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Autore: Marinaoceano    09/03/2016    3 recensioni
STORIA KLAROLINE AU - TUTTI UMANI – Nuovi personaggi – Diversa ambientazione
***
«…Si tratta della più ingente evasione di massa nella storia degli Stati Uniti d’America…» ci informò la voce fuori campo della conduttrice.
Guardai la nonna afferrare il telecomando e spegnere il vecchio televisore, che emise un suono acuto, squittendo.
« Moriremo tutti » commentò.

***
Raggiunto il lato opposto e solitario della strada, voltandomi appena, cercandolo per la prima volta, infine lo trovai: là dove lo avevo lasciato, immobile tra i bidoni lucenti; le braccia così aperte, tese a sforzarsi di raccogliere il gelo e la neve nell’aria. Le palpebre chiuse, chiarissime, il volto quasi cristianamente rivolto al cielo nuvoloso - Klaus (che nome strano!), assurdamente, inspiegabilmente, silenziosamente rideva.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Elijah, Klaus, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed ecco qui il secondo capitolo. Quasi in anticipo. Spero vi piaccia!
Chiedo, nel caso, di dirmi che ne pensate :) Adoro, come tutti, scoprire le reazioni dei lettori.
Essendo una storia breve, si svolge più velocemente; spero comunque di aver reso le reazioni ed i pensieri dei personaggi. Spesso trovo tremendamente difficile rimanere fedele al Klaus di TVD - TO. 

Buona lettura,
Marina

 





2.

Disperato bisogno

(Canzone per la sirena)

 

[…]

« Fai vela verso di me
fai vela verso di me
lascia che ti stringa tra le mie braccia
io sono qui
io sono qui
ti sto aspettando per averti »

[…]

 

Ai principi di febbraio i latitanti assicurati alla giustizia superavano già il cinquanta percento degli evasi. Il che, naturalmente, rassicurò l’America e smentì chi, soprattutto all’estero, dipingeva la nostra organizzazione nazionale come un sistema ormai prossimo alla decadenza. La media contava tre arresti al giorno; Boston, Washington e New York sembravano i ricettacoli scelti dalla maggior parte dei criminali - uno si era spinto fino alla frontiera con il Messico, però. 

C’era una calma metodica negli arresti, una naturalezza rassicurante. Tutto tornava normale - non a Peaceful, con mio sommo disgusto. Tra ronde, pattuglie e cittadini che s’improvvisavano agenti di polizia sotto copertura disseminati in ogni angolo di strada, pronti a scattare al minimo fruscio, le occasioni di panico non mancavano. Matematicamente la mattina, camminando lungo la spiaggia, vedevo apparire losche figure incappucciate al mio fianco, qualche metro più indietro, o addirittura di fronte: è per la sicurezza, dicevano. Potresti incontrare un malvivente, o peggio. Potresti essere tu, il malvivente.

« Non ce la faccio più. È tutto così ridicolo! »

Appoggiai una pila di fogli bianchi sulla fotocopiatrice, quindi cercai il pennarello rosso che tenevo in tasca: “NON FUNZIONANTE”, scrissi, ricalcando due volte. 

« A chi lo dici. Stamattina, mentre facevo jogging… »

« Al parco? »

« Sì ».

« Te la sei andata a cercare, allora… »

La segretaria con cui stavo sbrigando le ultime mansioni, una donna sulla trentina, annuì. Parlavamo a bassa voce ormai da un anno, ma non avrei saputo dire se mi considerasse davvero un’amica. 

« Io finisco qui e poi vado… » 

Segnai gli appuntamenti e le telefonate degli avvocati, controllai il computer, osservai l’orologio: le sette e trenta. La libertà era a portata di cappotto.

Dieci minuti dopo, infagottata e stanca, chiudevo dietro di me il portone d’entrata. L’aria ghiacciata della sera che fischiava in rapidi turbini di vento mi gelò il naso, le guance e le mani. Iniziai a camminare tra i mucchi di neve lentamente. Inoltratami nel centro città venni distratta da qualche macchina, alcuni conoscenti, ed un brulicare di studenti che scoppiavano a ridere senza preavviso, ma con una certa puntualità. 

Era venerdì sera ed io cercavo di non pensarci troppo, preferendo una noia placida come un ansiolitico alle fitte dolorose di un’agenda sgombra di appuntamenti. Voltai la faccia quando raggiunsi il cinema. Infine decisi di procedere lungo un sottile sentiero sterrato, lucente di neve e di ghiaccio, che sapevo poco frequentato per la troppo fitta e sporgente ramificazione di sempreverdi. Costeggiando Peaceful, mi avrebbe portata a casa.

Sotto il cielo di febbraio, procedendo oltre il limitare del sentiero, pensai alle ragazze delle favole. Poi alla nonna, che mi aspettava - dunque ero Cappuccetto Rosso?

« Buonasera, Caroline ».

Sobbalzai. Erano giorni che coltivavo una marea di parolacce. Come una Erinni mi voltai, aprii la bocca e presi fiato:

« Non me ne frega niente della sicurezza cittadina, per me potete andare tutti al diav… Klaus. Oh ». 

« È alterata, vedo ».

« … »

« E un po’ rivoluzionaria ». 

« Mi scusi. Non volevo… »

« Aggredirmi? »

« Già ».

« Immagino l’abbiano sentita fin giù in città. Il messaggio era chiaro ».

« …dio ».

Lui mi squadrò. 

« Non credevo fosse ancora a Peaceful » dissi, tentando di tranquillizzare la voce. « Non l’ho più vista… »

« Lavoro molto ». 

Annuii ricordando come, settimane prima, in un’inaspettata conversazione tra i bidoni, non avesse svelato la natura della propria occupazione. I giorni erano passati, uno dopo l’altro, finché una sera non avevo ripensato all’uomo che rideva nella neve - e mi ero dittatorialmente imposta di non… Fantasticare? Su cosa, poi?, riflettei guardandolo in piedi, serio e tranquillo in quel bosco di rovi. Un bel viso dai lineamenti nordici, l’arguzia che non tentava di nascondere, la gentilezza e (ti ricordi, Caroline?) quando aveva riso, che sorpresa… 

« Che follia… »

« Come, scusi? »

« Nulla » dissi. « Devo… stavo andando a casa ». 

« Perché si guarda i piedi mentre parla? »

« … »

« Allora? »

« Questa è una domanda molto crudele ». M’imposi di sorridere e fui sollevata quando gli occhi di lui fecero lo stesso (eppure, solo per un attimo).

« L’imbarazzo non le si addice, Caroline ».

Se gli avessi detto che non gradivo quel genere di “vicinanza verbale” sarei apparsa come una zitella brusca e acida? Nel dubbio, alzai lentamente le spalle.

« Ma se preferisce, me ne sto in silenzio e la lascio procedere sola, nonché libera da ogni imbarazzo, lungo questo losco sentiero. Sappia però che certamente mi sentirei in colpa se le capitasse d’incontrare un latitante appostato nell’ombra… »

« Ancora crede che Peaceful sia nelle mire dei serial killer? »

« Strenuamente ». Infilò le mani in tasca, da cui estrasse un paio di guanti. « Li indossi, non vorrei che perdesse le dita ». 

Guardai i guanti con sospetto. Li afferrai in silenzio, perché le mani quasi mi bruciavano in quel freddo, stando comunque attenta a non toccare le sue, nude. Inspiegabilmente mi sembrò di aver firmato un lungo contratto.

