Mi scuso subito per
l’immenso ritardo con cui posto questo capitolo, ma tra scuola, sport,
gite, gare di pattinaggio e altre ff nono sono proprio
riuscita a farcela prima. Mi dispiace davvero tanto. (mi sa che dovrò
fare penitenza…T_T).
Comunque ce l’ho
fatta e anche se il capitolo è piccolino rispetto agli standard, spero
che vi piacerà comunque. Credo che riuscirò a postare il prossimo
entro breve, ovviamente in assenza di qualcosa che me lo impedisca.
E ora…Buona
lettura!!!!
7.
Oblio.
Isabel buttò malamente
i libri nella tracolla rossa e se la mise in spalla senza preoccuparsi di
chiuderla. Se anche i libri cadevano fuori…poco importava! Anzi, non le
importava proprio nulla!
Uscì velocemente dalla
classe senza far caso ai suoi amici che la guardavano preoccupati e chiedevano
silenziosamente risposte; ma non le importava nulla delle loro domande, in quel
momento. Così come non le importava dei giudizi e delle accuse che le
venivano mosse contro. A Isabel, in quel momento, non importava nulla di nessuno,
nemmeno di se stessa.
Decise di deviare per il
parco, così da poter tardare l’arrivo a casa e ai mille compiti
che l’aspettavano lì, e che avevano le fattezze di fogli e carte prive di significato alcuno; cose di cui una sedicenne
come lei non avrebbe mai dovuto occuparsi, perché avrebbe dovuto esserci
un adulto accanto a lei a lasciarla libera di vivere la sua adolescenza. E
invece così non era! No, altroché! Perché lei, un adulto
che la incoraggiava e la proteggeva da quel mondo troppo crudele non ce
l’aveva! Ed era sola in mezzo ad un mare in tempesta, pronta ormai da
molto a smettere di lottare.
Era stanca, terribilmente
stanca!
Da quando una settimana
prima, alla festa a casa di Chasye, era successo quello ch’era successo,
lei non aveva più parlato neanche lontanamente con i suoi amici. Troppe
sarebbero state le domande, troppe le risposte da dare così come le
spiegazioni, e affrontare tutto questo… No, non poteva farcela! Non in
quel momento almeno.
Si era risvegliata
all’ospedale, con Chasya accanto, che aveva un’espressione
indecifrabile in viso. Non si erano nemmeno salutate,
neanche un sorriso sul loro volto. La bionda si era alzata ed era uscita dalla
stanza sbattendo forte la porta, e Isabel era rimasta sola, stesa su quel
lettino che puzzava di disinfettante, a stringere forte i pugni –
così forte da farsi sanguinare le mani – per non permettere a
quelle dannate lacrime salate di scendere lungo il suo viso candido.
Non aveva rivolto la parola a
nessuno da quel momento, nonostante Nemes avesse continuato a tartassarla per
tutto il giorno. Solo alla sera aveva desistito e aveva abbassato la testa
sconfitta, conscia che Isabel non voleva avere niente a che fare con
lei…con loro. E forse lo sguardo addolorato della bionda era stata la prima
ed unica cosa a farle sentire qualcosa quel giorno. Perché non sentiva
più nemmeno il cuore battere nel petto, come se questo le fosse stato
tolto e sostituito con
uno artificiale che però non aveva suono ne movimento.
Dentro di se Isabel non
sentiva che il vuoto!
“ Sei tu Isabel, vero?”
La voce di una ragazza la
risvegliò improvvisamente dai suoi pensieri e la fece voltare: Lania, la
ragazza di Pegasus! Da quelle voci che giravano per la scuola era venuta a
sapere che i due erano tornati insieme, per l’ennesima volta a quanto
aveva capito. Sembrava un continuo tira e molla il loro rapporto, e si
vociferava anche che quella era più o meno la quinta o sesta volta che
si lasciavano per poi rimettersi insieme.
Lania si ritrasse per un
momento quando il volto di Isabel fu chiaro ai suoi occhi: quella non era la
stessa ragazza che aveva visto alla festa della Mizuno e che aveva cantato con
Pegasus!! No, la persona che le stava davanti era
qualcuno che non aveva mai visto.
