sapore del sangue che lo lasciò senza fiato. “Dove siamo?” sibilò. “Siamo –” La fitta alla pancia arrivò come una pugnalata dritta allo stomaco.

Italia si arricciò su se stesso, allacciò entrambe le braccia al busto e si flesse in avanti per contenere il dolore. Sbiancò in viso, gli occhi spalancati si restrinsero, vibrarono, e dalle labbra aperte fuoriuscì un gemito strozzato. “Aah.” La voce passò attraverso lo stomaco, e tutto il dolore vibrò lungo il busto, ramificò verso le altre ferite che lo mordevano sotto le bende. Gli parve di vederle: come tanti piccoli animaletti neri dalla bocca aguzza a forma di corona che si appendevano alla carne e rosicchiavano il tessuto. Italia si flesse di lato e strinse la schiena all’altezza di un rene. Serrò i denti, trattenne il grido. “Urgh~!” Sudore ghiacciato riprese a lacrimare dalla pelle e gli inzuppò il viso sbiancato e le fasce avvolte attorno al corpo.

Il capitano tese le braccia senza toccarlo. “La prego, non si alzi,” disse, allarmato. “Potrebbe essere ancora indebolito, e non sappiamo nemmeno se le ferite si siano rimarginate del tutto.”

Italia prese due respiri affannosi. Un’aria fredda che sapeva di neve sciolta gli scivolò lungo la gola, appesantì i polmoni. La mano scese dalla schiena, tornò ad allacciarsi al busto assieme all’altro braccio, e tutto il corpo di Italia tremò sotto i brividi di dolore.

Il capitano ritirò le braccia, chiuse le mani sulle ginocchia piegate contro l’orlo della cassa vuota di munizioni. “Mi dia ascolto, per favore,” assunse un tono apprensivo, “resti sdraiato.”

Italia prese un piccolo respiro dalla bocca. “O...” Ingollò, annuì. “Okay.” Si lasciò scivolare di nuovo sotto la coperta, stese le gambe e i piedi, rilassò le spalle contro il cuscino, e tirò la coperta fin sotto il mento. Girò di nuovo il capo a destra e a sinistra, sfregando i capelli sull’imbottitura e tappando prima un’orecchia e poi l’altra. Tornò a guardare l’interno spoglio della tenda e le sue pareti bianche. Sbatacchiò le ciglia. Un’espressione di confusione sostituì quella di dolore. “Ma dove siamo?”

Il capitano prese un piccolo sospiro e si mise più indietro, raddrizzò la schiena e tenne i pugni stretti sulle ginocchia. “Nella Conca di Coritza, signore. Al villaggio di Vovousa. Siamo accampati qua da tre giorni.” Abbassò lo sguardo, lo spostò di lato, e si massaggiò la nuca, sfregando le dita fra i capelli. “Non abbiamo voluto proseguire, nemmeno trasportandola, per paura che le sue ferite potessero aggravarsi.”

Italia strinse le dita sull’orlo della coperta di lana. Il corpo emanò lievi pulsazioni di dolore sentendo la parola ‘ferite’. “Co... cosa? Vuol...” Guardò in alto, inquadrò il soffitto bianco della tenda, alzò un braccio da sotto la coperta e rigirò la parte bendata davanti agli occhi. “Vuol dire che...” Calò il braccio, sollevò le spalle per guardare in faccia il capitano. “Che sono rimasto svenuto per tre giorni interi?” Una sensazione di disagio gli contorse lo stomaco, pizzicò la nuca dandogli una piccola scossetta.

Il capitano mise le mani in avanti. “Non se ne faccia una colpa, signore.” Tornò a chiudere le dita sulle ginocchia. Il suo viso tornò grigio e serio. “È stato molto male, tutti noi eravamo preoccupati per la sua salute.” Si strinse nelle spalle, affievolì il tono. “Abbiamo preferito non correre rischi inutili.”

Italia abbassò gli occhi, li nascose sotto l’ombra della frangia che ricadde sul viso. “Oh,” mormorò. Non riuscì a nascondere la punta di amarezza. Il peso della sconfitta era un boccone storto da mandare giù. Si girò sul fianco, lentamente, senza far pressione sulle ferite, e si massaggiò il braccio dalla spalla fino al gomito. Le bende erano ruvide, lievemente inumidite dal sudore. “Ma se...” Storse di poco le labbra. “Se siamo ancora a Coritza, significa che...”

Il ricordo della luce e della sagoma della dory che tagliava l’aria per affondare nella sua carne gli trafisse il cranio. La scintilla argentata, la figura nera di Grecia davanti a lui che si scontrava contro il cielo grigio. Occhi placidi ma vivi e agguerriti che lo guardavano dritto in viso, paralizzandolo nel suolo fangoso.

Italia scattò a sedere. La coperta volò via. “Oh, no, Grecia!” Ignorò la scossa di dolore proveniente dal busto e dalla schiena. “Dove –”

“Sia tranquillo, stia tranquillo.” Il capitano tese le braccia, gli toccò delicatamente le spalle e gli trasmise un senso di calore e sicurezza. “Non si agiti, la prego.”

Italia respirò più piano. Il sangue che riprendeva a scorrere pizzicò sotto la pelle, gli informicolò le mani e il viso. Le vertigini si dissolsero portando via le nuvolette di scintille bianche.

Il capitano richiamò le mani. Anche il suo corpo si rilassò, e un flebile senso di incoraggiamento gli inarcò le labbra tingendo le guance di rosso. “Ce l’ha fatta, signore,” disse. “I greci se ne sono andati dal Passo, e il territorio è ancora in mano nostra.”

Italia allargò gli occhi. “Ce l’ho fatta?” Prese un respiro di meraviglia, gli angoli della bocca cominciarono a salire verso gli zigomi e gli occhi scintillarono. Il dolore al petto si alleggerì. “Davve...”

Il suo corpo giaceva nel terreno fangoso, nel freddo, e nel bagnato che impregnava i vestiti già zuppi di sangue. La neve pioveva su di lui avvolgendolo in uno strato bianco e leggero che pizzicava i tratti di pelle scoperta. L’ombra di Grecia calava su di lui, la punta della dory si ritirava dalla sua spalla, scendeva verso il terreno e si immobilizzava. Grecia si sfilava la giacca e gliela posava sulla schiena, lo copriva fin dietro la nuca, e si voltava, lasciandolo lì. Spariva svanendo all’interno della nebbia di neve.

Di nuovo il senso di sconfitta tornò a schiacciare Italia a terra. Gli fece abbassare le spalle e la fronte. Il mezzo sorriso si capovolse, le guance sbiadirono e tornarono pallide come la neve.

“No. Io non...” Nascose metà viso dietro il palmo della mano, parlò contro le dita bendate. “Alla fine,” tremò di vergogna, “alla fine non sono stato capace di vincere.”

Il capitano storse un sopracciglio, gli rivolse un’occhiata interrogativa.

Italia sollevò anche l’altra mano. Nascose la luce traballante degli occhi umidi, la sua voce divenne un doloroso tremolio strozzato. “Eppure ce l’ho messa tutta.” Scosse lentamente il capo e ripeté a voce bassa. “Ce l’ho messa tutta.” Tirò su col naso, sfregò il polso contro il viso. Non piangeva, ma il cuore lacrimava spessi goccioloni di sangue che bruciavano nel petto. “Perché tutto quello che faccio non basta mai?”

Il capitano alzò gli occhi. Si grattò dietro un orecchio, arricciò la bocca mugugnando qualcosa fra i denti. Nascose il disagio di non sapere cosa dire.

Italia fece salire la mano bendata dalla guancia e sfregò le nocche contro la palpebra. Tirò su col naso, e lasciò scivolare le dita dal viso.

“Il nonno dov’è andato?”

Il capitano sollevò un sopracciglio. Un velo di confusione gli appannò gli occhi. “C... chi, signore?”

“Il nonno.” Italia si sollevò di più dal letto, spinse sui palmi che premevano sul materasso duro da cui emergeva la sagoma della rete, e raddrizzò la schiena. La coperta scivolò dal busto fasciato e tenuto avvolto da una veste di tela aperta, e la lana cotta si raccolse attorno ai fianchi. “Quando... quando siete venuti a prendermi c’era un uomo con me.” Italia sollevò il braccio sopra la sua spalla e rivolse il palmo della mano verso il basso. “Un uomo alto e con tanti muscoli.”

Anche l’ufficiale alla radio girò lo sguardo e diede una sbirciata.

Italia calò il braccio e rivolse occhi tristi e supplichevoli al capitano. “Dov’è andato adesso?”

Il capitano guardò in basso, quasi si vergognasse a rispondere. “Non c’era nessuno, signore. Solo lei.”

