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Autore: Rain e Ren    28/03/2009    1 recensioni
Isabel: una vita da dimenticare; il cuore colmo di rabbia e dolore. Un sogno abbandonato nei meandri dell’anima.
Pegasus, Sirio, Cristal, Andromeda e Phoenix: cinque amici come fratelli; provengono dallo stesso mondo, abitano nello stesso mondo. Sogni e capacità nascoste anche a loro stessi.
Erì, Esmeralda, Nemes e Fiore di Luna: quattro ragazze come sorelle; stesso mondo da condividere da ormai troppo tempo. La voglia di evadere dentro i loro occhi.
Aggiungeteci una scuola fuori dagli schemi, fidanzate gelose ed ex anche peggio, pretendenti asfissianti, famiglie ricche sfondate, amicizie dal passato, segreti celati nel cuore e tanta musica unita ad una passione racchiusa nell’anima ed ecco il risultato!
Genere: Romantico, Triste, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Saori Kido, Un po' tutti
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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Mi scuso subito per l’immenso ritardo con cui posto questo capitolo, ma tra scuola, sport, gite, gare di pattinaggio e altre ff nono sono proprio riuscita a farcela prima

Mi scuso subito per l’immenso ritardo con cui posto questo capitolo, ma tra scuola, sport, gite, gare di pattinaggio e altre ff nono sono proprio riuscita a farcela prima. Mi dispiace davvero tanto. (mi sa che dovrò fare penitenza…T_T).

Comunque ce l’ho fatta e anche se il capitolo è piccolino rispetto agli standard, spero che vi piacerà comunque. Credo che riuscirò a postare il prossimo entro breve, ovviamente in assenza di qualcosa che me lo impedisca.

E ora…Buona lettura!!!!

 

 

 

 

 

7. Oblio.

 

 

 

 

Isabel buttò malamente i libri nella tracolla rossa e se la mise in spalla senza preoccuparsi di chiuderla. Se anche i libri cadevano fuori…poco importava! Anzi, non le importava proprio nulla!

Uscì velocemente dalla classe senza far caso ai suoi amici che la guardavano preoccupati e chiedevano silenziosamente risposte; ma non le importava nulla delle loro domande, in quel momento. Così come non le importava dei giudizi e delle accuse che le venivano mosse contro. A Isabel, in quel momento, non importava nulla di nessuno, nemmeno di se stessa.

Decise di deviare per il parco, così da poter tardare l’arrivo a casa e ai mille compiti che l’aspettavano lì, e che avevano le fattezze di fogli e carte prive di significato alcuno; cose di cui una sedicenne come lei non avrebbe mai dovuto occuparsi, perché avrebbe dovuto esserci un adulto accanto a lei a lasciarla libera di vivere la sua adolescenza. E invece così non era! No, altroché! Perché lei, un adulto che la incoraggiava e la proteggeva da quel mondo troppo crudele non ce l’aveva! Ed era sola in mezzo ad un mare in tempesta, pronta ormai da molto a smettere di lottare.

Era stanca, terribilmente stanca!

Da quando una settimana prima, alla festa a casa di Chasye, era successo quello ch’era successo, lei non aveva più parlato neanche lontanamente con i suoi amici. Troppe sarebbero state le domande, troppe le risposte da dare così come le spiegazioni, e affrontare tutto questo… No, non poteva farcela! Non in quel momento almeno.

Si era risvegliata all’ospedale, con Chasya accanto, che aveva un’espressione indecifrabile in viso. Non si erano nemmeno salutate, neanche un sorriso sul loro volto. La bionda si era alzata ed era uscita dalla stanza sbattendo forte la porta, e Isabel era rimasta sola, stesa su quel lettino che puzzava di disinfettante, a stringere forte i pugni – così forte da farsi sanguinare le mani – per non permettere a quelle dannate lacrime salate di scendere lungo il suo viso candido.

Non aveva rivolto la parola a nessuno da quel momento, nonostante Nemes avesse continuato a tartassarla per tutto il giorno. Solo alla sera aveva desistito e aveva abbassato la testa sconfitta, conscia che Isabel non voleva avere niente a che fare con lei…con loro. E forse lo sguardo addolorato della bionda era stata la prima ed unica cosa a farle sentire qualcosa quel giorno. Perché non sentiva più nemmeno il cuore battere nel petto, come se questo le fosse stato tolto e sostituito con  uno artificiale che però non aveva suono ne movimento.