Il volto magro iniziava ad
essere incavato nelle guance, i lunghi capelli ricadevano scialbi sulle spalle
fragili e gli occhi, quegli occhi profondi come la notte erano spenti, vuoti,
privi di alcunché. L’intera figura sembrava aver perso vita da
quando l’aveva vista l’ultima volta.
“ T-Tu sei Isabel..?” ripeté stavolta più piano, a tratti
spaventata da quel viso vuoto che aveva davanti.
Isabel la guardò
annoiata e annuì distrattamente.
“ Bene, perché
io sono la ragazza di Pegasus.” Dichiarò Lania incrociando le
braccia al petto, raccogliendo il coraggio che le era rimasto dopo quello che aveva visto.
“ Lo so.” Disse
con voce strascicata l’altra.
“ Allora saprai anche
che Pegasus è mio e di nessun altra immagino.”
“ Questa parte devo
essermela persa.” Esclamò Isabel quasi sorpresa, ma con gli occhi
spenti. “ Ma, sinceramente, che vuoi che me ne importi di ‘sta cosa!?”
Le parve quasi di cogliere un
guizzo negli occhi della ragazza che le stava davanti, ma stranamente la cosa
non la divertiva più di tanto come avrebbe
dovuto essere. Non sapeva chi in realtà fosse la persona che in quel
momento le stava parlando, ma non le importava neanche di saperlo.
Perciò le voltò le spalle pronta per andarsene.
“ Ehi tu, mi stai
ascoltando?” la voce di Lania, fattasi improvvisamente stridula e
arrabbiata, le perforò i timpani e la fermò. “ Tu devi
stare alla larga da Pegasus, dal mio
ragazzo, chiaro? Non voglio più vederti gironzolare intorno a lui,
capito?”
Gironzolare?
E quando mai lei aveva fatto
una cosa del genere?
Sentì la rabbia
montarle dentro, quasi volesse esplodere nel suo petto, e le dispiaceva che
proprio quella ragazzina ne sarebbe stata travolta. Perché lei, alla
fine, poco aveva fatto se non far scattare la scintilla che si sarebbe poi
trasformata in fuoco.
Ma non era solo rabbia quella
che ora bruciava in ogni parte del suo corpo, era anche fastidio per quel tono
stridulo e accusatorio che Lania le aveva rivolto contro.
Puttana!
Ecco cosa le urlava
quell’accusa. E questo, lei, non poteva tollerarlo! Aveva gia sopportato
troppo in quel periodo, troppo. E non avrebbe sopportato oltre!
Si tolse velocemente la
tracolla e la lanciò poco distante, nella polvere; alzò lo
sguardo scuro sulla ragazza che le stava davanti e la vide sussultare
spaventata mentre fissava i suoi occhi ora pieni di qualcosa a cui non riusciva
a dare un nome.
“ Ora tu mi ascolti
bene!” dichiarò Isabel puntandole contro un dito, nella voce una
calma e una determinazione incredibili. “ Primo: io non so chi tu sia e
neanche cosa vuoi da me, e sinceramente non m’importa. Secondo: io non ho
mai gironzolato intorno al tuo
ragazzo. Terzo: non provare mai più a darmi della puttana, neanche se sottointeso. Quarto:
cresci!”
Lania non era riuscita a
staccare gli occhi da Isabel nemmeno per un attimo, troppo spaventata da quello
che le avrebbe potuto fare. Ma in quel momento, lì in quel parco bagnato
dagli ultimi sprazzi di sole, a farle veramente male non furono calci o pungi,
che comunque non le arrivarono mai. No, furono le parole di Isabel che,
taglienti come lame di rasoi nonostante fossero traboccanti di calma e
razionalità, furono un pugno nello stomaco per lei. E furono anche gli
occhi di Isabel, che non nascondevano solo rabbia e insofferenza, ma anche
dolore e stanchezza.