« Grazie » dissi, mentre li indossavo e immaginavo i suoi occhi che studiavano quel gesto. « Per fortuna il suo cappotto ha le tasche… ecco fatto! »

Klaus sembrò non sentirmi. « Per di là, allora? » 

Dunque, mi aveva davvero portata a firmare qualcosa. Tentai di esiliare l’incertezza: era solo un miglio.

« Sì » sussurrai, superandolo.

Iniziammo a camminare. Klaus procedeva lento, con un’abitudine che non compresi, nel buio torbido dell’inverno. Forse gli era già capitato di attraversare quel tratto di boscaglia.

« Così… guanti di pelle. Non crede siano un po’ sospetti, in questi giorni? »

« Tremendamente sospetti. Perché cammina sola a quest’ora della sera, Caroline? »

« La prego! »

« No, no. Serial killer o meno, è pur sempre una città… »

« Si chiama Peaceful. Faccia due più due ».

« Non è mai scomparso nessuno? 

Annuii. « Solo morti naturali, che io sappia. In tarda età ». 

Lui parve soppesare l’informazione; non sembrava del tutto convinto e mi dissi che, probabilmente, stentava a credermi. 

« Ma non ha la macchina? »

« Ehm… sì. Beh, più o meno ». Tentennai. « In condivisione… »

Vedendo che mi guardava, quasi fermo, sperai che la notte fosse abbastanza nera da coprire ogni rossore; non avevo alcuna voglia di nominare la nonna. Klaus attese per qualche secondo. Io accelerai il passo.

« Capisco » disse, gelandomi appena. « Dunque, ama camminare da sola. E guardare il mare da sola, all’alba, la domenica mattina. Interessante. Verrebbe quasi da pensare ad un’asocialità cronica, Caroline… »

« Elementare, Watson » risi.

Ora il buio era così intenso da abbracciarci completamente, oscurando i rispettivi volti. Distinguevo a malapena il bianco assoluto dei suoi occhi. Mi avvicinai, sfiorandogli involontariamente il cappotto. 

« Siamo quasi arrivati. Abito laggiù, vede…? La casa con le luci natalizie in veranda ». 

Immaginai che stesse aguzzando lo sguardo. Davanti a noi, a cinquecento metri, la strada principale faceva la sua comparsa come unico tratto non innevato; il lato destro, opposto alla baia, era ingombro di poche, praticamente invisibili villette con giardino, quasi spettrali da così lontano. Mi rammaricai che il buio ne coprisse l’eleganza. Improvvisamente desiderai essere sola.

« Le luci a febbraio? »

« A mia nonna… » Serrai le labbra, cercando di deglutire l’evidentemente innegabile incontinenza verbale da cui ero affetta. Perché diavolo gli avevo permesso di accompagnarmi? « È che mi piacciono. Anche se non è Natale e tutto il resto ». 

Non lo guardai, chinando mollemente la testa; mi sembrò comunque di vedere il suo profilo annuire. Tutto gridava imbarazzo; finalmente compresi in quali abissi mi avesse confinata il fallimento: ero una vigliacca. A ventiquattro anni vivevo con mia nonna, avevo relegato la mia passione ad un pallido hobby notturno, svolgevo un lavoro che non mi entusiasmava, non riuscivo ad essere felice come-e-con tutti gli altri e, dio, mi vergognavo di me stessa. Povera, povera Caroline…

D’un tratto sentii due dita sollevarmi il mento. Inspirai forte. Klaus aveva le mani fredde.

« Non abbassare gli occhi. Sembra quasi che tu voglia nascondere qualcosa ».

Indietreggiai, scuotendo la testa. Avrei potuto mistificare, mentire, correre via - certo non volevo dare inizio ad una conversazione a cuore aperto con uno sconosciuto.

« Sono solo stanca. Tutto qui. Non nascondo proprio nulla ». 

« … »

« Davvero » dissi. « Ora devo andare. Torna pure indietro, non serve che mi accompagni ».

« Caroline… » 

« No ».

« Aspetta ».

« … »

« Aspetta, Caroline… »

Sospirai, cercando di ragionare. Avevamo improvvisamente iniziato a darci del “tu” - era stato lui, ricordai. Klaus inclinò appena il viso. Non disse niente. Il che, naturalmente, mi spinse quasi ad aggredirlo. Riconsiderai la fuga. 

« Non ho bisogno di uno psicologo » dissi.

« Non sono uno psicologo. Odio gli psicologi ». 

« Bene. Bene ». 

« Sai, Caroline » ricominciò « vorrei chiederti una cosa. Chiamiamolo un favore professionale. Una specie di favore professionale… »

« …come? »

Non sembrava affatto turbato. Invidiabile sicurezza, ecco cos’era. « Riguarda il mio lavoro… »

« Ah, giusto. Non ho idea di che lavoro sia perché non hai specificato alcunché ».

« Ho le mie ragioni ».

« Sentiamola, allora, questa specie di favore professionale. Sono curiosa ».

Davanti a quel picco di acidità, Klaus parve tentennare. Capii quanto poco gli piacesse - e me ne fregai.

« Mi dispiace non averlo detto prima, ma non credevo ti interessasse. Dovresti imparare a chiedere ».

« Grazie per il prezioso consiglio » borbottai. « Allora? »

Klaus prese fiato. « Il mio lavoro ha a che fare con… oserei dire, con l’arte. Dipingo quadri, li vendo quando piacciono, e ne dipingo altri. Stranamente mi consente di vivere ».

« … »

« Ho dipinto qualche paesaggio del New Hampshire su commissione, negli ultimi tempi. Non dipingevo da un po’ ». Attese, forse ripensando a quella confessione. « Ciò che più amo è ritrarre persone… Benché raramente riesca a vendere i risultati ».

« … »

« Persone come te, Caroline ».

Tacqui lasciando affondare le sue parole, ora ingombranti e riverse sulla terra innevata che ci separava. Poi tacqui ancora, e ancora, e ancora. Guardavo Klaus - che stranezza era mai quella? Quest’uomo, un pittore. Un pittore… un mio ritratto?

« No » dissi. « No, mi dispiace. Sei gentile, e tutto ciò è molto interessante e ammirevole, ma non credo che… no ». 

« Perché? »

Alzai le spalle. Nonostante il cappotto avevo freddo. « Perché sarebbe… sì, beh, sarebbe assurdo… io in un quadro… no, davvero. Non credo riusciresti a… ed io non riuscirei di certo… no. No. Proprio… no ».

Klaus si avvicinò. Non sorrideva; lo avrei detto perplesso. Ancora una volta, riconsiderai alla fuga.

« Perché sarebbe assurdo? »

« Perché… non lo so. Ma lo sarebbe! » 

« Tu dipingi? »

« Cosa? No… »

« Allora, con tutto il rispetto, lascia che sia io a stabilire i limiti dell’assurdo. Avanti, non sono Modigliani » rise. « Ma la tua mancanza di fiducia a priori mi offende. Corri il rischio, Caroline ». Poi aggiunse, pungolandomi: « Ti sfido ».

Mi sforzai di ridere a mia volta, ma ne uscì uno squittio isterico. Avrei voluto dirgli che io lo avevo corso, quel maledetto rischio, mille maledette volte - ecco il risultato!

« No ». Sorrisi educatamente, per porre fine alla questione. « Ora devo proprio… »

« In tutto ciò » m’interruppe « non mi hai ancora chiesto perché desideri dipingerti. Strano, no? Voglio dire, una tale ferma convinzione e nessuna domanda… »

« È che non mi interessa. Ma sei gentile e ne sono lusingata, perché mai avrei pensato che… beh, hai capito. Però non mi interessa… »

« Un paraocchi, dunque ».