Dentro di se Isabel non sentiva che il vuoto!

“ Sei tu Isabel, vero?”

La voce di una ragazza la risvegliò improvvisamente dai suoi pensieri e la fece voltare: Lania, la ragazza di Pegasus! Da quelle voci che giravano per la scuola era venuta a sapere che i due erano tornati insieme, per l’ennesima volta a quanto aveva capito. Sembrava un continuo tira e molla il loro rapporto, e si vociferava anche che quella era più o meno la quinta o sesta volta che si lasciavano per poi rimettersi insieme.

Lania si ritrasse per un momento quando il volto di Isabel fu chiaro ai suoi occhi: quella non era la stessa ragazza che aveva visto alla festa della Mizuno e che aveva cantato con Pegasus!! No, la persona che le stava davanti era qualcuno che non aveva mai visto.

Il volto magro iniziava ad essere incavato nelle guance, i lunghi capelli ricadevano scialbi sulle spalle fragili e gli occhi, quegli occhi profondi come la notte erano spenti, vuoti, privi di alcunché. L’intera figura sembrava aver perso vita da quando l’aveva vista l’ultima volta.

“ T-Tu sei Isabel..?” ripeté stavolta più piano, a tratti spaventata da quel viso vuoto che aveva davanti.

Isabel la guardò annoiata e annuì distrattamente.

“ Bene, perché io sono la ragazza di Pegasus.” Dichiarò Lania incrociando le braccia al petto, raccogliendo il coraggio che le era rimasto dopo quello che aveva visto.

“ Lo so.” Disse con voce strascicata l’altra.

“ Allora saprai anche che Pegasus è mio e di nessun altra immagino.”

“ Questa parte devo essermela persa.” Esclamò Isabel quasi sorpresa, ma con gli occhi spenti. “ Ma, sinceramente, che vuoi che me ne importi di ‘sta cosa!?

Le parve quasi di cogliere un guizzo negli occhi della ragazza che le stava davanti, ma stranamente la cosa non la divertiva più di tanto come avrebbe dovuto essere. Non sapeva chi in realtà fosse la persona che in quel momento le stava parlando, ma non le importava neanche di saperlo. Perciò le voltò le spalle pronta per andarsene.

“ Ehi tu, mi stai ascoltando?” la voce di Lania, fattasi improvvisamente stridula e arrabbiata, le perforò i timpani e la fermò. “ Tu devi stare alla larga da Pegasus, dal mio ragazzo, chiaro? Non voglio più vederti gironzolare intorno a lui, capito?

Gironzolare?

E quando mai lei aveva fatto una cosa del genere?

Sentì la rabbia montarle dentro, quasi volesse esplodere nel suo petto, e le dispiaceva che proprio quella ragazzina ne sarebbe stata travolta. Perché lei, alla fine, poco aveva fatto se non far scattare la scintilla che si sarebbe poi trasformata in fuoco.

Ma non era solo rabbia quella che ora bruciava in ogni parte del suo corpo, era anche fastidio per quel tono stridulo e accusatorio che Lania le aveva rivolto contro.

Puttana!

Ecco cosa le urlava quell’accusa. E questo, lei, non poteva tollerarlo! Aveva gia sopportato troppo in quel periodo, troppo. E non avrebbe sopportato oltre!

Si tolse velocemente la tracolla e la lanciò poco distante, nella polvere; alzò lo sguardo scuro sulla ragazza che le stava davanti e la vide sussultare spaventata mentre fissava i suoi occhi ora pieni di qualcosa a cui non riusciva a dare un nome.

“ Ora tu mi ascolti bene!” dichiarò Isabel puntandole contro un dito, nella voce una calma e una determinazione incredibili. “ Primo: io non so chi tu sia e neanche cosa vuoi da me, e sinceramente non m’importa. Secondo: io non ho mai gironzolato intorno al tuo ragazzo. Terzo: non provare mai più a darmi della puttana, neanche se sottointeso. Quarto: cresci!”