Lania fuggì a quello
sguardo accusatorio che non poteva sostenere. Lei, che nonostante tutto era
stata felice anche se i suoi veri genitori
l’avevano abbandonata e lei era cresciuta in una famiglia adottiva, non
poteva sopportare su di se uno sguardo carico di dolore e odio; riusciva a
riconoscere quei sentimenti, ma non riusciva a comprenderli. Perché
quegli occhi sembravano troppo maturi per appartenere ad una ragazza che aveva
appena la sua età.
Prese a correre furiosamente
per uscire dal parco, incurante del fatto che Isabel non si fosse mossa di un
passo, che avesse mantenuto un’espressione neutra e distaccata:
un’espressione totalmente vuota!
bïa
Isabel alzò la testa
verso il cielo non riuscendo effettivamente a vederlo.
Le mani presero a tremarle
convulsivamente così come tutto il corpo, sentì il cuore pompare
sempre più veloce e il respiro farsi corto. Non riusciva più a
respirare, stava soffocando. Si avvicinò tremante alla borsa ed estrasse
un contenitore azzurro con dentro delle pastiglie bianche: i calmanti! La
dottoressa che gliele aveva date una settimana prima le aveva raccomandato di
non prenderle troppo spesso, ma Isabel non aveva ascoltato, e le aveva prese
ogni giorno nella speranza che non succedesse quello che, effettivamente, le
stava succedendo.
Aprì velocemente il
tappo e ingurgitò tre o quattro pastiglie in una volta per poi
accasciarsi al suolo con la testa più dolorante di
prima e le convulsioni che diventavano ogni secondo più potenti. Si
passò una mano tra i capelli sporchi di polvere cercando di togliersi di
dosso il sudore che le imperlava la fronte e la rendeva appiccicaticcia.
Fu in quel momento, persa nei
deliri del dolore e della colpa, che lo vide di nuovo. Ancora una volta. E
ancora una volta le sembrò che i suoi occhi scuri come la notte la
stessero giudicando e incolpando.
“ Mi dispiace…”
La voce flebile e roca le
uscì in un sussurro appena percettibile, anche se avrebbe voluto
gridarlo.
Avrebbe voluto urlargli che
le dispiaceva, che le mancava e che…che dei suoi sogni non le importava
nulla. Tutto…pur di riaverlo accanto come un tempo che ormai sembrava
lontanissimo, quasi inesistente.
“ Mi dispiace…”
“ Davvero…!”
Non seppe nemmeno lei dove
trovò la forza per pronunciare anche quel “davvero”.
Gli occhi iniziarono pian
piano a chiudersi e si sentì sprofondare nell’oblio più tetro,
quello da cui non c’è via d’uscita. Ma le andava bene
così!
Si, perché così facendo avrebbe potuto nascondersi ancora una volta. Avrebbe
potuto giocare a Nascondino per
l’ennesima volta, e fingere che tutto quello non era reale, ma solo il
frutto del suo dolore e delle sue paure. Avrebbe potuto farlo ancora una volta
e fuggire da una realtà che la feriva più di ogni altra cosa al
mondo.
Avrebbe potuto farlo…e
lo fece!
Cedette all’oblio!
bïa
Patricia rideva spensierata
mentre passeggiava con la madre a ritorno da una “giornata tra
donne” che non passavano da tanto, troppo tempo. Sua madre era una donna
in affari, una di quelle che ogni mattina si mettono un tailleur di un colore
smorto e prendono la macchina per andare a lavoro, per passare praticamente
tutta la giornata seduta con le gambe accavallate dietro una scrivania, oppure
intente ad ascoltare un consiglio d’amministrazione e cose simili.
Ma sua madre era anche una madre, e proprio per questo ogni tanto
sfuggiva a quelle giornate monotone per andare in giro per negozi con la
figlia, oppure a prendere un caffè o a bere un drink con un’amica.
Forse sua madre era una delle poche donne in carriera che riuscivano a
conciliare lavoro e famiglia!
Patricia lanciò uno
sguardo di sfuggita alla bella donna che le stava accanto e che in quel momento
controllava l’orologio; era alta, sua madre, per essere una donna, con un
fisico magro e slanciato da far invidia a qualsiasi ragazza, anche se ormai i
suoi 40 anni iniziavano a mostrarsi dalle piccole rughe che di tanto in tanto
le rigavano la fronte.