« Oh… » 

« … »

« Klaus, smettila di guardarmi! » 

Lui abbassò lentamente gli occhi, mentre io già mi pentivo di aver parlato. « Caroline… »

« Dico solo che non fa per me. I perché non mi interessano… »

« …perché hai paura? » concluse, curioso.

Non risposi. Mi voltai, dandogli le spalle, scappando in un silenzio sordo. 

« Sei bella, Caroline. Per questo vorrei vederti in uno dei miei quadri » disse la sua voce, quando mi raggiunse dopo pochi metri. « Mi piaci ».

Non mi fermai, non alzai lo sguardo, non respirai. Vedevo solo il buio e la neve bianca che calpestavano i miei piedi.

Poi realizzai. Io gli piacevo. Interdetta, frenai quella fuga.

« …come? » Ma mi ritrovai a conversare con il sentiero buio dietro di me, immensamente gelido e tetro: di Klaus non c’era traccia.

Per tutta la notte che seguì non riuscii a chiudere occhio, cedendo terreno a fantasie di cui la mente mi ricordava d’essere indegna, inadeguata, non pronta: ogni fantasia era una schiena nuda ed ogni mentale rigetto la sua frustata.

Io gli piacevo.

Io.

Che follia, mi dissi quando l’alba raggiunse le persiane; non aveva forse capito con chi aveva a che fare?

 

*

 

Entrai nella locanda a testa bassa, volenterosa a non incrociare gli occhi di nessuno. La colazione del sabato mattina era una di quelle tradizioni che avrei felicemente estirpato dalla nostra vita familiare. Ciò che mi aveva sempre frenata negli anni era che, a dispetto della sua ottima salute, una parte di me credeva ancora che la nonna ne sarebbe stata sopraffatta. Ed uccidere un parente rimaneva, come sempre, un’opzione fuori programma.

« Caroline, smettila con quel muso lungo. Hai dormito, stanotte? »

Ci sedemmo. Sbadigliai.

« Sì, sì. Per me caffè… nerissimo. E una ciambella ».

« Ciao, Vicky, è un piacere rivederti! Scusa mia nipote, crede sia concesso essere sgarbati se non si ha dormito a sufficienza ».

« Ma io ho dormito ».

Vicky Donovan mi lanciò un’occhiata. Era magra e bella come hai tempi del liceo, ma decisamente meno selvaggia infagottata nel grembiule bianco da cameriera. 

« Ti ho vista, sai, con la luce accesa. Crede che sia stupida » disse la nonna, ora rivolta del tutto a Vicky. Riconsiderai la gravità di un omicidio.

« Come sta tuo fratello, Vicky? »

« Oh, Matt sta bene. Il bambino lo occupa molto, ma lui e Mandy se la cavano ». 

« Salutamelo, cara… » 

Mia nonna mi guardò di sbieco; iniziai ad intuire una certa rabbia vendicativa, in lei. « Tu non mandi i tuoi saluti a Matt, Caroline? »

« Certo » sorrisi. « Salutamelo tanto, Vicky. E digli anche che sì, effettivamente non ho dormito molto bene stanotte ». 

« Oh, Caroline! »

« A lei cosa porto, signora? »

La nonna commiserò il menù in plastica con uno sguardo, poi disse: « Il solito, cara ». 

E finalmente Vicky Donovan trotterellò via, ad una velocità che giudicai di molto superiore agli standard della Cameriera Modello. 

« Era proprio necessario? »

« Sai che non tollero bugie in casa mia, Caroline ». 

« Oh, guarda. Mandano un’altra cameriera a portarci l’ordinazione. Vuoi seviziare anche questa? »

Mia nonna sorrise, prima a me e poi alla cameriera, infine incrociò gli occhi di Patty in fondo alla sala ed alzò un sopracciglio.

« No, per ora mi limiterò a sorseggiare questo buonissimo tè. E tu, tesoro, dovresti fare lo stesso ».

« Sei sempre così poco interessata… » continuò.

« Questo non è vero ». 

« Non esci mai! »

« Cosa hai mangiato ieri sera… cianuro? » dissi, addentando la ciambella. Non riuscivo ad individuare Pilgram nella sala. 

« Lo dico per te, bambina mia. Lo sai. Vorrei tanto vederti felice… un ragazzo, degli amici da invitare a pranzo… è crudele da parte tua negarmi queste cose, Caroline ». 

« Non credevo fosse necessario specificare che la mia vita è una preoccupazione circostanziata a me soltanto ».

« Ecco che ricominci ad usare questi termini. Lo fai sempre, e solo per mettermi in difficoltà ».

« …è crudele da parte mia, sì ».

« Proprio ora che stiamo rischiando tutti la vita, Caroline! » 

Tossii.

« La vita? »

« La vita! » disse lei con ardore. « Prima o poi qualcuno sparirà, è solo questione di tempo… ma no, a te non interessa! Che importa se la nonna muore… »

« … »

« Non ti dai neppure la pena di memorizzare le fotografie segnaletiche. Non leggi i giornali! »

« Perché nessun criminale sano di mente cercherebbe rifugio in una città di seimila abitanti. E posso garantirti che nessuno, nonna, ha la minima possibilità in uno scontro a fuoco con te ».

Lei tacque, stringendo le labbra in una linea biasimevolmente insoddisfatta. Ingurgitai la ciambella, decisa a scappare il più lontano ed il prima possibile.

« Sai che c’è stato un furto, Caroline? » disse, mentre chiudevo i bottoni del cappotto e tentavo di masticare. 

Deglutii. « Oh, guarda, nonna. Laggiù c’è la signora Perkins… ecco, ci ha viste! »

« Buon dio, la Perkins. Ascoltami, Caroline. Un furto! »

« Buongiorno, signora Perkins ».  

« Caroline, è un piacere vederti… » 

« Mary, dillo anche tu. Mia nipote non crede che ci sia stato un furto in città! »

Mary Perkins mi sorrise calorosamente. « È tutto vero, cara ». Si accomodò al mio posto. « Nel negozio di dischi del signor Abbott… Quel povero vedovo! »

Mia nonna annuì a tutta forza. « Non se lo meritava proprio… » 

« Una rapina a mano armata? » domandai, sgomenta. A Peaceful non succedeva dal… beh, probabilmente non era mai successo. 

« Ma no, cara! »

« Ciò che Mary vuole dire, tesoro » saltò su mia nonna « è che il signor Abbott si è semplicemente accorto che mancava un disco. Quell’uomo ha una mente contorta, sadicamente precisa; una volta mi telefonò a casa per un errore di pochi centesimi… una zecca! »

Mary Perkins sembrava ugualmente persuasa.

« Tiene certi registri curatissimi! Segna la minima cosa… che vita grama, eh? »

Indietreggiai senza sapere che dire. Una parte di me si chiese se il futuro mi avrebbe vista rassomigliare a queste due vecchiette. Cercai di sembrare neutrale, quando parlai. « Se non vi dispiace, vi lascio ai vostri… alla vostra colazione ».

« Ma Caroline! Hai sentito quello che… »
« Signora Perkins; nonna » salutai, dando loro le spalle. Incrociai Patty e distolsi lo sguardo per non notare il suo sorriso di circostanza. Peaceful mi sembrava fatta di ovatta e lanugine; ogni persona un pupazzo con gli occhi a bottone. 

« Non è sempre stata così » sentii dire.

« Già, già. Me la ricordo bene. Le manca l’interesse, mmm? »

 

*

 

Non ero effettivamente sempre stata così - tetra, depressa, insicura e genericamente infelice. Esisteva una precedente versione di me stessa, una Caroline 1.0 spensierata, giovane e speranzosa, reginetta delle feste a tema ed amante dello shopping. C’era stata una Caroline felice, pochi anni prima. Ridente, competitiva, tenace, interessata. Forse quasi bellissima, e con una certa forza d’animo - incredibile, no?

