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Autore: broken dreams    07/03/2016    1 recensioni
"Non sa esattamente quando ha cominciato a sentire quelle voci. All’inizio non riusciva a capire bene cosa dicessero. Erano come il sibilo del vento. Andavano e venivano senza che lei potesse controllarle. Terrore era l’unica parola che potesse spiegare questa sensazione.".
Uno squarcio sulla vita di Alice Longbottom dopo che le torture perpetrate su di lei dai mangiamorte l'hanno portata alla pazzia. Un pendolo che oscilla tra momenti visionari e sprazzi di realtà. Per sempre...
"Questa storia partecipa al psycho!contest indetto da chia_3 sul forum di EFP".
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alice Paciock
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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"Questa storia partecipa al psycho!contest indetto da chia_3 sul forum di EFP".
 
Nick forum e EFP:  TheDisencanted e Broken Dreams
· Prompt: schizofrenia
· Titolo: Mente Divisa
· Rating: Arancione
· Avvertimenti/Note:
 Contenuti forti, tematiche delicate
 
 
 
Mente Divisa
 
 
 
 
 
“sono io seccatore
sono io schernitore
sono io sfruttatore
sono io seduttore
sono io squallore
sono io superiore
sono io il comandante, sissignore
e siamo tutti dentro te”

Schizofrenia, Appino
 
 
 
 
 
 
Pioveva. Lacrime colavano giù dai vetri delle finestre.  Era seduta, si dondolava stringendosi le dita in una sorta di dichiarazione di agonia. Vedeva sangue che colava dalle pareti e tutto puzzava di zolfo.
 
“Non poggiare i piedi a terra, Alice! Ti risucchieranno all’inferno!”.
 
“Aiutatemi! Aiutatemi, vi prego…”.
Stentava a riconoscere la sua voce. Flebile. Più simile a una litania che ascoltava alla messa della domenica mattina insieme a Frenk e a qualcun altro che in quel momento le sfuggiva.
“Aiuto! Voglio uscire da qui! Aiutatemi…V-Vi pr-e-go…”. Singhiozzava. Aveva la netta sensazione che quel qualcuno fosse importante, ne era certa ma gli sfuggiva il motivo. Non riusciva a vederlo con nitidezza tra le spire della sua nebulosa memoria. Era difficile persino concentrarsi, non poteva distrarsi ora. Stavano arrivando. Venivano per lei. Il sangue si allungava sul pavimento come un’ombra al calar del sole. Non aveva scampo. Si guardò intorno, torcendo e allungando il collo al limite del dolore. Tutto era rosso. Una distesa di rosso aveva avvolto la piccola stanza, ricoprendo gli scarni oggetti di decoro e poi quella puzza. Dio l’aria stava diventando irrespirabile, le bruciava la gola e i polmoni reclamavano ossigeno come cani affamati ma lei non poteva respirare. Lei non doveva respirare. Quello era veleno. Il Loro veleno.
 
“Non hai speranze, Alice. Non c’è niente che ti possa esser d’aiuto. Nessuno ti può aiutare”.
 
Non sa esattamente quando ha cominciato a sentire quelle voci. All’inizio non riusciva a capire bene cosa dicessero. Erano come il sibilo del vento. Andavano e venivano senza che lei potesse controllarle. Terrore era l’unica parola che potesse spiegare questa sensazione.
 
“Siamo tutte dentro di te. Noi siamo te”.  
 
Eppure una parte di lei sapeva. Nascosto da qualche parte dentro di lei c’era il fatto scatenante, il vaso di Pandora. Il dolore. Non poteva aprirlo perché ne sarebbe morta. La voce glielo aveva ripetuto spesso e la voce aveva sempre ragione. La voce era la verità.
“AIUTO!!!!”. Il sangue avanzava minaccioso e ora lo poteva vedere attraverso il suo manto denso. Vedeva dei volti, sghisgnazzavano e la indicavano.
 
“Stanno arrivando, Alice. Non puoi farti catturare. Sai come finirebbe…”.
 