Lania non era riuscita a staccare gli occhi da Isabel nemmeno per un attimo, troppo spaventata da quello che le avrebbe potuto fare. Ma in quel momento, lì in quel parco bagnato dagli ultimi sprazzi di sole, a farle veramente male non furono calci o pungi, che comunque non le arrivarono mai. No, furono le parole di Isabel che, taglienti come lame di rasoi nonostante fossero traboccanti di calma e razionalità, furono un pugno nello stomaco per lei. E furono anche gli occhi di Isabel, che non nascondevano solo rabbia e insofferenza, ma anche dolore e stanchezza.

Lania fuggì a quello sguardo accusatorio che non poteva sostenere. Lei, che nonostante tutto era stata felice anche se i suoi veri genitori l’avevano abbandonata e lei era cresciuta in una famiglia adottiva, non poteva sopportare su di se uno sguardo carico di dolore e odio; riusciva a riconoscere quei sentimenti, ma non riusciva a comprenderli. Perché quegli occhi sembravano troppo maturi per appartenere ad una ragazza che aveva appena la sua età.

Prese a correre furiosamente per uscire dal parco, incurante del fatto che Isabel non si fosse mossa di un passo, che avesse mantenuto un’espressione neutra e distaccata: un’espressione totalmente vuota!

 

bïa

 

Isabel alzò la testa verso il cielo non riuscendo effettivamente a vederlo.

Le mani presero a tremarle convulsivamente così come tutto il corpo, sentì il cuore pompare sempre più veloce e il respiro farsi corto. Non riusciva più a respirare, stava soffocando. Si avvicinò tremante alla borsa ed estrasse un contenitore azzurro con dentro delle pastiglie bianche: i calmanti! La dottoressa che gliele aveva date una settimana prima le aveva raccomandato di non prenderle troppo spesso, ma Isabel non aveva ascoltato, e le aveva prese ogni giorno nella speranza che non succedesse quello che, effettivamente, le stava succedendo.

Aprì velocemente il tappo e ingurgitò tre o quattro pastiglie in una volta per poi accasciarsi al suolo con la testa più dolorante di prima e le convulsioni che diventavano ogni secondo più potenti. Si passò una mano tra i capelli sporchi di polvere cercando di togliersi di dosso il sudore che le imperlava la fronte e la rendeva appiccicaticcia.

Fu in quel momento, persa nei deliri del dolore e della colpa, che lo vide di nuovo. Ancora una volta. E ancora una volta le sembrò che i suoi occhi scuri come la notte la stessero giudicando e incolpando.

 

“ Mi dispiace…”

 

La voce flebile e roca le uscì in un sussurro appena percettibile, anche se avrebbe voluto gridarlo.

Avrebbe voluto urlargli che le dispiaceva, che le mancava e che…che dei suoi sogni non le importava nulla. Tutto…pur di riaverlo accanto come un tempo che ormai sembrava lontanissimo, quasi inesistente.

 

“ Mi dispiace…”

“ Davvero…!”

 

Non seppe nemmeno lei dove trovò la forza per pronunciare anche quel “davvero”.

Gli occhi iniziarono pian piano a chiudersi e si sentì sprofondare nell’oblio più tetro, quello da cui non c’è via d’uscita. Ma le andava bene così!

Si, perché così facendo avrebbe potuto nascondersi ancora una volta. Avrebbe potuto giocare a Nascondino per l’ennesima volta, e fingere che tutto quello non era reale, ma solo il frutto del suo dolore e delle sue paure. Avrebbe potuto farlo ancora una volta e fuggire da una realtà che la feriva più di ogni altra cosa al mondo.

Avrebbe potuto farlo…e lo fece!

Cedette all’oblio!

 

bïa

 

Patricia rideva spensierata mentre passeggiava con la madre a ritorno da una “giornata tra donne” che non passavano da tanto, troppo tempo. Sua madre era una donna in affari, una di quelle che ogni mattina si mettono un tailleur di un colore smorto e prendono la macchina per andare a lavoro, per passare praticamente tutta la giornata seduta con le gambe accavallate dietro una scrivania, oppure intente ad ascoltare un consiglio d’amministrazione e cose simili.

Ma sua madre era anche una madre, e proprio per questo ogni tanto sfuggiva a quelle giornate monotone per andare in giro per negozi con la figlia, oppure a prendere un caffè o a bere un drink con un’amica. Forse sua madre era una delle poche donne in carriera che riuscivano a conciliare lavoro e famiglia!