Il college aveva ingrassato i miei sogni spingendomi a cantare come le cicale, di pura gioia: sono viva! Il mondo è mio! Ce la farò! 

Ero così sicura - il resto lo si può immaginare. In gioventù avevo anche ipotizzato che vi fosse una qualche bellezza nella disillusione. Bugie. Era come morire, solo pian piano, un arto alla volta, una convinzione dopo l’altra. 

Quindi, eccomi: io, dopo un’altra settimana di neve, nella sperduta cittadina di Peaceful, blindata nel minuscolo ufficio senza finestre di Sam Sornoby, a tentare di capire cosa esattamente volesse comunicarmi alle otto e trenta del mattino.

« Dobbiamo ridurre i costi… »

« Capisco ».

« Caroline, non sai quanto mi dispiace. Nessuno vorrebbe mandare via proprio te. Io non vorrei » disse, seduto dietro la scrivania. « Ma, in quanto capo delle risorse umane, tocca a me scegliere. E tu sei l’ultima arrivata ».

« Certo ».

« Non voglio che tu dica “certo”, Caroline. Devo ancora rivelarti una cosa: ad essere sincero, non ho preso una vera e propria decisione, e non sono del tutto convinto che licenziare te sia il bene dello studio. Sei estremamente giovane, fresca, intelligente… »

« … »

« …Jenna ha trentacinque anni. Camille cinquanta ». 

« … »

Sam Sornoby borbottò in tono pratico: « Potrei facilmente scegliere una di loro ».

« Non capisco… »

Sam Sornoby, stretto nella camicia gessata, allentò la cravatta. Sudava appena, sotto il naso e sulla fronte - c’era sempre un che di umido in lui. Seguii la traiettoria dei suoi occhi, che ora si stavano spostando dal mio viso verso… oh. Per un po’ pensai di aver visto male.

« Se tu dimostrassi… se tu avessi voglia di dimostrare il tuo eccellente valore… a me, s’intende… io potrei… ». Balbettò qualcosa. « Potrei fare un’eccezione, Caroline, e sostenere con gli altri quanto tu sia indispensabile. Io sono colui che può aiutarti. L’ho già fatto una volta, assumendoti senza chiedere nulla in cambio. Ricordi, vero? » Rinforzò appena la voce, quasi fosse più sicuro. « Ricordi quando non avevi niente ed io sono venuto a pranzo e tua nonna era così disperata? Ti ho aiutata ». Mi coprii il petto con le braccia; avrei voluto non avere il seno. In verità, una parte di me stava semplicemente desiderando di non essere donna. « Lo sai bene, Caroline… il mondo non funziona così. Dove c’è un dare, c’è sempre un avere ».

Sentii un tonfo gigantesco, come di un’àncora che precipita tra le rocce; non poteva essere vero. Non poteva star capitando a me. A Peaceful. Un vento gelido mi paralizzò. Pensai di avere la gola troppo secca per ribattere. Non sapevo neanche più che punto fissare in quell’ufficio claustrofobico.

« Quindi, Caroline… » continuò Sam Sornoby, allontanando lentamente la sedia dalla scrivania così da avere qualche metro libero. « Perché dovrei decidere di tenere proprio te? »

 

*

 

Sentivo un fischio e sapevo con certezza di essere l’unica, in quella strada delimitata da marciapiedi affollati a loro volta contornati, solo su un lato, da piccole montagne di neve ammuffita, a poter udire quel suono. Stavo camminando come una macchina contromano in una corsia riservata ai camion, urtando spalle e collezionando ammaccature, graffi, insulti. 

Procedetti lungo la strada principale che tagliava Peaceful a metà, parallela alla costa; avevo freddo, senza cappotto com’ero - uscire dall’ufficio di Sam Sornoby dopo aver pronunciato una sola parola (bastardo) ed aver udito una sola sussurrata risposta (puttana) non era stato molto diverso dall’avere un attacco di panico. Pensare, ragionare e organizzarsi erano al di là del possibile; ascoltavo il mio stesso respiro rantolare, arrotolarsi e soffiare rumorosamente come quello di un animale imprigionato. 

Ero ormai stanca quando riconobbi Concorde Road: periferica ed innevata, fu un lampo tra le onde che mi tiravano a fondo. Individuai subito il numero otto, un portone piccolo e scrostato e in ombra. Ripensai a Klaus; appoggiai il dito al campanello senza dare ascolto alla coscienza. Presto vidi la porta scostarsi; prima appena uno spiraglio ed infine, dopo qualche secondo d’attesa in cui osservai una parte del volto di Klaus, spalancarsi bruscamente. 

« Caroline ».

« Ciao! » 

Guardai i suoi occhi e l’incomprensione che contenevano e capii di essere pazza. « Scusami, non volevo… non volevo disturbare. Non lo avevo programmato. Faccio fatica a spiegarmi, al momento, però… oh, dio. È che mi sono ricordata l’indirizzo… passavo di qua e non sapevo neppure se tu fossi ancora a Peaceful, ma… »

« Entra » disse soltanto, facendosi rapidamente da parte e chiudendo la porta dietro di me. La stanza in cui accedetti era piccola, infossata e scarsamente illuminata, se non per un lato - ma, grazie al cielo, riscaldata. Trovai davvero difficile cogliere i dettagli; c’era molto disordine. 

« Siediti. Senza cappotto » osservò. « Vuoi…? »

« No, grazie, sto bene così ».

Il divano era logoro e consumato e mi sfregò le calze. Klaus si accomodò su una sedia, una di quelle artigianali in pino tipiche del New Hampshire. Era la prima volta in cui lo vedevo confuso.

« Sinceramente… » esclamai « …questa casa è proprio un casino! »

Lui arcuò le sopracciglia.

« … »

« Va tutto bene, Caroline? »

« Sì, sì. Certo che sì. Le solite cose… » Anche se seduta ero isterica, ansiosa. « Perdere il posto di lavoro senza apparente motivo, scappare dall’ufficio. Va tutto davvero benissimo ».

Ci separava un tavolino rotondo con il ripiano in vetro lucido; abbassai gli occhi e osservai il riflesso colorato di Klaus. Poi li chiusi.

« Questa è proprio una piazzata in piena regola, io che mi presento qui senza motivo. Spero tu… » Ma non ebbi la forza di chiedergli scusa un’ennesima volta. « Che stupida ».

« Non credo che tu sia stupida ». 

« Gli ho urlato in faccia. Al mio capo… » Alzai lo sguardo. « Non urlavo in faccia a qualcuno da un sacco di tempo. Anni ».

Klaus sorrise, come non credevo avrebbe fatto. « Ti sei già dimenticata dell’altra sera, dunque… ».

« Oh ». 

« Sai, Caroline, più ti vedo e più mi sembri… predisposta alle scenate ».

« Mi prendi in giro? »

« No, no… »

« Sì, invece! »

Tornai a guardare il tavolino e, pochi secondi dopo, lui fece lo stesso. Iniziai a fissare il riflesso degli occhi bianchissimi di Klaus che fissavano i miei dal vetro.

« Se vuoi raccontarmi… »

« No ».

« Bene ».

Passò un minuto, lento e pesante. Poi dissi: « Io ti piaccio ». E vidi il corpo di Klaus riscuotersi appena.

« … »

« L’hai detto l’altra sera ». Tossii; stesi una mano infreddolita sul tavolino, lontana dai nostri riflessi. « Hai detto proprio “Mi piaci, Caroline”. Poi sei sparito ». 