Italia emise un sussulto di delusione. Le mani strinsero la coperta, il fiato rimase sospeso, il cuore fermo e il sangue freddo. Un brivido gli risalì la schiena, morse la base del collo.

“L’abbiamo trovato steso a terra,” disse il capitano. “Quasi privo di conoscenza. Era ferito, sanguinava molto, e...” Spostò lo sguardo di lato, lo gettò a terra. Agitò le dita sulle ginocchia, le fece scricchiolare, e guadagnò un breve respiro. “E aveva addosso una giacca in dotazione all’esercito greco.”

Italia ricordò il breve attimo di calore portato dalla giacca che gli avvolgeva la schiena, seguito dalla sensazione tiepida e piacevole del tocco di Nonno Roma che gli scorreva fra i capelli e che carezzava il profilo della nuca.

“Signore, è forse...” Il capitano tornò a sollevare lo sguardo. I suoi occhi si erano fatti più scuri, una luce sospettosa animava quell’occhiata storta e diffidente. “È forse capitato qualcosa? Tra...” Gesticolò con una mano. “Tra voi due, intendo.” Tornò a chiuderla sul ginocchio.

Italia non capì. Si limitò a scuotere il capo. “No.” Il viso tornò disteso, gli occhi bassi e avviliti. “Abbiamo solo combattuto.” Passò la mano di nuovo lungo il braccio, sfregò il palmo sulle bende che tappavano le ferite, e il suo sguardo cadde nuovamente a terra, costernato. Sospirò. “Mi dispiace.” Restrinse le labbra, riprese a tremare. Italia si chiuse nelle spalle e richiamò le ginocchia contro il petto. “Mi dispiace tanto di non avercela fatta.”

Il capitano prese un respiro. Parlò con voce più rilassata. “Per il momento siamo ancora al sicuro.” Infilò la mano nella tasca della giacca e sollevò un vago scricchiolio cartaceo. “Forse, il suo intervento è davvero servito a qualcosa.”

Svelò un foglietto piegato in due. Infilò il pollice all’interno della piega e lo aprì, tenendolo davanti agli occhi.

Italia flesse il capo di lato, mostrò espressione incuriosita, e il capitano si schiarì la voce.

“Le altre divisioni stanno passando guai ben più grossi dei nostri.” Gli occhi corsero lungo le righe dell’appunto. “Il Nodo di Furka ormai è perso, e l’intero Battaglione Gemona è stato travolto. Il fiume Vojussa è ormai in piena e non è più possibile attraversarlo.”

Qualcosa scricchiolò alle sue spalle per poi emettere un suono ondeggiante e metallico. Il capitano scoccò un’occhiata da sopra la spalla all’ufficiale che era ancora piegato sulla radio. Tornò a tossicchiare per schiarirsi la voce, e riprese a leggere.

“In Macedonia sono stati costretti ad arretrare ulteriormente, fino al fiume Devoli. Solo il Battaglione Cividale ha ottenuto una piccola conquista, ed è giunto alla cittadina di Samarina.” Richiuse il foglietto. Guardò Italia negli occhi. “Noi siamo in stallo.”

In stallo.

Italia chinò gli occhi. Il senso di impotenza, di debolezza, di vergogna gli schiacciava le spalle ferite e bendate. Socchiuse gli occhi, sospirò. “Oh.” Fu un sospiro doloroso.

Italia si strinse il petto all’altezza del cuore e raccolse tutta la sofferenza all’interno delle dita. Il cuore pulsò. Il battito fece emergere un’altra paura racchiusa nell’animo.

Spalancò gli occhi di botto. “A... aspettate!”

Tutti e due gli ufficiali lo guardarono.

Italia sollevò entrambe le mani tremanti e chiuse in due pugnetti davanti al viso, e le dita tremolarono sfiorando le labbra. Il volto bianco, gli occhi lucidi di panico.

“Mio fratello!”

Prima che il capitano potesse aprire bocca, Italia si sporse dall’abbraccio della coperta e si aggrappò alla giacca dell’uomo. “Romano!” Le mani strette sulla divisa dell’ufficiale tremarono, non riuscirono a stare chiuse, e Italia scivolò verso il basso. “Dov’è Romano? Lui sta bene?”

“Signore...”

“Devo vederlo!” Tornò ad aggrapparsi. Tutto il suo corpo tremava. Gli occhi scongiuranti luccicarono, gonfi e acquosi sotto la luce bianca che brillava dalle pareti della tenda. Il cuore batteva forte, gonfio di ansia, di paura. Il martellare che pulsava nel petto gli bloccava il fiato, annebbiava la mente ancora stordita dal dolore delle ferite. “La prego, mi porti da mio fratello!”

“Non...” Il capitano nascose lo sguardo mortificato, lo rivolse a terra. “Non abbiamo notizie di lui, signore.”

Italia sgranò ulteriormente gli occhi. La pressione delle dita aggrappate al capitano si fece più debole, la stoffa sfilò dalle dita e tornò liscia sul petto dell’uomo. Italia sentì il silenzio fischiargli nelle orecchie, trafiggergli il cuore. Non voleva crederci.

“Non sappiamo come procedono le operazioni in Epiro,” proseguì il capitano. “Le linee di comunicazione sono state tagliate dai greci, e anche quelle intatte sono impossibili da usare a causa del maltempo.”

Fuori dalla tenda, i passi dei soldati che camminavano sulla neve facevano scricchiolare il silenzio di tomba che si era aperto tra di loro. Voci lontane e confuse si univano al clangore metallico, allo zoccolare dei muli che battevano i ferri contro le rocce, e ai rombi di motore degli autocarri che venivano spostati lungo la strada ghiacciata.

Italia non sentiva. Non sentiva più niente.

Il capitano fece scivolare delicatamente le mani di Italia giù dal suo petto. Continuò a guardare in basso, in mezzo ai piedi, come se gli stesse chiedendo perdono.

“Ci dispiace.”

Il labbro inferiore di Italia tremò, e un secondo lieve mugugno gli uscì dalla gola. Restò a bocca socchiusa e in silenzio per qualche attimo. “Quindi, lui potrebbe...” Fece scivolare i palmi dal petto del capitano, richiamò i gomiti sui fianchi e avvicinò i pugnetti al viso. Cominciò a tremare. “Potrebbe essere in pericolo, potrebbe essere ferito, e spaventato, e solo. Non...” Una fitta di terrore gli stritolò il cuore, un crampo di dolore esplose nel petto e lo paralizzò, ghiacciandogli la mente. Italia si portò una mano alla bocca, trattenne a stento i singhiozzi. “Non dovevamo separarci.” Strinse l’altra mano fra i capelli.

Rivide le ferite che gli corrodevano il corpo, i segni scuri e profondi degli spari, le macchie di sangue che si allargavano e che gocciolavano a terra, la pelle bianca, le labbra grigie, quasi bluastre, bagnate dalla neve, e gli occhi vitrei e larghi, rivolti su un punto indefinito sul terreno. Il viso però non era il suo. Era quello di Romano.

Italia premette con più forza la mano bendata contro la bocca. Strinse le palpebre trattenendo le lacrime negli occhi. “È tutta colpa mia.”

Il capitano lanciò un’occhiata all’indietro da sopra la sua spalla. Incrociò lo sguardo con l’ufficiale piegato sulla radio. L’ufficiale sollevò le sopracciglia, piegò di scatto il capo due volte e indicò Italia. Il capitano restrinse di poco il labbro inferiore e annuì debolmente. Si avvicinò di poco a Italia, tenne i gomiti piegati sulle ginocchia, i pugni chiusi, e sollevò lo sguardo.

“Quali sono i suoi ordini, signore?”

Italia sbatacchiò le ciglia. Occhi ancora smarriti e lucidi di panico si velarono di una nebbia appannata che li rese vacui e confusi. Guardò anche lui l’ufficiale alla radio – era tornato a voltarsi – e di nuovo il capitano. Continuava a non capire. “Ordini?” domandò con vocina flebile.

Il capitano annuì. “So che ci troviamo in una situazione critica, ma ormai dubito che i greci vorranno accettare una qualche condizione di pace. Quindi, le ipotesi sono due.” Sollevò una mano svelando l’indice alzato. Lo portò davanti al viso. “O ci ritiriamo,” sollevò anche il medio, diede alle dita una forma a V, “o continuiamo ad avanzare.” Abbassò la mano e strinse entrambi i pugni sulle ginocchia. Divenne rigido come pietra, occhi freddi e voce seria, in tensione. “Attendo gli ordini.”

Italia guardò di lato. Gli occhi caddero su un suo braccio bendato che giaceva sulla coperta di lana cotta. Le ferite bruciavano sotto le fasce, la pelle pizzicava, la carne pulsava ritmicamente assieme al battito del cuore.

“Ritirarci?” mormorò Italia.