Aveva i capelli neri come
l’ebano, lunghi fino alle scapole e lisci come la seta.
Gli occhi azzurri come il
ghiaccio, pallido e tagliente, ma pur sempre bellissimo.
Kioko Tsuji era sempre stata
bella, fin da piccola, ma con il passare del tempo la sua bellezza s’era
accentuata e trasformata, sino a farla divenire – ad occhi esterni
– una donna raffinata ed elegante sulla quarantina; ed era anche in gamba
oltre ad essere bella. Riusciva a guidare perfettamente la grande compagnia che
possedeva, anche senza il marito.
Ma per Pegasus e Patricia lei
non era solo questo. No! Per loro era la donna che gli aveva fatto da madre, la
donna che li aveva accuditi fin dall’infanzia, che gli aveva dato
l’amore materno che avevano perso tempo prima.
“ Ehi, guarda
com’è tardi!” esclamò Kioko dopo aver guardato
l’orologio.
“ Mi sa che ci siamo
dilungate un po’ troppo come al solito.” Ridacchiò Patricia
con una rapida occhiata alle borse che tenevano in mano.
“ Gia.”
Annuì la madre. “ Ma ora è meglio se
rientriamo. Di qua, vieni!” e la prese per mano
conducendola attraverso quello che sembrava un parco.
“ Non ci sono mai stata
qui.” Ammise la rossa guardandosi intorno come una bambina curiosa.
Kioko ridacchiò. “ Non mi sorprendo affatto. Sai, in questo parco,
tanti anni fa, tuo padre mi chiese di sposarlo.”
Raccontò persa nei ricordi di quasi vent’anni prima.
“ Davvero?”
“ Oh, si!”
annuì la donna. “ Era il 25 aprile e noi eravamo venuti qui per fare una passeggiata; il sole stava tramontando
quando, all’improvviso, tuo padre si è inginocchiato davanti a me,
ha preso fuori dalla tasca una scatolina nera e mi ha chiesto di sposarlo.
Avevo vent’anni.”
Patricia sorrise vedendo gli
occhi della madre illuminarsi di gioia a quei ricordi. Le era sempre piaciuto
ascoltarla mentre le raccontava degli anni in cui anche lei era una ragazzina
piena di sogni e di ambizioni; sogni e ambizione che, ogni tanto,
l’avevano portata in conflitto con il resto della famiglia. Perché
Kioko era bella si, ma anche intelligente e
intraprendente, e non le andava che qualcun altro decidesse per la sua vita.
Aveva litigato tanto con i suoi genitori a causa di questo, e più volte
era scappata di casa. Era stato proprio durante una di queste fughe che aveva incontrato
l’uomo che sarebbe poi divenuto suo marito. E loro erano ancora
innamorati come allora, come due sedicenni alla loro prima cotta.
Gli occhi di Kioko erano
ancora illuminati dalla felicità e dai ricordi quando, improvvisamente,
Patricia si bloccò e cacciò un urlo spaventoso. La donna scosse preoccupata la figlia per le spalle mentre
questa continuava a tenere gli occhi fissi davanti a se, quasi vuoti.
“ Trish…Patricia
cosa c’è???” le chiese quasi
urlando.
La rossa alzò tremante
una mano e indicò davanti a se, qualcosa che la madre non aveva
sicuramente visto. Kioko si voltò in quella direzione e spalancò
gli occhi.
Una ragazza, una ragazza era
riversa al suolo.
“ O mio…”
sussurrò spaventata.
Lasciò cadere a terra
le borse e si fiondò sul corpo immobile e sudato della giovane. Le
tastò il polso preoccupata e, con sua immensa gioia, notò che il
battito c’era ancora. Si voltò verso la figlia che aveva ancora
gli occhi spalancati e che non si era mossa di un millimetro dalla sua posizione.
“ Patricia dammi una mano!”
la incoraggiò facendole segno di avvicinarsi.