« … »

Erano anni che non facevo qualcosa di simile. « Ho… ho bisogno che tu mi dica il perché. Ne ho… » Mi ricordai di Pilgram. « …un disperato bisogno ». 

Non avevo ancora alzato gli occhi dal riflesso di Klaus quando vidi la sua mano, la prima cosa viva e corporea insieme alla mia su quel ripiano di vetro, accostarsi al mio palmo. Non lo accarezzò se non appena, con la punta di un dito. Lo sentii espirare con forza. Iniziai a sbattere le ciglia senza volerlo.

« E mi crederai? » chiese, circospetto.

« Non lo so. Spero di sì ».

« … »

« Ci proverò » ribadii.

« Bene. Erano venti minuti che ti osservavo » cominciò. «Quella mattina, dal parcheggio vicino alla spiaggia ».

« Cosa? »

« Eri arrivata dalla costa, sola. Non ti eri mossa per un sacco di tempo ed avevo cominciato a credere che volessi farti… Caroline, qualcosa di male ».

« … »

« E… »

« Pensavo avessi bisogno di me ».

« Non esattamente ».

« Conoscevi già questo indirizzo, quindi ». Klaus annuì. Capii che non si sarebbe scusato. « Continua » ordinai.

« Riuscii a farti ridere. Sai, Caroline, non ci si aspetta mai nulla di diverso da ciò che ci si aspetta. Sembravi una ragazza… »

Rabbrividii appena, chiudendo gli occhi e riaprendoli, guardandomi le ginocchia. 

« Quella mattina ho scoperto un genere curiosamente diverso di persona ».

« Scoperto? Nemmeno mi conosci… »

« È irrilevante » liquidò, pratico. Non aveva ancora interrotto lo sfioramento immobile di mani sul tavolino. « Ma mi sei sembrata forte mentre te ne stavi dritta sulla spiaggia a fronteggiare il mare, i piedi nudi ancorati nella sabbia. Eroica. Incurante del vento e del freddo come l’albero maestro di una nave ».

« Non prendermi in giro, Klaus ».

« Un po’ schiva sul finale » mi sorrise. « Certo non del tutto sgombra dalla tristezza. Ciò che conta è che lo eri in modo diverso da quanto avessi creduto. E settimane dopo, tu che camminavi ancora una volta in solitudine… Una ragazza non dovrebbe essere inquieta per la maggior parte del tempo » disse. « E indipendentemente da tutto ciò che tu credi di essere, e in forza di tutto ciò che io suppongo tu sia in realtà, nonché per altri miei personalissimi motivi, Caroline, mi piaci ».

« … »

« Ho risposto alla tua domanda? »

« Non lo so ».

Avvicinai la mano alla sua, abbassando gli occhi. « Qualche anno fa, forse… ed è… non esiste più davvero nulla di quello che… Klaus. Io non sono proprio eroica ».

« Sei solo dalla parte sbagliata della prospettiva, tesoro ».

« Non c’è nessuna prospettiva! » esclamai, ingombrando la stanza della mia voce.

« Sentiti, Caroline. Sei rabbiosa »

« … »

« Che cosa c’è che non vuoi che veda? Lo difendi così strenuamente. Sei un’ottima combattente, Caroline ». Sembrava parlasse della qualità più rara al mondo. « Questo mi piace ». 

« …seriamente? » 

« Non mi credi, dunque » disse, più offeso di quanta mi aspettassi. Qualcosa che avevo involontariamente nutrito in quelle settimane si crepò di netto. Mi dispiacque. Klaus fece per alzarsi dalla sedia ed il dispiacere si trasformò in panico.

« Aspetta, Klaus ».

Inspirò quando feci naufragare la mano nel suo palmo. D’un tratto e senza alcun motivo pensai all’odore dell’autunno e alle scosse elettriche e a due braccia che stringono e a quanto sarebbe potuto essere bello che quest’uomo assurdo e palesemente vittima di un abbaglio avesse continuato a parlare di me in quel modo.

« Ne voglio ancora » dissi, pianissimo. Poi alzai gli occhi e vidi la bocca di Klaus aprirsi appena. Capii che aveva capito, perché s’immobilizzò per un attimo davvero lungo e mi guardò più intensamente di quanto avesse mai fatto prima. Non disse niente ed entrambi ci alzammo in piedi. Fu lui a circumnavigare il tavolino; io coprii soltanto gli ultimi passi che ci separavano. « Bene » dissi, respirando il suo fiato. 

« Allora? »

« Credo che tu sia sincero. Non che quella che dici sia la verità ». Klaus alzò gli occhi al cielo, con reale esasperazione. « Ma… »

« Ma? »

« Ma mi piace il modo in cui la dici, e ne voglio… » La voce mi tradì, sprofondando. 

« Bene » concluse più duramente lui.

Lo facemmo su quel divano, quasi del tutto in silenzio, ed io lo abbracciai talmente forte che più di una volta Klaus, mentre mi baciava mi accarezzava mi stringeva e mi guardava, fu costretto a sussurrarmi all’orecchio che andava tutto bene.

« Sei così… » sorrise infine, stendendosi di fronte a me, il suo petto pallido contro i miei seni e le sue braccia a tenerci uniti ancora. « Ma sembra che tu lo abbia dimenticato ».

Il sesso con Klaus fu dolce e spontaneo e necessario come il respiro di un annegato che emerge dalle onde. Ora, però, i suoi occhi mi ponevano una domanda.

Perché?

Per un po’ tentai di non sentire; lui era troppo vicino.

« Perché? » chiese. Era curioso e crudele insieme, mentre mi stringeva a sé, e poneva quella domanda, e non si curava di imbarazzo o ritrosia.

« … »

« Perché te lo sei dimenticata, Caroline? »

Imbrigliata, il mio nome suonò come un richiamo severo. Se quella era l’unica occasione di spontanea sincerità che Klaus aveva intenzione di concedermi, ne valeva la pena? 

« Perché ho fallito » dissi. « Ho scritto un romanzo che era un sogno, al college. Sono andata a New York per realizzarlo… » Strinsi i pugni e chiusi gli occhi. « Oggi vivo con mia nonna, svolgo… svolgevo un lavoro noioso, e trovo del tutto impossibile essere felice come il resto di questa folle cittadina che, tra parentesi, si sta dimostrando farcita di più idioti di quanti credessi ». Pensai a Sam Sornoby ed un pugno mi colpì la pancia. « Poco importa chi ero prima o chi sia in realtà, Klaus: ho fallito a piedi pari e me ne vergogno, e non ne parlo per pura vigliaccheria, e non riesco a dormire perché domani sarà uguale ad oggi ed io sarò sempre una che è tornata senza… una che ha preferito tornare. In così tanti ci credevano… ».

« … »

« Non sono più in grado di creare dei legami con le persone, e… dio. Sono così stanca di essere me stessa che se esistesse un interruttore per spegnere la luce lo premerei. Va bene? »

« … »

« Perché posso continuare. Soffro di attacchi di panico, ansia, questo è il rapporto più intimo che… »

« Caroline ».

« Non voglio… che tutta questa roba… stia in un quadro… » dissi con voce nasale.

 

*

 

« Meglio? »

Ridacchiai, ma sembrò che singhiozzassi. « Sì., grazie ».

« Credevo volessi allagare l’appartamento. Ha giusto bisogno di una pulita ».

« Questo è senza dubbio vero. Mmm. Si sta bene qui ».