Patricia lanciò uno sguardo di sfuggita alla bella donna che le stava accanto e che in quel momento controllava l’orologio; era alta, sua madre, per essere una donna, con un fisico magro e slanciato da far invidia a qualsiasi ragazza, anche se ormai i suoi 40 anni iniziavano a mostrarsi dalle piccole rughe che di tanto in tanto le rigavano la fronte.

Aveva i capelli neri come l’ebano, lunghi fino alle scapole e lisci come la seta.

Gli occhi azzurri come il ghiaccio, pallido e tagliente, ma pur sempre bellissimo.

Kioko Tsuji era sempre stata bella, fin da piccola, ma con il passare del tempo la sua bellezza s’era accentuata e trasformata, sino a farla divenire – ad occhi esterni – una donna raffinata ed elegante sulla quarantina; ed era anche in gamba oltre ad essere bella. Riusciva a guidare perfettamente la grande compagnia che possedeva, anche senza il marito.

Ma per Pegasus e Patricia lei non era solo questo. No! Per loro era la donna che gli aveva fatto da madre, la donna che li aveva accuditi fin dall’infanzia, che gli aveva dato l’amore materno che avevano perso tempo prima.

“ Ehi, guarda com’è tardi!” esclamò Kioko dopo aver guardato l’orologio.

“ Mi sa che ci siamo dilungate un po’ troppo come al solito.” Ridacchiò Patricia con una rapida occhiata alle borse che tenevano in mano.

“ Gia.” Annuì la madre. “ Ma ora è meglio se rientriamo. Di qua, vieni!” e la prese per mano conducendola attraverso quello che sembrava un parco.

“ Non ci sono mai stata qui.” Ammise la rossa guardandosi intorno come una bambina curiosa.

Kioko ridacchiò. “ Non mi sorprendo affatto. Sai, in questo parco, tanti anni fa, tuo padre mi chiese di sposarlo. Raccontò persa nei ricordi di quasi vent’anni prima.

“ Davvero?”

“ Oh, si!” annuì la donna. “ Era il 25 aprile e noi eravamo venuti qui per fare una passeggiata; il sole stava tramontando quando, all’improvviso, tuo padre si è inginocchiato davanti a me, ha preso fuori dalla tasca una scatolina nera e mi ha chiesto di sposarlo. Avevo vent’anni.”

Patricia sorrise vedendo gli occhi della madre illuminarsi di gioia a quei ricordi. Le era sempre piaciuto ascoltarla mentre le raccontava degli anni in cui anche lei era una ragazzina piena di sogni e di ambizioni; sogni e ambizione che, ogni tanto, l’avevano portata in conflitto con il resto della famiglia. Perché Kioko era bella si, ma anche intelligente e intraprendente, e non le andava che qualcun altro decidesse per la sua vita. Aveva litigato tanto con i suoi genitori a causa di questo, e più volte era scappata di casa. Era stato proprio durante una di queste fughe che aveva incontrato l’uomo che sarebbe poi divenuto suo marito. E loro erano ancora innamorati come allora, come due sedicenni alla loro prima cotta.

Gli occhi di Kioko erano ancora illuminati dalla felicità e dai ricordi quando, improvvisamente, Patricia si bloccò e cacciò un urlo spaventoso. La donna scosse preoccupata la figlia per le spalle mentre questa continuava a tenere gli occhi fissi davanti a se, quasi vuoti.

“ Trish…Patricia cosa c’è???” le chiese quasi urlando.

La rossa alzò tremante una mano e indicò davanti a se, qualcosa che la madre non aveva sicuramente visto. Kioko si voltò in quella direzione e spalancò gli occhi.

Una ragazza, una ragazza era riversa al suolo.

“ O mio…” sussurrò spaventata.

Lasciò cadere a terra le borse e si fiondò sul corpo immobile e sudato della giovane. Le tastò il polso preoccupata e, con sua immensa gioia, notò che il battito c’era ancora. Si voltò verso la figlia che aveva ancora gli occhi spalancati e che non si era mossa di un millimetro dalla sua posizione.

“ Patricia dammi una mano!” la incoraggiò facendole segno di avvicinarsi.