Tornò con il viso immerso nel fango, con la pancia tra le rocce, con i capelli nella sporcizia, e con la neve stesa sul corpo come un sudario. Grecia accovacciato vicino a lui, gli occhi calmi e sinceri lo guardavano da sotto i capelli bagnati, e la voce lenta e profonda mormorava nel silenzio. “Richiedi un armistizio. Io lo accetterò.” Il brivido di paura che era nato in fondo alla schiena di Italia quando Grecia si era avvicinato a lui era ancora intatto, pizzicava alla base del collo.

Un armistizio?

“Ehm.” Italia strinse le dita sulla coperta. “Capitano, in realtà, io...”

Il capitano piegò un sopracciglio. Scoccò a Italia un’occhiata di attesa, incuriosita.

Italia stropicciò le dita sulla coperta di lana, guardò a terra, sfregò un piede contro la caviglia della gamba opposta, e sentì nascere un fastidioso formicolio in fondo allo stomaco. Si pizzicò il labbro inferiore. Le mani che stringevano la lana cotta sudavano già.

“Io dovrei dirle una cosa. Una cosa che mi ha...” Deglutì, non scese nulla, e la lingua si incollò al palato. “Che mi ha propost –”

“Ah, ce l’ho fatta!” esultò l’ufficiale alla radio.

Italia si sporse di lato.

Il capitano voltò il capo all’indietro. Corrugò la fronte. “Cosa?”

L’ufficiale non lo ascoltava. Le dita su una manopola che regolava le lancette di un quadrante, e l’altra mano attorno al ricevitore a forma di telefono schiacciato contro l’orecchio.

“Qui Divisione Julia, Battaglione Tolmezzo. Qui Divisione Julia, Battaglione Tolmezzo. Mi ricevete? Passo.”

Fischi e suoni insabbiati fecero spostare la lancetta da sinistra a destra, per poi stabilizzarla al centro.

Il capitano si alzò dalla cassa di munizioni vuote, seguito dallo sguardo smarrito di Italia, e attraversò l’interno della tenda, arrivando alle spalle dell’ufficiale. “Hanno risposto?” Un sospiro d’ansia gli attraversò la voce.

L’ufficiale strinse tutte e due le mani sulla cornetta, avvicinò la bocca al rigonfiamento inferiore e stridette un lamento prossimo al pianto. “Vi prego, signori, venite a salvarci!” implorò con occhi gonfi di panico.

Il capitano gli rifilò una sberla sulla nuca e digrignò i denti. “Riprendi il controllo.”

L’ufficiale abbassò il ricevitore da davanti il viso, si massaggiò il capo, a sguardo colpevole come un cane, e il capitano gli sfilò la cornetta dalle dita.

“Mostra un minimo di contegno,” gli disse con voce più bassa.

Poggiò la cornetta all’orecchio, si schiarì la voce. “Divisione Julia, vi riceviamo, passo.”

Italia si sporse ancora un po’. Fece strisciare una gamba sotto la coperta, il piede bendato uscì dal calduccio e si pietrificò sotto l’immediata ondata di freddo. La gamba di Italia irrigidì, le bende sfregarono sulla pelle d’oca, e tornò a scendere. L’alluce toccò terra. Nessuna scossa di dolore, niente fitte ai muscoli, niente morsicate alle ossa. Italia trasse un flebile sospiro di sollievo, e piegò il capo di lato. Si accigliò concentrandosi sulla schiena del capitano chino sull’apparecchio radio.

Il capitano annuì. “Sissignore,” disse all’apparecchio.

La lancetta di uno dei quadranti oscillò. Tornò immobile, e il capitano scosse il capo.

“No, nossignore.”

L’ufficiale che aveva fatto partire la comunicazione compì un passetto in disparte, si mise di fronte alla parete bianca della tenda. Giunse le mani davanti al petto, in preghiera, abbassò la fronte, chiuse gli occhi, e mormorò qualcosa dalle labbra a sfioro delle nocche.

Il capitano tornò ad annuire. “Sì.” Indurì il tono di voce. “Sì, non si preoccupi.”

Un brusio più chiaro e scrosciante fece eco tra le pareti di tela della tenda. Riempì il silenzio ovattato dallo strato di neve esterna.

La voce del capitano spezzò il silenzio.

“Nossignore.”

Il capitano gettò l’occhio verso Italia, da sopra la spalla.

Quando i loro sguardi si incrociarono, Italia emise un piccolo sussulto e sobbalzò sul letto. Divenne rigido, trattenne il fiato. Tirò su la coperta fino al petto come se gli avessero strappato via i vestiti di dosso davanti a tutte le armate.

Il capitano sollevò le sopracciglia e annuì al ricevitore premuto sul suo orecchio. “Proprio qualche minuto fa, signore.” Gli occhi tornarono ai quadranti e alle manopole. “Sì. Immediatamente, signore.”

Si girò, il ricevitore a forma di cornetta fra le mani, e la fronte bassa. L’ufficiale che si era ritirato in disparte sciolse le dita giunte in preghiera, sbarrò gli occhi colmi di aspettative, e socchiuse le labbra come per dire qualcosa al capitano. Non uscì un singolo fiato dalla sua bocca.

Il capitano prese un respiro di incoraggiamento, trattenne l’aria. Le mani attorno al ricevitore sbiancarono, le braccia furono attraversate da un lieve tremito, e il rapido passaggio di una sagoma alle sue spalle lo mise in ombra per un istante.

Sollevò gli occhi, li rivolse a Italia. Occhi tesi e infossati.

“Signore.”

Italia deglutì un boccone amaro. Le mani strinsero sull’orlo della coperta, la tennero avvolta attorno al busto. Italia sentì il battito del suo cuore pulsargli nelle orecchie, il viso si fece bianco, fitte ombre nere cerchiarono le orbite degli occhi.

Lo sguardo del capitano tornò più morbido e disteso. Guardò Italia come quando si era svegliato, qualche minuto prima.

“Ce la fa ad alzarsi in piedi?”

Italia schiuse la bocca secca. “S...” Batté i denti. Freddo e paura si mescolavano nel suo cuore, gli riempivano il petto di un gelido vortice di dolore. “Sì,” sibilò. La punta dell’alluce scese verso il suolo della tenda. Il piede premette la pianta che si congelò subito, scaricando brividi di freddo lungo tutta la gamba. Italia strinse i denti ma fece scivolare dal letto anche l’altro piede. Annuì a occhi bassi. “Penso di sì.”

Avvolse la coperta di lana attorno alle spalle, le bende fasciate e rigide attorno agli arti fecero resistenza. Italia si mosse lentamente e con piccoli gesti, a passetti minuscoli, per paura di scioglierle. Rimboccò l’imbottitura di lana attorno al collo, strinse gli orli come un mantello, e avanzò silenzioso come un fantasma.

Il capitano gli tese il braccio che impugnava il ricevitore. Guardò Italia negli occhi. Lo sguardo dell’uomo trasmise una luce di compassione e tristezza che gli strinse il cuore.

“Si faccia coraggio, signore.”

I grandi e vacui occhi di Italia, ancora grigi e lucidi, bordati di nero, ruotarono dal viso del capitano verso il ricevitore impugnato dalle sue dita. Sbatté piano le ciglia. Quando le riaprì, l’ombra attorno alle orbite si era fatta ancora più scura e scavata nel bianco cadaverico della pelle.

Il respiro accelerò. I polmoni fecero male per lo sforzo, i muscoli irrigidirono come blocchi di marmo, il sangue raggelò, brividi ghiacciati percorsero l’interno della pelle come lunghe file di formiche. Il braccio del capitano che impugnava il ricevitore si sdoppiò, le due sagome appannate si separarono, tornarono unite, e Italia riprese a sentire il rumore sibilante e sofferto del suo stesso respiro.

Dice che devo farmi coraggio perché...

Calpestò un ultimo passo. La coperta ondeggiava attorno alle caviglie fasciate di bianco, vene bluastre emergevano gonfie e pulsanti da sotto la pelle che si era fatta bianca e sottile come carta.

Italia continuò a guardare il ricevitore.

I fori neri si allargarono. Buchi bui, profondi. Trasmisero una scossa di paura che percorse la schiena di Italia da cima a fondo.

Perché forse quello che vogliono dirmi è che...

Una violenta e improvvisa ondata di lacrime brucianti gli gonfiò gli occhi. Il peso risalì dal petto dove ristagnava, fluì lungo le guance, bruciò gli zigomi facendoli diventare due macchie rosse nel bianco, e riempì le palpebre già nere e gonfie.

La voce nella sua testa stridette un sottile lamento di sofferenza.

Che Romano è morto?

Il braccio del capitano gli mise il ricevitore davanti al petto. L’eco della sua voce rimbombò nelle orecchie.

“Li convinca a venire qua, signore, la prego.”