Mentre raccontavo, Klaus aveva fatto scivolare una gamba tra le mie cosce, ed io una sul suo fianco; ora le sue dita stavano seguendo linee inesistenti lungo le mie braccia.

« Hai freddo? »

« Sto bene così, non muoverti ». 

« Ti andrebbe di raccontarmi qualcosa? »

Klaus tacque. Alzò la testa per guardarmi negli occhi. « Che cosa? »

« Quello che vuoi. Ho parlato solo io… »

« … »

« Avrai per forza qualcosa da dire. Una storia… » Sorrisi. « Sì, ecco. Voglio una storia, per favore ».

« Ma non sono io lo scrittore, tra i due… »

« Ti prego ti prego ti prego, Klaus, non tocchiamo più questo argomento. Neppure per sbaglio. Il solo pensiero mi dà la nausea! »

« Una volta, quando avevo sei anni… »

« Hai già iniziato? »

« La storia è in corso di svolgimento ». 

« Sei così pomposo… »

Klaus sorrise. « Dicevo, prima di essere tanto maleducatamente interrotto, che una volta, quando avevo sei anni e la mia famiglia era un caotico agglomerato di serenità, quando vivevamo ancora nel sovraffollamento di una villetta all’aria aperta del Midwest, precisamente nella verde periferia di Chicago, una domenica i miei due fratelli maggiori decisero che era giunto il momento di rendermi partecipe di uno fra i più sacri arcani dell’arte sportiva: il baseball ». Klaus sbuffò. « Fu un vero disastro. Ero il bambino meno portato in tutto il campetto, e disgraziatamente loro erano due fenomeni. Giocammo per ore e per ore non riuscii a colpire una singola palla, neppure quando chiesero in prestito una mazza adatta alla mia altezza. La sera mi sentivo morire e, benché nessuno di noi tre avesse intenzione di andare a raccontare in giro la tragedia appena scoperta, sapevo già che a cena sarebbe strisciata fuori dalla bocca di qualcuno: dalla mia, assurdamente - non aspettai neppure la prima portata. Andai dritto da mio padre, sinceramente prossimo ad un attacco di pianto, e dissi: a baseball faccio schifo. Scoppiò una lunga conversazione a cui ciascuno si sentì in diritto di prendere parte. Eravamo davvero rumorosi a quei tempi. Hai chiuso gli occhi, Caroline… »

Li aprii. Avevo appoggiato la testa al braccio di Klaus.

« Mi aiuta a… affari miei. Potresti continuare senza più interruzioni? »

« … »

« Grazie ».

« Vediamo… Finn, il maggiore, disse che non c’erano speranze di miglioramento. Elijah si dimostrò disposto ad allenarmi ogni mattina prima delle lezioni, dalle sei alle otto, per due mesi. Mia madre, una donna molto decisa e del tutto avversa allo sport, disse che si trattava senza dubbio di una benedizione per la mia carriera scolastica. Mio padre taceva a capo tavola, serio in un modo pazzesco, come se nessuno intorno a noi stesse parlando. Tu che ne pensi?, mi arrischiai a chiedere alla fine. Avevo i pugni così stretti intorno al tovagliolo che la carta si strappò. Dobbiamo trovarti uno sport in cui tu possa essere il campione, Klaus, disse. Quando parlava lo prendevamo tutti sul serio: era un uomo massiccio, un capofamiglia che portava il peso della vita sulle spalle ed un padre che adoravamo. Così iniziò una lunga, frenetica ricerca che durò per tutto l’autunno. Sei mai stata nel Midwest d’autunno, Caroline? »

« No ».

« L’autunno è la stagione più lunga dell’anno, là. Inizia prima e finisce dopo, ed i colori sono così intensi che anche il cuore più duro si commuove. Milioni di foglie, ragazzini che scattano in bicicletta lungo questi viali larghissimi, alberi dappertutto, e casette sugli alberi, e riunioni segrete, e compiti da copiare e madri che sfornano dolci alla zucca. Così fu anche quell’autunno in cui i miei fratelli si presero l’onere di trascinarmi di qua e di là: campi da tennis, football, piscine, lacrosse, basket, golf, rugby… poi venne il giorno. Un pomeriggio di novembre, dopo la scuola, seguii alcuni miei compagni in una palestra speciale, per soli pugili. Allenavano ragazzini dai dieci anni, anche di meno se eri bravo, fino al diploma; nessuno nella mia famiglia aveva mai preso in considerazione uno sport che tutti giudicavamo tanto violento. Chiesi al responsabile di provare… fu folgorante. Disse che ero abbastanza veloce, che sapevo scattare e che, contro il sacco, benché non avessi ancora uno straccio di muscolo, nutrivo buone speranze di miglioramento. Puoi immaginarti la gioia e lo stupore che provai quel pomeriggio ». Klaus deglutì qualcosa di molto grosso e spigoloso, chiudendo gli occhi. « Inforcai la bicicletta, pedalando a tutta velocità e tagliando lungo i giardinetti dei privati per arrivare il prima possibile. Casa mia era piccola e in angolo, l’ultima della via. Lasciai la bici a ridosso del cancello e superai lo steccato, corsi per il vialetto tra i rododendri piantati da mia madre e spalancai la porta con tutta la forza che avevo nelle braccia. Gridai Diventerò il più grande pugile che abbiate mai visto… e la vidi: china a terra, in ginocchio, come mai avevo pensato si potesse mettere una madre. Stava piangendo. Entrai con il sorriso ancora fossilizzato sulla bocca, solo di un passo… e lui mi si parò davanti. Più tardi avrei scoperto che era ubriaco. Credevo che stesse scherzando, che avesse già in qualche modo saputo del pugilato e volesse mettermi alla prova - ma allora perché lei era in ginocchio e piangeva? »

Sgranai gli occhi. « Klaus… »

« Quella fu la prima volta in cui mio padre mi schiaffeggiò e l’unica di cui non ricordo il dolore. Ero troppo sorpreso e faceva così male che il mio giovane cervello ebbe la lungimiranza di cancellare ogni sensazione immediatamente. Certe volte capita; la chiamano auto-conservazione ». Klaus mi strinse, appoggiò le labbra al mio collo e tacque per un po’. Non mi accarezzava più. « La mia vita era cambiata per sempre e nemmeno riuscivo ad accorgermene. Disse che ero un bastardo e che lei, lei là a terra, era una puttana. Disse che non era mio padre, ed io ne piansi. Tutte le volte in cui mi ha colpito, più avanti negli anni, non furono nulla in confronto a quella sola, incomprensibile e violenta accusa: non ero suo figlio ».

« Mio dio ».

« Dopo un anno ci trasferimmo a Brooklyn e tutto cambiò. Mi odiava in un modo feroce, mitragliante. Imparai a camminare leggero sui piedi e ad uscire sempre prima di lui, a cenare a casa di amici e ad allenarmi fino a notte fonda. Miglioravo mese dopo mese, ma era una bravura inerme e disperata. I miei fratelli mi aiutavano come potevano; ben presto, però, iniziai a sentirmi nervoso quando erano vicini ».

Klaus mi accarezzò una spalla con le labbra e rimase immobile. Sentivo il suo peso, nonché il peso di ciò che aveva appena detto, gravare sopra di me e per un po’ davvero non seppi che fare per aiutarlo. Tutto, in quella piccola stanza illuminata dalla luce bianca del mezzogiorno invernale, sembrava fatto di polvere. Mi baciò con urgenza, per se stesso, e in poco più di un minuto ci ritrovammo a rifare sesso.

« Caroline… » disse, dopo.

« Non ti scusare. Non ci provare nemmeno… »

« Ho sbagliato storia ».