Ma la ragazza non dava segno di averla sentita, e non perché fosse totalmente paralizzata dalla paura, ma perché davanti a lei stava il corpo di un’amica, una ragazza che aveva conosciuto quasi per caso ma che gia sentiva parte di se e della sua vita. Una ragazza così fragile nell’aspetto, ma che negli occhi nascondeva una forza immensa, una forza che aiuta a rialzarsi anche da soli da situazioni terribili.

E l’aveva vista specchiarsi nei suoi occhi quella situazione terribile.

Come un lampo, o meglio una vena di dolore e tristezza che tendeva ad offuscare quei bellissimi e magnetici occhi blu notte. Sapeva…sentiva che lei aveva sofferto tanto, anche se non lo dava a vedere; nascondeva nel profondo del suo cuore quella debolezza che era anche la sua forza.

 

“ Isabel…”

 

bïa

 

Due mesi prima…

 

Faceva caldo quella sera, e l’aria leggermente frizzante le solleticava le braccia scoperte; dal tettuccio aperto della decapottabile le luci e i colori sfavillanti di New York creavano magnifiche illusioni.

L’adrenalina che le scorreva in corpo dopo la fine del concerto ancora non se n’era andata, e la faceva sorridere in continuazione facendola sentire felice.

Per quella serata aveva optato per un look leggermente diverso dal suo solito, tanto per rendere un evento speciale ancora più speciale. Aveva indossato una minigonna di jeans, una canottiera bianca con le spalline strette e sopra un gilet senza maniche nero; sulla mano destra un guanto di rete nera mentre sul polso sinistro aveva intrecciato tutta una serie di braci alletti di perline blu, nere e viola. Aveva lasciato sciolti i lunghi capelli di seta e vi aveva messo sopra una rosa nera. Ai piedi degli stivaletti neri con il tacco alto e sulla vita una cintura rossa, viola e blu.

Ah, che bel concerto ch’era stato quello. La folla esultante, la musica a palla e lei, sul palco e con il microfono in mano, che cantava l’ultima canzone che avevano inciso poco tempo prima. Era stata un’emozione unica ed irripetibile, come se all’improvviso tutto il mondo circostante non esistesse più, ma ai suoi occhi ci fosse solo la musica e ciò che cantare le trasmetteva. Un mondo che ormai sapeva suo.

“ Ancora elettrizzata, eh?” le chiese suo nonno, seduto davanti a lei, riportandola improvvisamente alla realtà.

Lei lo fissò per un momento e poi scoppiò a ridere come una bambina. “ Puoi dirlo forte nonno!”

Si lasciò andare contro al sedile e inclinò la testa per guardare le stelle; non si era mai sentita come in quel momento, felice e piena di vita. 

Chiuse gli occhi pensando che, il giorno dopo, avrebbe dovuto chiamare Chasya per raccontarle tutto, altrimenti la sua migliore amica l’avrebbe presa per il collo. Ah, Chasya…chissà da quanto non la vedeva. E dire che erano praticamente cresciute insieme, ma poi quel trasferimento improvviso in America…

Decise di non pensarci in quel momento, e tornò a guardare le stelle che brillavano timidamente nel cielo notturno della grande mela.

Poi, all’improvviso, un fischio sordo la ridestò dalle fantasie in cui si era persa; saltò su e sgranò gli occhi un attimo prima che tutto accadesse. Da quel momento in poi non seppe dire quanto tempo fosse passato, cosa avesse realmente visto e dove si trovasse. Di quel bruttissimo istante rammentava solo un paio di fari e un boato, ma l’esplosione, le fiamme e la confusione che seguirono non li sentì.

Chiuse gli occhi e si lasciò andare senza forza all’oblio…

 

 

 

 

 

 

 

Allora????

Un po’ corto, eh??? Mi dispiace davvero ma ho fatto quanto potuto, anche perché il capitolo in se era forse uno a cui tenevo di più. Spero di essere riuscita a farlo come volevo e, se così non è stato, vi chiedo scusa.

Grazie di cuore a chi ha commentato e anche a chi continua a seguirmi nonostante i ritardi e tutto il resto. Grazie davvero!!!

Al prossimo capitolo (spero presto).

Baci…Rain!!!!

   
 
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