Le lacrime tornarono assorbite dentro le palpebre spalancate. Gli occhi scintillarono. Un fioco bagliore di speranza percorse il profilo delle iridi nocciola, morì inghiottito dalle pupille che tremolavano nel bianco dell’occhio.

Un soffio caldo e piacevole carezzò il cuore, sciolse il laccio di paura che lo teneva stretto e soffocato.

Italia socchiuse la bocca. Guardò il ricevitore, e di nuovo il capitano.

“È...” Non riuscì a finire la frase. Il nome di Germania sembrava troppo irreale da pronunciare, troppo bello per essere vero.

Il capitano annuì e passò il ricevitore nelle mani di Italia. Era caldo a forza di essere stretto dai due ufficiali. “Siamo qui vicino a lei, signore.” Chiuse le dita di Italia attorno alla cornetta, gli rivolse nuovamente quello sguardo compassionevole e teso, e gli toccò una spalla. Un misero gesto di incoraggiamento. “Si faccia forza.”

Italia tornò a occhi bassi.

Dietro i fori del ricevitore c’era Germania.

La carezza di sollievo che aveva sfiorato il cuore si ritirò. Il petto tornò a gelare, una scossa di paura passò lungo il braccio e gli fece stringere le dita attorno alla cornetta. Le nocche che emergevano dalle bende divennero bianche, le vene salirono in rilievo sulla pelle bianca e sottile.

Si arrabbierà.

Italia socchiuse gli occhi. Trattenne il respiro. Il ricevitore pesava, stretto nella mano, gli faceva tremare il braccio.

Si arrabbierà moltissimo, ma...

Inspirò dal naso. Un respiro forte e lungo, come gli aveva insegnato il nonno, e trattenne tutto nello stomaco.

Nella mente, si vedeva già a capo basso, sguardo in mezzo ai piedi, dita giunte davanti al grembo. Il suo minuscolo corpicino piegato di vergogna davanti ai rimproveri di Germania.

Non posso scappare anche davanti a lui. Non voglio scappare anche davanti a lui.

Italia sollevò il ricevitore della radio. Occhi chiusi, aria bloccata nel petto, corpo rigido e cuore fermo. Lo premette sull’orecchio, schiacciando qualche ciocca di capelli, e sentì una piccola scossa trasmettersi al padiglione. “P...” La bocca tremò. La voce che uscì era simile a un singhiozzo. Italia inspirò di nuovo. Un violento tremito di paura si arrampicò su per i piedi e percorse tutto il corpo. Calmo. Sta’ calmo. Rilasciò la tensione. “Pronto?”

“Ita, stai bene?”

Italia spalancò gli occhi bordati di nero.

Il cuore fece una capriola nel petto, un sentimento di sollievo sciolse tutto il peso che si era accumulato nello stomaco.

Quella voce aspra e graffiante non era mai stata così morbida e così di conforto.

“Pru...” Italia scollò il ricevitore dall’orecchia, lo portò davanti agli occhi. Stese un largo sorriso di speranza, e lo sguardo brillò di gioia, circondato da spruzzi di scintille dorate. Lacrime cristalline tornarono in bilico tra le palpebre. “Prussia?”

 

.

 

Prussia fece scivolare il ricevitore dalla spalla e guardò direttamente nei fori della cornetta. Restrinse le sopracciglia e contenne il tono velato dall’ansia. “Ita, stai bene? Sei ferito?” Strinse la mano contro il ricevitore, le unghie graffiarono la plastica, e la voce si inacidì. “Che t’ha fatto quel bastardo?” Gli occhi rossi si accesero come lanterne nell’ombra della camera sotterranea.

“Prussia!”

La vocina di Italia squillò come quella di un bambino che ritrova la mamma dopo averla persa in mezzo alla folla del mercato. Prussia dovette staccare il ricevitore dall’orecchio per non finire assordato.

“Prussia, Prussia, sei tu?” Sottili singhiozzi si alternarono agli squittii. Italia tirò su col naso, emise un lamento ondeggiante, la voce si imbevette di lacrime gocciolate sui fori della sua trasmittente. “Come sono contento,” altro singhiozzo, “di,” il respiro appesantito dal pianto scricchiolò nella comunicazione, come se la linea fosse sgranata, “risentire,” ingollò un boccone di lacrime, “voce...” Pianse come un bambino, singhiozzando e tossicchiando. Il suono insabbiato della chiamata ondeggiò. Le mani di Italia tremavano, non riuscivano a tenere fermo il ricevitore contro la guancia.

Prussia inspirò un lungo sospiro di sollievo. Chiuse le palpebre, gli occhi tornarono quieti come fiammelle a cui hanno tolto il gas dal fornello, e stese un sottile sorriso di conforto. “Be’, se piangi è già un buon segno.” Riaprì le palpebre e roteò gli occhi verso il soffitto. Il mezzo ghigno rasserenato sempre lì. “Almeno non sei morto.”

Qualcuno tossicchiò nell’ombra della camera, alle spalle di Prussia che era in piedi davanti al vecchio apparecchio radio. Si rischiarì la voce bassa e profonda.

Prussia si voltò tenendo il ricevitore all’orecchio e attorcigliando il cavo della radio attorno alle spalle. Incrociò lo sguardo di Germania, luminoso e gonfio di interrogativi, che lo fissava dal buio. Germania avanzò con la punta del piede di un minuscolo e timido passetto in avanti, fece tamburellare le dita strette sugli avambracci allacciati al petto, e stropicciò la fronte corrugata in una piega d’ansia. Sollevò il mento, indicò la radio. Gli occhi guardavano ancora Prussia. Prussia alzò una mano, il palmo rivolto verso il basso, e gli fece cenno di aspettare.  

La vocina di Italia riemerse dalla sgranatura della connessione. “Ho avuto tanta...” Tirò su aria dal naso, singhiozzò due volte, fece vibrare il ricevitore premuto sull’orecchio di Prussia. “Tanta paura,” si lamentò. E scoppiò di nuovo in lacrime.

Prussia resse il ricevitore con entrambe le mani, srotolò il cavo di gomma grigia aggrovigliato attorno alle sue spalle, e rivolse di nuovo lo sguardo ai pori neri, come se avesse Italia là davanti. “Che cos’è successo, Ita?” gli chiese con tono più fermo. Aspettò che il pianto di Italia cessasse, che gli tornasse il respiro limpido e regolare, e indurì la voce. Un’ombra di severità si stese sul suo viso, gli scurì le palpebre. “Che ti è saltato in testa di fare una cosa così pericolosa? Potevi anche morire, lo sai?”

Dall’altro capo della radio si alzò un suono di sfregamento. Italia si stava strofinando una mano sugli occhi, sulle guance, e sotto il naso. “Scusa,” mugugnò con voce impastata dalle lacrime.

Prussia sospirò di nuovo. Quella voce gli strinse un nodo al cuore, e un germe di compassione crebbe in mezzo al petto. “Sono giorni che proviamo a contattarvi,” disse Prussia. “Hanno già fatto saltare tutto?”

“Credo di sì. Mi hanno detto che è anche...” Italia farfugliò qualcosa tra le labbra. “È anche colpa della pioggia.”

Prussia lasciò ciondolare il capo fra le spalle, ciuffi di capelli ricaddero davanti agli occhi. Sollevò la mano che non reggeva la cornetta e se la posò sulla fronte. Strinse le tempie, le massaggio. “Aah, Benedetto Fritz.” La voce non nascose la punta di sconforto e delusione. Prussia ruotò gli occhi verso la parte inferiore del ricevitore senza scollare i polpastrelli dalle tempie. Arricciò verso il basso un angolo della bocca, infossò piccole pieghe scure nella guancia. “Perché hai attaccato Grecia di proposito, Ita, si può sapere?”

Italia farfugliò qualcosa tra le labbra. Nella sgranatura della connessione, Prussia riuscì a cogliere: “Mi dispiace, Prussia.” Lo vide a capo chino, gli occhi nascosti sotto la frangia castana, il ciuffo arricciato ammosciato sopra la spalla, lo sguardo mortificato e spento che fissava il pavimento.

Prussia lasciò scivolare le dita dalla fronte. Passò il ricevitore da una mano all’altra con un balzo – l’orecchio era diventato caldo e sudato – e lo premette contro l’altra guancia. “Qui siamo tutti preoccupatissimi per te, lo sai?” disse con tono più spronante. Mostrò l’indice alla cornetta. “Ci hai fatto prendere proprio un bello spavento.”

“Uh, anche...” Le dita di Italia si aprirono e strinsero sul ricevitore. Un pizzico di aspettativa fece di nuovo squillare la voce come quella di un bambino. “Anche Germania è... preoccupato per me?”