« Le storie non si sbagliano mai… »

Mi sistemai contro di lui.Chiudemmo gli occhi: ero certa che Klaus non stesse dormendo. Il cuore gli batteva forte nella cassa toracica, contro cui avevo appoggiato l’orecchio. Mi sembrava assurdo: un’altra vita, un’altra Caroline; ero lì, non sola, non più protagonista di un dolore inesprimibile, eppure così vicina al dolore. Mi ritrovai a baciargli il petto ad occhi chiusi, scoprendo di voler partecipare al suo rammarico.

 

 

*

 

« Da quanto sono qui? » sbadigliai.

Sentii un bacio sulla scapola, ed il palmo ruvido di una mano scendere lungo l’incavo della spina dorsale. 

« Dormi, Caroline ».

Sorrisi contro la tela del divano.

« Sai che soffro d’insonnia? Da sempre… » Quando lo dissi mi sembrò strano. « Cioè, non da sempre sempre, ma da molti anni. Volevo dire questo ».

La mano di Klaus aveva raggiunto e sostituito la bocca, coprendo la scapola sinistra come un bacile per raccogliere e contenere l’acqua. Non riuscivo ad immaginarmi la sua espressione.

« Da quando? »

« Oh… » dissi.

« Da quando, Caroline? »

D’un tratto lo sentii scendere dal divano e mi riscossi, girandomi, sedendomi sul cuscino. Lo guardai camminare nudo fino alla piccola cucina; era alto, pallido. « C’è un po’ di rosso nei tuoi capelli » dissi. « Non me n’ero accorta ».

Tornò con un pacchetto di sigarette e un accendino. Si sedette di fronte a me, dall’altro capo del divano. Sorrise.

« Oh, devi proprio fumare? » 

Stese le gambe a toccare le mie.

« Caroline… »

« Dico solo che il fumo rovina tutto ». 

Klaus appoggiò la sigaretta al bracciolo del divano. Sapevo che si aspettava qualcosa in cambio e per un attimo fui tentata di scherzarci su. Lui sembrava attento, ma forse era solo una facciata.

« Perché vivi con tua nonna? ».

« Sei furbo… » sorrisi. « I miei sono morti quando avevo quattro anni ». Fissai il copri divano azzurro, che sembrava un cielo torbido, lontanissimo eppure pesante, invernale. Battei due dita sul ginocchio senza produrre suono. « Non avevo parenti oltre alla nonna…vivevamo in un altro Stato. Io e la mia famiglia ». Annuii senza motivo, guardando di sfuggita Klaus. « Virginia… ma in una piccola città ». 

Mi toccò una caviglia. « Vieni qui ». Mi tirò appena per convincermi e, quando lo raggiunsi, non fece altro che sistemare la mia schiena contro il suo petto. Apprezzai che non mi volesse abbracciare. 

« Mio padre era omosessuale. Aveva un compagno al lavoro. Credo che mia mamma lo abbia scoperto per caso; lui non lo avrebbe mai detto… » Ridacchiai. « Lei era lo sceriffo. Aveva la pistola… fa tanto soap opera dirlo in questo modo ».

« Li ricordi? »

« Quasi per nulla. La nonna ha qualche foto, immagini di quando venivamo a trovarla. Mi ricordo i vestiti di mia madre, quelle poche volte in cui non indossava la divisa. E i suoi capelli… » Chiusi gli occhi. « Sono morti in un incidente d’auto… un tale classico! »

Mi sembrava che tutto, in quella stanza, stesse per crollare.

« Non so perché ti sto dicendo tutte queste cose ». 

Klaus mi toccò con una mano aperta la pancia, accarezzandola. 

« Voglio sentirle, Caroline » confessò, quasi nel mio orecchio. « Voglio sentire… » L’ultima parola si perse sulla mia pelle.

« È un po’ di tempo che non sento » aggiunse Klaus, serissimo, spingendo la testa contro il mio palmo.

« L’insonnia… è che mi ricordo ».

Klaus attese un minuto intero; poi si mosse rapido dietro di me. Accompagnò il mento con la mano che aveva sul ventre, portandomi a guardarlo negli occhi.

« Eri in macchina con loro? » Aveva le palpebre spalancate. 

Annuii. « Non mi sono fatta niente. Potevamo morire tutti e tre… siamo finiti contro un albero, di notte. Guidava mio padre. In quel periodo litigavano sempre, ma… avevamo passato una bella giornata, mi pare… » Poi aggiunsi: « Forse questa è una bugia ».

Klaus mi occhieggiava, immobile come una statua di sale.

« Va tutto bene? »

Allora lui parve riscuotersi da un sogno; abbassò la testa. D’un tratto capii di avergli ricordato qualcosa. 

« Va tutto bene » disse, spingendomi improvvisamente lunga distesa contro il divano e salendo su di me. I suoi occhi rivelavano. Incredulità, forse.

« A cosa stavi pensando, poco fa? » chiesi.

« A niente » rispose. « Ora stai ferma, Caroline… »

Credetti che stessimo per fare di nuovo sesso, ma Klaus si limitò a baciarmi: con più forza e un’esigenza strana, roca, a possederlo. Decisi che avrei ottenuto più tardi una risposta.

« La sigaretta… » gli ricordai, vedendo l’oggetto cadere dal bracciolo. Lui si voltò a controllare, fissandola per qualche secondo, poi guardò me.

« Senti, adesso? » mi azzardai a chiedere. Chiudemmo entrambi gli occhi: avremmo potuto dormire per un giorno intero su quel vecchio divano.

 

*

 

 Mi rigirai, scoprendo una sorprendente abbondanza di spazio a disposizione. Nella penombra accarezzai una coperta di pile e capii di essere rimasta sola. 

Alzandomi, guardai con attenzione l’appartamento, che ora comprendevo essere un’unica stanza trapezoidale. C’era una porticina piccola e in legno: forse il bagno. Non avevo idea di quante ore avessi dormito e la luce che scarsamente penetrava oltre le persiane semichiuse non riuscì a suggerirmi alcunché. Chissà se Klaus trascorreva le notti sul divano.

« Klaus? »

Cercai i vestiti: giacevano ripiegati sul tavolino di vetro. Li indossai in fretta, senza sapere bene cosa pensare. 

« Klaus? » ripetei fievolmente. Iniziai a camminare per la stanza ed ogni passo mi sembrò qualcosa per cui sarei potuta essere rimproverata. C’era un mobile marrone scuro con le ante scassate, una piccola cucina a gas dalla vernice scrostata, una poltrona coperta da un telo a quadri e quattro mensole spesse; nessuna televisione; il divano, il tavolino e la sedia. Tutto era sormontato da un sottile e grigiastro strato di polvere. Toccai un giradischi vecchio, vuoto, che aveva tutta l’aria di essere lì da sempre. Al suo fianco giaceva un unico disco, lucido e nero, immune alla polvere; per non prenderlo in mano avvicinai la testa, leggendo i titoli al centro… Un rumore riempì la stanza.

Guardai Klaus fissare il divano e chiudere veloce la porta.

« Caroline ». Alzò appena un braccio, mostrando un sacchetto di plastica. « Ho preso qualcosa da mangiare… Spero che il cibo congelato non ti faccia schifo quanto a me ».

« Oh… è okay ».

« Bene ».

« Che ore sono? » chiesi, allontanandomi dal giradischi ed andando piano verso di lui. Presi la busta mentre si toglieva il cappotto e la sciarpa (grigia e spessa, che non avevo mai visto). 

« Le due » disse. « Non volevo svegliarti ».

