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Autore: Brat    13/03/2016    1 recensioni
–Sei cresciuta meglio da sola che con noi intorno, sono orgoglioso di te- la sua mano era fredda, gelida come il marmo. La ragazza abbassò lo sguardo.
-Non dovresti, non ho combinato molto, non sono tornata per nostalgia, sono qui perché ho fallito-
-E come avresti fallito?-
-Non ho.. realizzato niente, papà, faccio la sguattera per 400 dollari al mese all’Hotel Downtown Berkeley Inn, sono solo una..-
-Sei felice?-
-Come?-
-Mi hai sentito, allora, lo sei?-
-Bè.. si. Suppongo di si.-
-Sei più felice della notte che sei partita?-
-Si, certo.-
-Allora non hai fallito. Non sei andata via per trovare un buon lavoro, sei andata via per essere felice. A me non interessa chi sei ora, o cosa fai, voglio solo che tu sia felice. Non posso provare rancore per te, eri una ragazzina, avevi il diritto di provare ad esserlo. A volte quando si perde si ha vinto, anche se non ne la maniera che ci aspettavamo- lei sorrise e ora una piccola, solitaria lacrima, strisciava lentamente giù per la sua guancia, invisibile nella penombra.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo è un pezzo estratto dalla storia che sto scrivendo, perciò suppongo che necessiti di una piccola prefazione.
Nella storia una delle protagoniste, Jane, originaria di Rodeo, California,  scappa di casa all’età di sedici anni senza dire niente a nessuno, o lasciare un biglietto. In pratica scompare. La storia inizia quattro anni più tardi, quando dopo aver fallito miseramente ed essersi ritrovata a fare un lavoro di merda incastrata in  una vita minuscola, sarà costretta ad aiutare una ragazzina proveniente dai quartieri ricchi di Seattle: Mary Smith, che ha tentato il suicidio dopo aver trovato i cadaveri dei propri genitori uccisi da un ladro introdottosi in casa sua. Invischiatasi in una serie di guai da cui non può far altro che scappare, decide di tornare nella sua città natale, dove scoprirà non esser rimasto nessuno dei suoi vecchi amici, tutti andati a vivere a  Berkeley ( venti di minuti da Rodeo), amici ai quali chiederà asilo e che, nonostante l’astio per la sua totale sparizione, accetteranno di ospitarla.

Ritornata nella vecchia vita, però, Jane non riesce a smettere di rimuginare sul fatto di essere scappata di casa e aver lasciato il padre da solo con sua madre, che odiava, più che per l’atteggiamento che la donna dimostrava nei suoi confronti, per il modo in cui trattava il marito, non per cattiveria, ma per un puro, malato e proverbiale egoismo.
Così, la mattina dopo una notte insonne passata a tentare di evitare la festa, decide che è giunto il momento di tornare a casa propria, al numero 500 sulla 6th street, nella periferia di Rodeo.
 
 
 