Lo sapeva bene. Un’ondata di panico la investì così ferocemente da farla sobbalzare sulla sedia. L’arpionò ancor più saldamente, aggrappandovisi come se ne fosse legata la sua stessa sopravvivenza. Quei volti la fissavano. Schermitori. Superiori. La fissavano e lei si rivedeva nei loro occhi. Rivedeva se stessa in catene e sentiva il dolore attraverso i loro occhi. Gli arrivava dritto al cuore e lei non poteva ribellarsi perché sapeva che era lei stessa la causa e la conseguenza.
 
E’ stata colpa tua, Alice! Tu gli hai permesso di farti questo. E’ tua la colpa e adesso non c’è altra soluzione. E’ solo colpa tua e c’è solo un modo per far sì che questo finisca. Un unico modo…”.
 
Quei volti non se ne sarebbero mai andati. L’avrebbero perseguitata fino a che avesse esalato l’ultimo respiro. Chi avrebbe potuto aiutarla? Chi avrebbe combattuto con loro se non riuscivano a capire? Come avrebbero potuto capire se non avevano mai convissuto con quel buco nero? 
 
“Un unico modo, Alice…”.
 
Ora il manto sanguinolento era a una spanna da lei. Vedeva i volti. Ora poteva distinguerli ma sapeva già da prima chi fossero. Sempre loro quattro. Una donna e tre uomini. Puntavano verso di lei le loro bacchette. Le girava la testa. Non riusciva a pensare, quegli occhi addosso, il sangue e la puzza. E le voci…le sue voci. Le vorticavano in testa, ripetendole come un mantra sempre la stessa frase.
 
“Un unico modo, Alice..”.                  “Un unico modo, Alice…” .               “Un unico modo, Alice…”.
 
Lei sapeva a cosa si riferivano. Oh si, lo sapeva bene. Come se fosse al cinema, vedeva una donna lasciare quella sedia e correre verso la finestra. Il sangue a colorarle i piedi cinerei e macchiarle la candida camicia da notte. Arrivata alla finestra, s’issava sul cornicione leggiadra come se fosse la cosa che inalava da tempo. La vedeva voltarsi verso il pubblico, verso di lei in un muto addio e lanciarsi nel vuoto. Poi più niente, solo pace.
 
“Un unico modo, Alice..”.                  “Un unico modo, Alice…” .               “Un unico modo, Alice…”.
 
Come mossa da fili invisibili, si vide distendere le gambe e abbandonare la sedia. Ora la marea rossa non la terrorizzava più. Il sangue le ricordava l’onda del mare che bagnava  la sabbia, la trovava persino piacevole perché stava andando verso l’oblio. Ora non aveva più paura, la tempesta nella sua testa si era calmata e lei si avviava a conquistare con risoluta determinazione la pace. Ci aveva provato. Dio solo sa quanto ci aveva provato, aveva persino cominciato a sviluppare un modo tutto suo per gestire  questo dolore ma non aveva funzionato. C’era una separazione tra lei e tutte le altre persone, finché tutte sono diventate una sola persona indefinita e lei aveva perso se stessa tra tutte quelle voci. Guardi gli altri e cerchi di comportarti come loro ma non funziona, provi qualcos’altro, ma non funziona.
 
“Un unico modo, Alice..”.                  “Un unico modo, Alice…” .               “Un unico modo, Alice…”.
 
Ormai era prossima alla finestra, percepì il freddo marmo sotto la mano. Come in trance, si voltò indietro ed erano ancora lì. I quattro volti la osservavano intensi e minacciosi con le loro bacchette puntate su di lei.  Tuttavia sentiva che c’era qualcun altro ma non riusciva a vederlo, sapeva che c’era qualcosa. Si bloccò come sospinta da una forza più grande, strinse gli occhi e guardò sopra i volti minacciosi dove una luce si faceva via via più intensa.
 
“Muoviti, non c’è più tempo!”.
 