Ma la ragazza non dava segno
di averla sentita, e non perché fosse totalmente paralizzata dalla
paura, ma perché davanti a lei stava il corpo di un’amica, una
ragazza che aveva conosciuto quasi per caso ma che gia sentiva parte di se e
della sua vita. Una ragazza così fragile nell’aspetto, ma che
negli occhi nascondeva una forza immensa, una forza che aiuta a rialzarsi anche
da soli da situazioni terribili.
E l’aveva vista
specchiarsi nei suoi occhi quella situazione terribile.
Come un lampo, o meglio una
vena di dolore e tristezza che tendeva ad offuscare quei bellissimi e magnetici
occhi blu notte. Sapeva…sentiva che lei aveva sofferto tanto, anche se
non lo dava a vedere; nascondeva nel profondo del suo cuore quella debolezza
che era anche la sua forza.
“ Isabel…”
bïa
Due mesi prima…
Faceva caldo quella sera, e
l’aria leggermente frizzante le solleticava le braccia scoperte; dal
tettuccio aperto della decapottabile le luci e i colori sfavillanti di New York
creavano magnifiche illusioni.
L’adrenalina che le
scorreva in corpo dopo la fine del concerto ancora non se n’era andata, e
la faceva sorridere in continuazione facendola sentire felice.
Per quella serata aveva
optato per un look leggermente diverso dal suo solito, tanto per rendere un
evento speciale ancora più speciale. Aveva indossato una minigonna di
jeans, una canottiera bianca con le spalline strette e sopra un gilet senza
maniche nero; sulla mano destra un guanto di rete nera mentre sul polso
sinistro aveva intrecciato tutta una serie di braci alletti di perline blu,
nere e viola. Aveva lasciato sciolti i lunghi capelli di seta e vi aveva messo
sopra una rosa nera. Ai piedi degli stivaletti neri con il tacco alto e sulla
vita una cintura rossa, viola e blu.
Ah, che bel concerto
ch’era stato quello. La folla esultante, la musica a palla e lei, sul
palco e con il microfono in mano, che cantava l’ultima canzone che
avevano inciso poco tempo prima. Era stata un’emozione unica ed
irripetibile, come se all’improvviso tutto il mondo circostante non
esistesse più, ma ai suoi occhi ci fosse solo la musica e ciò che
cantare le trasmetteva. Un mondo che ormai sapeva suo.
“ Ancora elettrizzata,
eh?” le chiese suo nonno, seduto davanti a lei, riportandola
improvvisamente alla realtà.
Lei lo fissò per un
momento e poi scoppiò a ridere come una bambina. “ Puoi dirlo
forte nonno!”
Si lasciò andare
contro al sedile e inclinò la testa per guardare le stelle; non si era
mai sentita come in quel momento, felice e piena di vita.
Chiuse gli occhi pensando
che, il giorno dopo, avrebbe dovuto chiamare Chasya per raccontarle tutto,
altrimenti la sua migliore amica l’avrebbe presa per il collo. Ah,
Chasya…chissà da quanto non la vedeva. E dire che erano
praticamente cresciute insieme, ma poi quel trasferimento improvviso in
America…
Decise di non pensarci in
quel momento, e tornò a guardare le stelle che brillavano timidamente
nel cielo notturno della grande mela.
Poi, all’improvviso, un
fischio sordo la ridestò dalle fantasie in cui si era persa;
saltò su e sgranò gli occhi un attimo prima che tutto accadesse.
Da quel momento in poi non seppe dire quanto tempo fosse passato, cosa avesse
realmente visto e dove si trovasse. Di quel bruttissimo istante rammentava solo
un paio di fari e un boato, ma l’esplosione, le fiamme e la confusione
che seguirono non li sentì.
Chiuse gli occhi e si
lasciò andare senza forza all’oblio…
Allora????
Un po’ corto,
eh??? Mi dispiace davvero ma ho fatto quanto potuto,
anche perché il capitolo in se era forse uno a cui tenevo di più.
Spero di essere riuscita a farlo come volevo e, se così non è
stato, vi chiedo scusa.
Grazie di cuore a chi
ha commentato e anche a chi continua a seguirmi nonostante i ritardi e tutto il
resto. Grazie davvero!!!
Al prossimo capitolo
(spero presto).
Baci…Rain!!!!