Prussia sgranò gli occhi. Ingrossò la voce. “Scherzi? West è quello più preoccupato di tutti.” Gettò l’occhio alle sue spalle. Ammiccò con le sopracciglia, lo sguardo scintillò, Prussia si voltò e tese il braccio che impugnava la cornetta verso Germania. “Anzi, già che ci sei, perché non ci parli e gli dici tu di persona che stai be –”

Germania emise un gemito strozzato che lo fece irrigidire come un paletto. Arretrò di un passo tremante, occhi ristretti e vibranti di panico fissarono la cornetta che Prussia gli tendeva, fiato e saliva gli rimasero bloccati in gola facendolo sbiancare. Si morse il labbro per trattenere i borbottii di disappunto, le guance si infiammarono, stesero due chiazze viola sulla pelle impallidita. Germania scosse più volte il capo e incrociò i polsi davanti al petto, tenendo le mani dritte. Continuò a scuotere il capo, arretrò di altri due passetti seguiti dal braccio teso di Prussia.

No, no, no, idiota! Non passarmelo!

Prussia si fermò. Stropicciò le sopracciglia scoccandogli un’occhiata a metà fra l’interrogativo e il disappunto. Scosse anche lui il capo tenendo gli occhi su quelli di Germania e fece ondeggiare il ricevitore.

E perché no?

Lo sguardo di Germania si accese di rabbia. L’imbarazzo ribolliva nello stomaco come un calderone sulla brace fumante.

Germania sciolse i polsi incrociati, rivolse il braccio in orizzontale, sotto la gola, e affettò due volte l’aria. Le labbra sbiancate vibravano sotto la pressione dei denti e dei rantolii di impazienza.

Taglia, ti ho detto!

Prussia spalancò gli occhi, sconcertato, e mostrò i palmi al cielo, anche quello che impugnava il ricevitore. Sollevò una mano e picchiettò due dita sulla tempia. Lo sguardo affogò nell’incredulità. Sei scemo? Abbassò le dita, indurì lo sguardo nero di impazienza, e spinse più volte il polpastrello a indicare il ricevitore. Vieni qua e rispondi!

Germania arretrò di altri due passetti e si mise fra il tavolo centrale e la parete di cemento. Scosse di nuovo il capo. Le guance divennero ancora più rosse, le labbra ancora più faticose da tenere sigillate. Tagliò di nuovo l’aria in due davanti al petto.

No, non passarmelo!

Prussia gonfiò una smorfia di rimprovero, strinse il pugno attorno al ricevitore, aprì il palmo opposto e batté la cornetta dentro la mano, per poi mostrarla di nuovo a Germania in segno di minaccia. Guarda che ti rompo la testa! Abbassò l’indice e lo premette con violenza sull’aria sopra il ricevitore. Sollevò le sopracciglia. Adesso tu vieni qui e lo consoli.

Germania spinse una mano sul tavolo, si sporse verso Prussia, socchiuse la bocca per rispondere alla minaccia, ma una dolce vocina intervenne per lui.

“Prussia?”

Prussia abbassò gli occhi verso la voce di Italia che gli squillò tra le dita. Mostrò un’espressione stupita, come se si fosse ricordato solo in quel momento di avere il ricevitore stretto in mano.

“Prussia,” Italia alzò di poco la voce, “mi senti ancora? Uhm, passo.”

Prussia lanciò un’ultima occhiata di biasimo a Germana e scosse lentamente il capo, piegando una smorfia contrariata. Fece roteare gli occhi al soffitto, sospirò, e rispose continuando a guardare in alto. “Sì, Ita, ti sento.”

“C’è anche Germania lì con te?”

Prussia sbuffò, sollevò un ghigno, e si gonfiò il petto. Mento alto, sorriso da furbo splendente tra le labbra. “Certo che è qui.” Allargò il sorriso fino alle orecchie e lo mostrò a Germania, ammiccando con le sopracciglia.

Germania strinse i pugni sul tavolo, emise un grugnito fra i denti, e divenne scuro attorno agli occhi. Le guance erano ancora rosse di imbarazzo.

“E non...” Italia balbettò. “Non vuole parlare con me?” lo chiese piano, quasi avesse paura della risposta.

Prussia annuì con due energici cenni del capo. “Oh, sì che lo vorrebbe.” Camminò avanti e indietro, facendo schioccare i passi, arricciò una porzione di cavo di gomma grigia attorno all’indice, e si strinse nelle spalle. “Ma vedi, West è stato talmente preoccupato per te che si è mangiato la lingua da solo.”

Germania schiaffò un palmo contro il viso e sibilò un’imprecazione fra le dita. I ribollii di rabbia sfrigolarono nella mano chiusa a pugno contro il tavolo, la voglia di stampare le nocche sul muso di suo fratello cresceva come il rossore sulle guance.

La voce di Italia suonò più sollevata. “Davvero si è preoccupato?”

Prussia annuì due volte. Tenne il petto rigonfio. “Ci puoi scommettere! È preoccupato per te proprio da morire!” Si posò una mano sulla guancia, guardò di nuovo in alto, celando il ghigno malefico che si era allargato come una mezzaluna. “Sapessi, è tutto il tempo che si dispera, e che piange dicendo...” Inspirò a lungo, chiuse gli occhi, inarcò le sopracciglia in una drammatica espressione di cordoglio. “‘Oh, il mio caro Ita! Se fossi là con lui lo abbraccerei tutta la notte, e lo spupazzerei riempiendolo di sbaciucchi fino a che –’”

Germania si gettò con la pancia contro lo spigolo del tavolo e allungò di scatto le braccia verso Prussia. “Nein!” Si strinse le mani fra i capelli, il viso tornò a sbiancare come una maschera di farina.

Germania scivolò lungo il bordo del tavolo, pestò una corsa di due passi verso Prussia e tese le mani piegate a forma di tenaglia.

“Tu, razza di – dammi il ricevitore!”

Prussia sghignazzò una risata. Piegò le spalle in avanti, resse il ricevitore con due mani contro il petto, e schivò l’assalto di Germania. Passò sotto le braccia del fratello che si erano chiuse come una forbice. Germania perse l’equilibrio per la frenata improvvisa e dovette reggersi contro i pannelli della radio. Si voltò di scatto, caricò di nuovo la corsa spingendo sui muscoli delle gambe, e si buttò contro Prussia trattenendo un gemito di rabbia fra i denti stretti.

Prussia rise ancora. Saltellò all’indietro e tese il braccio del ricevitore verso il soffitto, portandosi dietro il cavo. Sbatté i fianchi contro il tavolo, spinse la mano libera contro la spalla di Germania, facendolo tentennare lontano da lui, e scivolò a sedere sopra il banco. Rotolò e atterrò dall’altro lato. Germania lo aveva già raggiunto, il viso nero di rabbia puntava la cornetta stretta tra le mani dell’idiota.

Prussia si impennò sulle punte dei piedi, fece piccoli saltelli, arretrando a ogni passo che Germania compiva verso di lui. Germania fece un balzo, tracciò un arco con il braccio e sfiorò il ricevitore.

Prussia lo passò da una mano all’altra.

“Destra, sinistra!”

Germania saltò di nuovo e tornò a mancarlo.

Prussia gracchiò un’acida risata di vittoria e gli spinse la mano contro il viso.

“Who, sbagliato, West!”

Corse attorno al tavolo, Germania lo inseguì passando sotto il cavo di gomma e compirono tre giri sbilanciandosi verso l’orlo di legno. Germania si teneva in equilibrio facendo strisciare la mano sulla superficie del banco, accompagnando la corsa. Prussia rideva come un monello che scappa dopo aver rubato un sacchetto di caramelle dall’emporio di dolciumi. A Germania si gonfiò una vena in fronte che pulsò sopra la tempia.

Germania piantò i piedi a terra, frenò la corsa, si voltò di scatto, nella direzione opposta, e aspettò. Prussia gli piombò davanti. Le braccia ancora alzate e il cavo che penzolava sulla spalla. Germania piegò un gomito contro il fianco, serrò il pugno, stese il braccio. Un ultimo gemito di rabbia accompagnò il colpo che centrò lo stomaco di Prussia, dal basso verso l’alto.

Prussia raggelò. Il ghigno di scherno si capovolse, e gli occhi sbordarono dalle palpebre. Sputò un lamento. “Ghu!” Si paralizzò per il dolore che era esploso come una bomba in mezzo alla pancia.

Germania scollò le nocche dal ventre di Prussia che si era indurito per resistere al colpo, aprì il palmo e raccolse il ricevitore che era scivolato dalle dita tremolanti del fratello.

Prussia si piegò come un fuscello sotto il vento, si aggrappò all’orlo del tavolo, e allacciò il braccio libero attorno allo stomaco. “Non valevano i pugni,” mugugnò tra un conato di dolore e l’altro.