 Lo scenario era cambiato, il mare rosso aveva abbandonato la quiete e stava cominciando a ribollire. Blow, blow, blow. I volti ora vomitavano vermi sanguinolenti. Un moto di repulsione la smosse dai suoi pensieri. Si rivolse alla finestra per riprendere da dove aveva interrotto ma ebbe un sussulto. Vide il riflesso di qualcuno dal vetro della finestra e si voltò tanto repentinamente da dover aggrapparsi al bordo per non cadere. Fu allora che lo riconobbe. Quel qualcuno che nella sua mente aveva sempre un contorno nebuloso. Ora era lì, davanti a lei. Nitido. La sorpresa fu tale che si trovò aggrappata al marmo in una posizione di pura difesa. Il cuore le martellava nel petto a un ritmo così forte che temeva le sarebbe schizzato fuori dal petto come una molla impazzita. La consapevolezza la travolse, svuotandola completamente dalle energie. Tutto intorno divenne sfuocato, il concitare dei medimaghi solo un rumore ovattato. Si lasciò cadere, lasciando flebilmente uscire dalle labbra una sola parola.
“Neville…”.
Poi fu il buio.
 
 
“Nonna, mi ha riconosciuto!”.
“Non adesso, Neville”.
“Come dicevo, Signora Longbottom. La Signora soffre di una forte psicosi caratterizzata dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività con forte disadattamento della persona…”.
“Nonna, ascoltami. La mamma mi ha riconosciuto, ha pronunciato il mio nome!"
"Non essere sciocco!”.
“Uhm Uhm – il medimago tossì per attirare l’attenzione su di sé - Mi duole dirlo ma non è possibile, giovanotto. La paziente si è estraniata completamente, ha creato un rifugio per salvarsi dal trauma della realtà. E’ una malattia da cui nessuno si riprende”.
Lo disse sottovoce, quasi scusandosi ma Neville sapeva che era la verità. Erano anni che con sua nonna andava a trovare i genitori e mai una sola volta loro l’avevano riconosciuto o almeno avevano dato segno di sapere chi fosse. Tuttavia, lui non si era mai arreso. Sapeva cosa li aveva costretti a vivere in una piccola stanza al sesto piano del San Mungo. Sapeva chi era stato ma li amava e il suo cuore non si rassegnava a sperare che un giorno gli sarebbero corsi incontro abbracciandolo. Si sentiva uno stupido. Uno stupido grifondoro grassoccio e patetico, esattamente come non mancavano mai di ricordargli Malfoy & company. Si estraniò completamente dalla discussione, non curandosi delle occhiatacce che sua nonna gli lanciò per questo suo gesto scortese. Non gli importava. Voleva solo avvicinarsi al letto dove sua madre riposava, dopo l’attacco di poco prima. L’avevano sedata e ora dormiva. Doveva sognare qualcosa di bello, perché il volto era rilassato e gli sembrava persino che sorridesse. Strinse i pugni così forte da conficcarsi le unghie nella carne. Li odiava. Li odiava tutti. Gli avevano tolto la famiglia e ora stavano tornando, avrebbero preso tutto quanto fino a che non sarebbe rimasto che il silenzio. Li odiava e si sentiva impotente. Cosa avrebbero potuto fare per fermarli? Erano solo bambini. Sentì che una lacrima gli scivolava pigramente sulla guancia, se l’asciugò in fretta. Non voleva farsi vedere debole davanti a lei. Lei che non aveva ceduto, aveva resistito e lottato con tutte le sue forze fino a impazzire. Sarebbe stata orgogliosa di lui. Lo sarebbero stati tutti e due i genitori perché questa volta non si sarebbe tirato indietro. Non sarebbe corso a nascondersi come un codardo, lui avrebbe combattuto perché glielo doveva. Lo doveva a loro. Non si sarebbe arreso. Allentò la presa dei pugni, accorgendosi del segno rossastro che le unghie avevano lasciato sul palmo delle mani. Si lasciò sfuggire un sospiro stanco e quando rialzò gli occhi, vide quelli di sua madre puntati nei suoi. Fu un attimo ma credette di avervi letto consapevolezza.
“Tu chi sei?”.
 
 
Così mentre Neville arrancava tra le macerie di una guerra passata e sua nonna discuteva ancora con il medimago, fuori dalla porta tre ragazzi come lui, osservavano in rispettoso silenzio quel momento di sofferenza armando i loro cuori a una battaglia che incombeva come una scure su di loro.
 
 
 
 
 
   
 
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