Annuii senza sapere che dire; aprii la busta di plastica, scoprendo una pizza congelata. Odiavo la pizza congelata. Mi domandai se cibo e appartamento fossero indizi di un portafogli a secco. 

« Accendo il microonde… » 

« Grazie » disse. « Giusto per prepararti, Caroline: ho solo piatti di plastica ». 

Finalmente riuscii a ridere. « Ed io che credevo fossi pomposo… » Camminai fino al giradischi, sollevata. Non percepivo il bisogno di commentare il sesso; mi chiesi se era così che accadeva, quando l’intesa con una persona superava il normale. 

« Tim Buckley… » lessi sul disco. 

« Non lo conosci? » domandò Klaus, guardandomi di sbieco mentre apparecchiava il tavolino basso.

« Ed ora dirai che è il più grande cantante di tutti i tempi e che la mia cultura musicale rasenta il melodramma ».

Si avvicinò. « Ascolta » disse, posizionando il disco ed accendendo il giradischi. Mi sedetti a gambe incrociate sulla poltrona: le molle arrugginite cigolarono. Klaus rimase in piedi, guardandomi con attenzione; il cantante, su una morbida melodia di chitarra, iniziò a… Conoscevo il brano. 

« Non sapevo fosse sua ». 

Klaus si sedette sul divano. « Oltre al pugilato, da adolescente dedicavo molto tempo alla musica. Vivevamo vicino ad un negozio di dischi ».

« A New York? »

« Sì » disse. « Alla deriva in mari deserti facevo del mio meglio per sorridere… nuota verso di me, nuota verso di me, lascia che ti stringa tra le mie braccia… ti sto aspettando per averti » sussurrò, senza coprire la canzone. « Questo mi piace. Non c’è salvezza finché si rimane soli, Caroline ».

Il microonde emise un suono acuto. Osservai Klaus alzarsi ed estrarre la pizza, che tagliò in due parti e appoggiò sui piatti. La voce di Tim Buckley intonò un’altra melodia, ma non riuscii a concentrarmi: pensare a ciò che avevo appena fatto con Klaus ora sembrava inevitabile. Parte dell’entusiasmo s’inabissò. 

« Buon appetito ».

« Sì… grazie ». 

Per un po’ mangiammo in silenzio, entrambi apparentemente riflessivi. Non sentivo neppure il sapore della pizza, tanto stavo cercando di spiare l’uomo al mio fianco. Mi sembrava che qualcosa si fosse rivelato prima di un indefinito tempo.

« Credevo che casa tua fosse piena di pennelli… e roba del genere » dissi. Lui sorrise appena.

« Ho tutto in macchina » spiegò.

« Quando hai imparato? » 

« Intorno ai quindici anni. Vivevamo già a Brooklyn, e a scuola c’era questo corso di pittura ». Lo guardai, più ansiosa di quanto avrei voluto. « Dovevo occupare il tempo ».

« Musica, pugilato, pittura… non si può dire che tu non abbia interessi » mormorai, finendo la mia fetta di pizza. « E di uno ne hai fatto il tuo lavoro ».

Klaus si raddrizzò. « Non come credi tu, Caroline » Abbassò gli occhi per qualche secondo. « Con i quadri è più facile ».

« Non dire queste cose, Klaus. Non mi servono delle scuse ». Scossi la testa. « Il mio libro non è piaciuto, tutto qua ». 

« E questa non sarebbe una scusa? » disse, serio. « Rimanendo a Peaceful non saprai mai se… »

« Basta ». Mi alzai, presi il mio piatto e lo gettai nel cestino. Mi sembrava che fossimo sul punto di rovinare ogni cosa e non sapessimo neppure come ci eravamo finiti. D’un tratto capii di non avere idea di che cosa stessi facendo, e quasi mi vergognai: fuggire dall’ufficio, reagire allo schifo in cui ero precipitata andando a letto con uno sconosciuto, raccontargli i miei problemi ed ascoltare i suoi. L’intera situazione mi sembrò molto più “da manuale”; non c’era nessuna speciale forma d’intesa tra noi.

« Caroline » chiamò la voce di Klaus, vicina. Mi voltai e lo trovai a pochi centimetri da me. Evitai di guardarlo, ma anche sul pavimento mi sembrò d’intravedere l’azzurro dei suoi occhi. 

« Io devo andare, adesso ».

Mi accarezzò i fianchi, senza stringere; mettermi le mani sulle spalle doveva sembrargli troppo amichevole - e, dopotutto, avevamo appena scopato.

« Caroline… »

« Mmm? » mugugnai, senza spostarmi.

« Andrai a casa? »

La sua domanda mi riscosse. Dove credeva che sarei andata? Alzando gli occhi, notai un’ansia strana sul suo volto. Fu lui, allora, a distogliere lo sguardo.

« Certo ».

« E tornerai qui? »

Invece di rispondere, annuii. 

« Vorrei leggere qualcosa di tuo, allora » disse. « E non per farti sentire meglio ». Quindi appoggiò le labbra sulle mie, bloccando ogni commento; ci baciammo per un po’. Klaus baciava lentamente, soprattutto all’inizio, quasi il bacio stesso fosse qualcosa di tremendamente fragile; caramelle da non consumare troppo in fretta.

« Un capitolo » disse, con il fiato corto. Mi allontanai appena, mentre lui andava alla porta. 

« Perché non apri le persiane? » domandai, guardando la finestra ombreggiata. 

Klaus alzò gli occhi al cielo e, per un attimo, mi parve d’intravedere una patina d’irritazione nei suoi gesti. Mi amareggiò così tanto che ingobbii le spalle. Cosa voleva da me? Ma, soprattutto: cosa potevo dargli? Cercai conforto nel pensiero che, magari, si sarebbe accontentato: uno squallido appartamento, una squallida pizza…

« Un racconto, forse » accordai a bassa voce, scappando dalla mestizia dei miei pensieri e da lui.

Quando sentii la porta chiudersi, respirai a pieni polmoni: l’aria fresca mi era mancata quasi quanto la luce del sole. Sorrisi al cielo ed iniziai a camminare, mentre nella testa le ore appena trascorse apparivano sfilacciate come fiotti d’energia elettrica. Solo dopo pochi metri mi accorsi di un uomo che, immobile al centro del marciapiede, guardava dritto verso di me; non lo avevo mai incontrato prima e l’abito elegante, la pettinatura alla moda nonché quella certa perfetta inadeguatezza che ha la gente di città nei luoghi di vacanza, denunciavano a gran voce il suo non appartenere alla comunità locale. Uno straniero.

Decisi di proseguire, ma involontariamente abbassai lo sguardo. Quando lo raggiunsi fu come penetrare un campo magnetico respingente; lo sentii spostarsi lontano da me, in direzione opposta, veloce come un vento freddo.

Continuai a camminare risalendo l’intera via; all’incrocio mi voltai… credetti di non vedere bene per la distanza, la luce e la neve che rifletteva i bagliori di ogni cosa. Eppure, lo straniero aveva bussato al numero otto di Concorde Road… e, sì, colui che gli stava aprendo la porta, mostrando una parte del volto e celando il resto, colui che stava attendendo un breve attimo d’immobilità prima di farsi da parte e nascondere nuovamente ogni cosa, era Klaus.

Perché non apri le persiane?, ricordai come un’eco sbiadita, ancora ferma all’incrocio. Passò un’automobile, lenta e pacifica, a suo agio nel reticolo di strade innevate: era Matt Donovan, che mi salutò al di là del finestrino e proseguì. Dandomi dell’idiota e sentendo per la prima volta d’appartenere anch’io alla Peaceful più calcolatrice e paesana, feci lo stesso.




 

   
 
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