Germania lo afferrò per il colletto della giacca, lo sollevò da terra come un cucciolo di gattino, e lo trascinò verso la porta. La spalancò con una pedata, l’anta sbatté sul muro, e poi stampò la suola dello stivale sul fondoschiena di Prussia.

“Vattene fuori!” Riagguantò la porta per il pomello, le dita sembrarono fondere l’ottone sotto la presa, e la sbatté contro lo stipite. “E restaci!”

Slam!

La parete vibrò. Una crepa a forma di saetta risalì il muro e sbriciolò scaglie di intonaco che piovvero sul pavimento come neve.

Germania guadagnò due respiri affannosi, le pieghe di rabbia si distesero lentamente attorno alle palpebre e sulla fronte, le macchie rosse tappezzate sulle guance sbiadirono, si ritirarono. I tremolii di irritazione che gli scuotevano il corpo si placarono assieme al respiro che passava fra i denti.

“Prussia? Germania?”

Germania sobbalzò. La voce di Italia proveniente dall’interno della sua mano fu come una scossa improvvisa che gli pizzicò il palmo in cui era stretto il ricevitore. Germania guardò in basso, schiuse lievemente le dita.

“Pronto?” Ci fu un piccolo sfrigolio. “Siete ancora lì?” Una nota di preoccupazione scosse la voce di Italia.

Germania sospirò, chiuse gli occhi, tornò a stringere le dita attorno alla cornetta, e raccolse il coraggio nel petto fino a sentire il cuore bruciare. Il braccio tremò assieme al suo respiro, brividi di timore gli scossero la schiena, gli strinsero lo stomaco.

Sollevò il braccio, accostò il ricevitore all’orecchio e ci ripensò. Tornò ad abbassare la cornetta, si voltò di profilo arrotolandosi nel cavo di gomma grigia, passò il ricevitore da una mano all’altra, lo fece oscillare, guadagnò un altro lungo respiro di incoraggiamento, e lo premette sulla guancia. Parlò subito, prima di cambiare idea.

“Italia?”

La vocina familiare gli squillò nelle orecchie. “Germania!”

Germania socchiuse la bocca, fece per dire qualcos’altro. Il pianto di Italia tornò a salire come una risacca del mare in tempesta.

“Credevo...” I singhiozzi si alternarono a lunghe ondate di pianto che salivano e crescevano come il moto di una marea. “Credevo che non ti avrei mai più...” La frase si perse in un mugugno confuso bagnato dalle lacrime che erano precipitate sui pori della cornetta.

Germania fece roteare gli occhi al soffitto e liberò con un sospiro la tensione raggrumata nel petto come un gomitolo. Italia piangeva: stava bene.

“Come stai?” gli chiese. “Sei ferito?”

Italia tirò su col naso. “Oh. Sono...” Si sentì il suono delle dita che sfregavano sugli occhi e sulle guance. “Sono solo un po’ ferito. Non... non mi fa tanto male, sul serio.”

Germania inarcò un sopracciglio. Il sollievo svanì, soffiato via da una ventata di preoccupazione. Rivolse gli occhi al ricevitore incollato alla guancia. “Ti sei già battuto con Grecia?”

Italia farfugliò qualcosa prima di rispondere. “Sì.”

Germania aggrottò le sopracciglia, si aggrappò con una mano al bordo del tavolo. “Sei riuscito a bloccare l’avanzata?”

“No.” Italia rispose con tono abbattuto. “Abbiamo combattuto, poi...” Si rimangiò le parole, come se si fosse morsicato il labbro. Qualcosa scricchiolò. Italia stava giochicchiando con il cavo del ricevitore, aggrovigliandolo attorno alle dita. “Poi sono svenuto.”

Germania sentì una morsa di dolore affondare nel cuore. Scacciò via dalla mente l’immagine del corpo di Italia, ferito e inerme, che giaceva tra le rocce immerso nel suo stesso sangue che gocciolava dagli arti e dalla fronte, impregnando i capelli e i vestiti.

“Mi dispiace,” mormorò Italia. “Non...” Sospirò. “Non ce l’ho fatta,” disse, mortificato.

Germania si strinse la fronte fra le dita. Stropicciò palpebre e tempie con piccoli movimenti circolari dei polpastrelli, e lasciò che il sollievo di sentire la sua voce, di sapere che fosse vivo, allontanasse l’immagine che gli era passata davanti agli occhi e che aveva morsicato il cuore. “Non importa.” Era sincero. “L’importante adesso è che tu stia bene.”

Italia mugugnò come se avesse annuito.

Germania fece un piccolo passetto di lato, sistemò il ricevitore contro l’orecchia, e un pensiero improvviso gli trafisse la testa. Tornò a guardare l’estremità della cornetta, e parlò con tono calmo, nascondendo la punta di agitazione che gli pizzicava il petto.

“Dov’è Romano?”

Italia non rispose. Dall’altro capo della connessione cadde il silenzio come se avessero tagliato la linea. L’aria divenne gelida, soffiò attraverso i pori della cornetta e avvolse l’orecchio di Germania.

Germania cambiò guancia.

“Italia.” Lo richiamò con tono fermo. “Italia, rispondimi. Dov’è Romano?” Strinse la presa sul ricevitore, la plastica scricchiolò. Pieghe più scure e tese annerirono lo sguardo di Germania. “Dov’è tuo fratello?” insistette.

Italia socchiuse la bocca, fece passare un filo d’aria tra le labbra, e raccolse la forza di tirare fuori la voce. “Non...” Stridette un lamento pietoso. Quando tornò a parlare, la voce era soffocata. Aveva premuto la mano davanti alla bocca per contenere il pianto. “Non lo so. Ci siamo...” Piccoli singhiozzi fecero rimbalzare la limpidezza della connessione. Il suono tornò sgranato. “Ci siamo separati prima di partire e,” altro singhiozzo, “e non,” Italia si strofinò la punta del naso con il fianco della mano, “non l’ho più visto. Non riusciamo a trovarlo.” Pianse ancora e riuscì a calmare il tono. “Io volevo andare da lui ma non me l’hanno permesso.”

Germania sospirò, sconsolato e irritato.

Li stanno ancora tenendo separati? Cosa aspettano a farli riunire?

“Va bene,” disse con tono paziente. “Ascoltami, non ti agitare.” Germania acquietò il tono di voce, lo fece suonare più morbido e rassicurante possibile. “Ho parlato io con Romano un paio di giorni fa e stava bene.”

“S... sul serio?” Il pianto di Italia si ritirò. L’onda tornò nel mare. “Non è ferito?” esclamò. “Non gli hanno fatto niente, vero?” La voce suonò più forte, come se Italia avesse avvicinato le labbra al ricevitore.

“No.” Germania scosse il capo. “Stava bene,” disse, ricordando tutto il fiato sputato per gli insulti. “Poi però le comunicazioni sono di nuovo saltate fino a oggi, e non ho più avuto altre sue notizie. Probabilmente è perché si è addentrato ancora più a fondo verso la linea Elaia-Kalamas, e adesso è irraggiungibile.” Aggrottò le sopracciglia, rivolse uno sguardo di rimprovero al ricevitore premuto fra la spalla e la guancia. “In tutta sincerità, speravo che voi foste già riusciti a ricongiungervi. Non va bene che siate separati in questa maniera.”

“Lo so,” piagnucolò Italia. “Ma non...” Quando singhiozzò di nuovo, Germania pensò che fosse saltata la linea. “Io...” Il pianto tornò ondeggiante e lamentoso. “Ho paura, Germania. Io ho...” Italia spinse la mano contro la bocca e annaffiò di lacrime gli spazi tra le dita. “Ho sbagliato tutto.”

Sbagliato...

Nell’udire quella parola, Germania sentì l’irritazione ridiventare rabbia fluida che corse attraverso le vene fino a raggiungere il cuore. Un sapore amaro gli riempì la bocca. Germania arricciò verso il basso gli angoli delle labbra e aggrottò la fronte. Il tono cupo e inflessibile.

“Sì, esattamente.”

Italia restò in silenzio, come se non avesse capito.

Germania raddrizzò le spalle, gonfiò il petto all’infuori, e sollevò il mento. Strinse le sopracciglia accendendo gli occhi di un abbaglio furente. Guardò i pannelli e i quadranti della radio, specchiandosi sulle superfici lucide e trasparenti. “Hai commesso un errore gravissimo, Italia. Te ne rendi conto?”

Italia sibilò qualcosa. La voce mugugnò una sillaba a tono più alto e tornò muta, rimangiata in fondo alla gola.

Germania scoccò una severa occhiata di biasimo alla cornetta che stringeva tra l’orecchio e la mano. “Non hai messo in pericolo solo te stesso, ma anche Romano, i tuoi soldati, il tuo popolo.” Inspirò. Abbassò il volume, ma il tono nero e grave della sua voce avrebbe saputo sbriciolare una roccia. “Come pensi che dovrei comportarmi ora nei tuoi confronti?”

Italia sussurrò qualcosa. “Sei...” Si sfregò la mano sul viso. Nella mente di Germania si aprì la sua immagine china davanti alla radio. Orecchie basse e coda fra le gambe. Gli occhi che non osavano sollevarsi da terra. “Sei arrabbiato con me?”

Germania chiuse gli occhi sotto le sopracciglia corrugate. Non fu facile, ma decise di dire la verità. “Sì.” Secca e dura. La scagliò come il pugno che aveva centrato prima lo stomaco di Prussia. “Sì, Italia, sono arrabbiato con te.” Riaprì gli occhi ardenti di rabbia, li rivolse di nuovo al ricevitore. “Sono molto arrabbiato. Sono arrabbiato con te e deluso dalle tue azioni.” Sospirò, riprese fiato. Le pieghe della fronte si rilassarono lievemente. Ora era lui quello a mostrare sguardo sconsolato. “Tu mi hai profondamente deluso, Italia.” Le sue stesse parole lo ferirono al cuore come la lama di un coltello liscio e ben affilato che trapassa il petto. “Dopo tutto quello che ti avevo detto e di cui avevamo discusso, dopo che mi ero raccomandato così tanto, non posso credere che tu ti sia comportato come se le mie parole valessero meno di niente.”

La voce di Italia tentennò. “Mi dispiace.” Di nuovo scossa dal pianto trattenuto fra le orbite.

Germania scosse il capo. “Scusarsi ora non serve a nulla.”

“Io non volevo farti arrabbiare,” squittì Italia. “Volevo solo...” Rimuginò. “Volevo solo che tu...” Il pianto tornò a inondare la linea come un flusso d’acqua che strabocca da una diga. “Ti prego, anche...” Singhiozzò. “Anche se non vuoi perdonarmi, non importa. Anche se adesso mi odi, mi sta...” La voce suonò più impastata, assorbita dalla mano premuta contro la bocca e contro gli occhi. Italia deglutì. “Mi sta bene, so che me lo merito, ma ti prego...”

Germania sollevò un sopracciglio.

Italia inspirò. “Ti prego, vieni a salvare Romano.” Non piangeva più. “Almeno lui...” La connessione scricchiolò. Italia aveva stretto troppo il ricevitore nella presa. “Ti prego, non voglio che gli facciano del male per colpa mia.”

Germania socchiuse gli occhi, corrugò la fronte. “La responsabilità è tua, Italia,” disse, freddo come un cubetto di ghiaccio. “Ti avevo avvertito di non fare di testa tua, ma tu mi hai disobbedito. Se adesso ti trovi nei pasticci è una tua responsabilità, e anche ciò che capiterà a Romano sarà colpa tua.”

Il pianto oscillante di Italia emise l’ultimo singhiozzo che suonò come un piccolo colpo di tosse.

Germania gettò lo sguardo in disparte, sperando di allontanarsi dal dolore al petto che gli provocava sapere Italia in pericolo e lontano da lui. “Dovrai...” Rilassò il tono. La luce furente degli occhi si abbassò, ma il viso rimase scuro e in ombra come la sua voce. “Dovrai saperne uscire da solo, Italia.”

“Non...” Italia stridette un lamento di supplica che avrebbe sciolto anche un cuore fatto di piombo. “Non vieni ad aiutarmi?”

Germania strinse un pugno, strizzò le palpebre. Resistette. “No,” disse, fermo. “La situazione è gravissima, Italia. Più grave di quanto immagini. E non posso mettere in pericolo i miei uomini per un tuo errore.” Socchiuse gli occhi e scorse i pannelli della radio con lo sguardo. “Se proprio non ce la farai, allora forse potrò soccorrerti, ma non ora.”

“Quando?” esclamò Italia, implorante. “Quando vieni a prendermi?”

“In primavera.” Germania si voltò e poggiò i fianchi contro il ripiano della radio. “Tu cerca di resistere e, se non sarai ancora riuscito a vincere, allora in primavera forse ti aiuterò.” Rabbuiò il tono. Gli occhi tornarono ad accendersi in mezzo al nero come due spirali di ghiaccio. “Sappi però che non lo faccio per te, ma solo per salvaguardare il bene e l’onore dell’Asse.” Alzò di poco la voce. “Non ti meriteresti il mio aiuto, sono stato chiaro?”

Sentì Italia mordersi il labbro dall’altro capo della linea.

“Sì,” rispose, docile.

Germania annuì. “Rifletti sui tuoi errori, e cerca di imparare qualcosa, nel frattempo. Mi hai capito?”

La linea sgranò per un istante. “Sì.” Il tono di Italia era identico a prima.

Germania guardò a terra. “Fatti forza,” gli disse. Cercò di sembrare il più rassicurante possibile e scaldò il tono di voce. “Io cercherò di tenerti d’occhio da qui, intanto. Se la situazione si farà più grave, allora forse verrò a soccorrerti.” Sollevò la fronte. Viso solenne. “Considerala come una lezione da imparare. Hai capito, Italia?”

“Mhm.” Fu un sussurro così lieve che Germania pensò di esserselo immaginato.

Germania insistette compensando la sgridata. “Non abbatterti,” disse a Italia. “E cerca di andare avanti. Trova Romano, state insieme, non fatevi più separare per nessun motivo.” Rilasciò tutta la tensione dei muscoli e dei nervi in un sospiro. Agitò le dita che non erano strette attorno al ricevitore. Sentì il sangue tornare a fluire sotto la pelle sudata e fredda. “Questo è tutto quello che posso consigliarti.”

Italia gemette. “Sì.”

Una fitta al cuore espanse un raggio di dolore nel petto di Germania.

Germania abbassò lo sguardo e scrollò il capo, scacciando via l’immagine del viso di Italia annaffiato dalle lacrime. “Su, non piangere, fatti forza.”

Italia non rispose.

“Piangere non serve a niente, ormai,” disse Germania. Lasciò scivolare il ricevitore dall’orecchio che pizzicava per il calore della cornetta.

Emise un ultimo sospiro sofferto. “Ciao.”

“Ciao.”

Riagganciò. Girò due manopole sulla radio, e le lancette caddero piatte, svanirono dentro i quadranti a mezzaluna.

Germania poggiò un fianco contro l’orlo del ripiano, si prese il viso tra le mani, massaggiò la fronte pulsante, le palpebre doloranti, e alleviò la pressione che rimbombava contro le tempie. Anche il petto gli faceva male. Un fastidioso groviglio di disagio e malessere si accumulò nello stomaco.

Germania si era già pentito di tutto quello che gli aveva detto.

I cardini della porta cigolarono, il braccio di Prussia accompagnò l’apertura dell’anta verso l’interno della camera sotterranea. Prussia espose il viso ancora pallido e mezzo contorto dal dolore vicinissimo alla porta, come se avesse tenuto l’orecchio incollato tutto il tempo. Il braccio libero massaggiava lo stomaco a lenti e profondi movimenti.

Prussia storse un sopracciglio. “Certo che sai proprio essere un gran bastardo, West.”

Germania lo fulminò con un’occhiataccia di fuoco. “Non ti avevo detto di rimanere fuori?”

 

.

 

Il debole fischio e la caduta della lancetta verso la parte sinistra del quadrante a mezzaluna annunciarono la fine della conversazione.

Italia abbassò lentamente la fonte, permise che i capelli ricadessero sul viso, e lasciò scivolare il ricevitore dall’orecchio, fino a poggiarlo contro il collo avvolto nella coperta di lana. Le labbra tremarono. Gli occhi lucidi e acquosi rimasero nascosti nell’ombra. Gli faceva male il petto. Le parole di Germania avevano aperto una ferita che continuava a pulsare e a bruciare seguendo il battito del suo cuore.

“Sono molto arrabbiato con te e deluso dalle tue azioni.”

Quelle parole fecero più male di tutti i proiettili che gli avevano trafitto il corpo durante la battaglia.

L’ufficiale che teneva le mani giunte al petto si avvicinò di un passetto. “A... allora?” Tese lo sguardo implorante e speranzoso, in cerca di quello di Italia.

Anche il capitano fece un passo avanti. “Signore?” Un fremito di curiosità e impazienza gli attraversò il viso rigido e in tensione. “Vengono a salvarci, signore?” domandò a Italia. “Li ha convinti?”

Italia restrinse le labbra. Scosse la testa senza sollevare la fronte. “No.” Mandò giù il groppo di lacrime che si era accumulato in gola. “Non prima dell’inizio della primavera, ha detto.”

Il capitano spalancò gli occhi. Un lampo di timore balenò tra le palpebre. “Cosa?”

“Ma...” Il secondo ufficiale stropicciò le dita sudaticce nell’intreccio delle mani, il suo sguardo scosso e agitato passò da Italia al capitano. “Ma siamo appena a novembre. Dovrà passare tutto l’inverno. Come...”

Italia posò il ricevitore. Strinse la mano che si era liberata sugli orli della coperta e la chiuse bene fin sotto la gola. Non aveva ancora alzato gli occhi da terra.

“Mi dispiace,” mormorò. Le labbra tremarono assieme alla voce. “È tutta colpa mia.”  Sollevò gli occhi. Occhi lucidi e vacillanti che imploravano perdono da sotto l’ombra della frangia cadente e spettinata. “Scusatemi tutti.”

Raccolse un lembo della coperta che era scivolato dalla spalla, lo rimboccò sotto la gola, e mosse il primo passo verso il letto. Sollevò il piede con un gesto lento, lo trascinò a terra senza staccare la punta.

La voce del capitano alle sue spalle lo bloccò.

“E un armistizio?”

Italia sgranò gli occhi. Sentì un chiodo piantarsi nel cuore e togliergli il fiato. Si voltò.

Il capitano gettò lo sguardo a terra, si strofinò la mano contro la nuca, scompigliando i capelli, e arricciò le labbra come se ci stesse ripensando pure lui. Il viso storto in una piega di conflitto.

“So che sono stato io stesso a negarne la possibilità, prima, ma...” Sollevò gli occhi, li incrociò con quelli di Italia. “Se proponessimo davvero un armistizio ai greci?”

Italia innalzò le sopracciglia. Lo sguardo affogò in un buio oblio che annebbiò la luce degli occhi.

Il capitano si strinse nelle spalle. “Non so se accetterebbero, ma possiamo almeno provarci.” Rilasciò un sospiro, si stava arrendendo. “È la nostra ultima spiaggia.”

Italia serrò le mani bianche e tremanti attorno ai lembi della coperta chiusa contro il petto. Gettò gli occhi a terra, si morse il labbro inferiore, e un brivido di freddo gli risalì le piante dei piedi.

La neve attorno al corpo, la giacca calda stesa sulle spalle, le rocce bagnate di sangue che premevano contro la guancia.

“Richiedi un armistizio,” tornò a proporre il ricordo della voce di Grecia. “E io lo accetterò.”

Italia contenne un gemito di dolore.

Guardando a terra, con la fronte rivolta in mezzo ai piedi, sentì già il peso delle lacrime brucianti traballare fra le palpebre socchiuse e creare un velo di acqua salmastra davanti allo sguardo.

Ho cercato così tanto di sembrare coraggioso e di dare una buona impressione di me...

Strinse le spalle, sperando che la coperta di lana che sfregava sulle bende lo potesse inghiottire e far sparire come in un trucco da prestigiatore.

E ora invece sono già stato battuto. Romano è perso, Germania mi odia, i soldati non si fidano più di me. E se tornerò a casa in queste condizioni tutti sapranno che sono un inutile incapace e un buono a nulla.

Italia strinse i denti, le labbra vibrarono.

Il corpo si fece freddo e rigido, il cuore smise di battere.

“No.”

Il capitano e il secondo ufficiale si guardarono e poi rivolsero a Italia un’occhiata interrogativa.

Italia piegò ancora di più il capo verso il basso. Toccò la coperta con il mento. “No, non voglio.” Scosse il capo. Lo stomaco bruciava e la pressione sul petto era aumentata all’altezza dello sterno. “Io voglio continuare. Anche se ho paura, anche se sono debole...”

Risollevò gli occhi. Due occhi lucidi e gonfi, rossi e bordati di nero, che splendevano come fiamme danzanti sopra due pugni di braci ardenti.

“Non c’è nessuno che crede in me.” Una fitta di dolore gli storse gli angoli della bocca verso il basso. “Né Romano, né Germania.” Strinse le mani nel punto in cui i due lembi della coperta si univano, sotto lo sterno. “Se chiedessimo un armistizio, allora sarei ancora più debole.”

Il capitano scrollò il capo. Fece un passo avanti e gli mostrò un palmo aperto come se gli stesse porgendo la mano. “Ma signore, pensi ai soldati.”

Italia stropicciò il viso. “E nessuno pensa a me?” esclamò. Schizzi di lacrime stillarono dalle palpebre strizzate.

Sia il capitano che il secondo ufficiale svelarono due occhiate perplesse, irrigidite e mute.

Italia abbassò la fronte, si prese le tempie fra le mani, affondando le dita fra i capelli, e scosse il capo più volte. “Non è giusto, non è giusto.” Lasciò scivolare una mano dalle ciocche e la strizzò sopra il cuore, dove faceva più male. Le lacrime sgorgarono limpide e rotonde come biglie di vetro. “Io ho iniziato questa guerra perché volevo solo dimostrare di essere forte e coraggioso, e non riesco a fare nemmeno questo.”

Il capitano e il secondo ufficiale si guardarono. Il capitano storse le sopracciglia, un’ombra di dubbio gli attraversò gli occhi, li rese più scuri, freddi.

Italia inspirò forte. “Io non posso andarm –” Sputò un getto di sangue che gli colò dal mento.

Premette la mano contro le labbra lucide e rosse, sputacchiò altri fiotti fra le dita tremanti, e le scollò dal viso. Gli occhi si allargarono, un’ondata di panico gli raggelò il corpo, lo fece impallidire come una presa di sale.

Italia socchiuse la bocca. “Ah,” sibilò.

Il crampo di dolore allo stomaco lo piegò in due, arrivò come una coltellata. Le ginocchia cedettero, Italia allacciò un braccio attorno alla pancia e tese l’altro verso una parete della tenda, sperando di aggrapparsi. Non ce la fece. Il dolore si espanse a macchia d’olio, lo fece cadere come un burattino al quale hanno tagliato i fili.

Precipitò sui gomiti, la coperta si aprì sopra di lui, e sbatté il viso a terra.

Il rumore della caduta martellò contro il cranio, ovattò le voci dei due uomini che corsero verso di lui.

“Signore?” esclamò il capitano.

Italia sollevò il mento macchiato di sangue e tossì ancora. Altro fluido rosso al sapore del ferro colò in mezzo alle sue dita e si espanse a terra, allargandosi come una pozza di vernice.

I due uomini si inginocchiarono vicino a lui. La mano del capitano gli toccò la spalla tremante.

“Signore, si sente male?”

Italia sentì il corpo diventare caldo e umido, come se fosse passato sotto il getto di una doccia. Guardò in basso. Le bende sulle braccia si chiazzarono di rosso. Le macchie si espansero come fiori scarlatti, tinsero il tessuto bianco, e gocciolarono a terra. Italia guardò indietro. La coperta sopra la sua schiena si stava tingendo di nero.

Socchiuse la bocca. Sibilò. “Le ferite,” lo disse con il tono di chi sta implorando aiuto.

Il corpo ricominciò a tremare, si fece debole, freddo, le palpebre pesanti, e la vista annebbiata.

Il capitano gettò lo sguardo sulle macchie di sangue che gli stavano rivestendo il corpo. “Si sono riaperte,” disse, allarmato.

Italia guardò davanti a sé. Lo sguardo impallidito vacillò di paura. Il cuore martellò in gola, il fiato aumentò, gli fece vibrare il petto. “Non di nuovo.” Tese il braccio in avanti. La mano gocciolava sangue dalle dita e dal palmo. I rivoli rossi scendevano dal braccio bendato. “Ti prego, ti prego, non di nuovo.” Chiazze nere rivestirono la vista. La sabbia scura entrò in testa, tappò l’udito e la voce della sua stessa mente. “Non voglio.” Cadde di faccia. Non sentiva più il peso del corpo accasciato, il calore del sangue, e il freddo della paura.

Se ne stava di nuovo andando.

“Si faccia forza, signore.” La voce del capitano si fece più vicina all’orecchio, ma era come ascoltarlo da dentro una bolla di sapone. “Tenga gli occhi aperti, rimanga sveglio.”

Italia sbatté le ciglia. Le palpebre si riaprirono a metà, gli occhi videro sfocato. Le immagini si sdoppiarono, si storsero, e scie di sangue colarono lungo la fronte.

“Chiama il medico, svelto!”

“Subito!”

Le braccia del capitano gli mossero il corpo. Italia non sentiva il suo tocco, udiva solo il flebile strofinio della coperta macchiata sulle bende già zuppe.

“Non si ferma,” esclamò la voce di panico del capitano. “Perché il sangue non si ferma?”

Italia divise le labbra bagnate di sangue. “Mi dispiace.” Voltò la guancia di lato. Il viso prese a formicolare, le palpebre bruciarono come se ci avessero soffiato sopra un pugno di sabbia. “Mi dispiace...” Lentamente, gli occhi si chiusero. “Tanto.” E Italia non li riaprì.

   
 
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