 
Jane prese un bel respiro e scese dalla macchina. Si guardò intorno per qualche secondo per poi incontrare le grigie mura della casa numero 500 sulla 6th street, ormai macchiate dalla muffa e dal tempo. Le assi avevano iniziato a marcire, era evidente che nessuno se ne curava più da un pezzo. Sul tetto svettava una voragine lasciata dal crollo di quest’ultimo all’interno dell’abitazione. Erano passati quattro anni ma sembravano molti di più. Nel piccolo giardino crescevano incolte erbacce e steli grigi di sterpaglie selvatiche si piegavano sotto il leggero vento che riempiva l’aria di odore di sale. La bassa siepe che si arrampicava sulle inferriate intorno al cancello era secca, ormai morta, abbandonata a se stessa. Non aveva certo più l’aspetto che aveva una volta, ma quella era, purtroppo, sempre casa sua. Era tornata e lo aveva fatto per niente, bastava un’occhiata per capire che ormai, in quella vecchia casa, non ci viveva più nessuno.
Non aveva dormito niente, quella notte. Rientrati dalla Christie Road aveva preso la sua macchina ed era partita. Forse era stato il sonno, o magari il residuo dell’alcol che il suo corpo stava finalmente eliminando, ma aveva creduto che fosse il momento di andarci. Ora, però, osservando la carcassa della sua infanzia, non era più sicura di aver fatto la cosa giusta.
La linea dei suoi pensieri venne infranta come vetro dalla piccola palla che rimbalzò sulla sua gamba. Si voltò di scatto e vide una bambina, poco più in là, che la osservava curiosa. Non poteva avere più di sette anni, indossava una logora salopette in jeans e delle scarpette rosse. Aveva la pelle olivastra e i capelli scuri erano cortissimi. Se non fosse stato per i due grandi occhi verdi che illuminavano il suo viso sarebbe sembrata un maschietto. Jane le sorrise, chinandosi a raccogliere la palla. Se la girò e rigirò fra le mani: ne aveva una uguale, quando era piccola. Una piccola pallina arancione con una striscia nera al centro.
-Ciao piccolina-
-Salve signora- rispose lei allegra, sfoggiando un sorriso luminoso e innocente. Era così puro.. la rossa non poté fare a meno di notare quanto la piccola le ricordasse… no, non aveva importanza.
-Sai per caso se qui vive ancora qualcuno?- domandò. Lei parve pensierosa, poi scosse energicamente la testa.
-No, mamma dice che qui ci viveva un vecchio signore quando sono nata, dice che non gli piaceva ricevere visite, ma che si sedeva tutti i giorni davanti all’ingresso ad aspettare qualcuno. La mamma dice che era pazzo, ma adesso non c’è più- il cuore della ragazza tossì e rantolò, perdendo qualche colpo.
-Voi dire che è..morto?-
-Non lo so signora, io non l’ho mai visto..- ora la bambina sembrava dubbiosa, osservando la palla che la rossa stringeva ancora in mano. Si ricosse e glie lo lanciò, facendolo rimbalzare sull’asfalto. Poi la sentì. All’inizio non fu certa che provenisse dalla vecchia casa, ma dovette ricredersi. Quella canzone, quella che la sua mente continuava a riportare a galla, facendola risuonare per tutta la testa, ora proveniva dall’interno del relitto del 500, scivolando piano verso la strada. Si chiese se fosse impazzita.
-Tu non la senti la musica?- chiese, voltandosi verso l’ingresso.
-Si..- mormorò la bambina, stringendo a se la sua palla.
-Com’è possibile che..- Jane si voltò per tornare a guardare la piccolina, ma questa non c’era più. La musica si faceva sempre più chiara.
The carpet crawlers heed they’re callers...
La ragazza fece un passo verso la casa. Devi entrare per poter uscire, si disse. Salì lentamente i due scalini che conducevano dentro il piccolo portico e spinse la porta. Era aperta.
We’ve got to get in to get out.
Ora ricordava la canzone che con forza si propagava nel piccolo soggiorno. The Carpet Crawlers dei Genesis. Quello era il gruppo preferito di suo padre, lo era sempre stato. Era cresciuta con quel suono, con quella melodia. La scatola della memoria si era aperta e mentre guardava la stanza ricoperta di muschio, i mobili marci e polverosi, gli oggetti e le macerie giacere ovunque sul pavimento, illuminati solo dal sole che filtrava attraverso il buco nel soffitto, riempiva gli spazi bianchi con ricordi che aveva quasi dimenticato.
In fondo alla stanza, nella penombra, una figura scura stava in silenzio seduta accanto al vecchio giradischi sporco e coperto di polvere, seduto su una poltrona in pelle marrone ormai sfondata e strappata in più punti da cui fuoriuscivano interiora fatte di gommapiuma.
-Papà…- sussurrò. La figura sembrò muoversi. Ora iniziava a distinguerne i dettagli e vedeva quegli occhi azzurri ormai stanchi osservarla increduli. Il tempo non aveva scalfito di un centimetro la pelle dell’uomo. Sembrava non fosse passato un solo secondo dall’ultima volta che l’aveva visto. Solo i suoi vestiti sembravano segnati dallo scorrere dei giorni, impolverati e logori come il resto della catapecchia, come se non fossero mai usciti da lì, come se non avessero mai lasciato quella poltrona.
-Sei tornata..- rispose lui, titubante. Jane avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare e corrergli incontro per abbracciarlo, ma non fece un passo. Le sue gambe erano come immerse nel cemento fresco, si convinse che se si fosse mossa sarebbe caduta. La canzone continuava a suonare. Era finita, ed ora ricominciava, sempre la stessa.
We’ve got to get in to get out.
-Papà, io..- fece per dire qualcosa, ma non sapeva che cosa. –Mi dispiace- disse infine. L’ uomo si schiarì la voce.
-Non sono arrabbiato con te, se è questo che pensi-
-Perché non lo sei?-
-Perché se avessi potuto sarei andato via anche io, sarei partito come te, ma..-
-..ma io sono sparita, papà. Non ti ho chiesto di partire con me, non ti ho detto niente, sono solo..- ora farfugliava, confusa. Si domandava se stesse sognando, se fosse tutto uno stupido scherzo della sua testa. L’uomo rise e quella risata le fece male, ne ricordava il calore e nel disordine epocale che albergava nella sua mente si formò un pensiero puro e semplice, chiaro. Le era mancato, le era mancato da matti.
-Figlia mia, hai fatto quello che dovevi, quello che io avrei dovuto fare quando eri ancora piccola, andare via. Io avrei dovuto portati con me, sono tuo padre, avrei dovuto proteggerti, ma tu non dovevi farlo. Non dovevi preoccuparti anche per me, era giusto che non lo facessi. So badare a me stesso e sapevo che l’avresti saputo fare anche tu- rispose, calmo. –Ora avvicinati, vieni ad ascoltare la musica con il tuo papà…- La ragazza si ricosse, si rese conto di aver trattenuto l’aria fino a quel momento, espirò e si avvicinò lentamente. Sotto i suoi passi il pavimento della vecchia casa scricchiolava.
-Perché sei rimasto qui? Perché non sei andato via quando..-
-Perché se fossi tornata, sarebbe stato qui che saresti venuta a cercarmi- rispose, sorridendole, ed era un sorriso stanco, rassegnato. Jane si sedette a terra, davanti a lui. Ora la musica era forte, fortissima, inebriante. La calmava, cullandola.
There's no hiding in my memory
There's no room to void 
-…e lei? Dov’è andata?- lui non le rispose. Ascoltava la musica. –Papà, dov’è andata mamma?-
-Lei non aspettava che tornassi, non le interessava e pensava che non l’avresti fatto. Sai com’è- già, lo sapeva. Ricordava lo sguardo che le rivolgeva. Qualsiasi cosa avesse subito dopo sarebbe stata una carezza rispetto a quell’espressione. Una bambina non merita tanto disgusto, ed è troppo piccola per capirlo. Una bambina vorrebbe che entrambi i suoi genitori la amassero davvero e vorrebbe che si amassero e rispettassero anche fra di loro. Una bambina continua a chiedersi cos’abbia fatto di male, ma ora  era cresciuta e conosceva la risposta: niente. A volte le cose vanno semplicemente per il verso sbagliato.
There's only one direction in the faces that I see;
It's upward to the ceiling, where the chambers said to be
Like the forest fight for sunlight, that takes root in every tree.
-Papà, perché sei ancora qui?- chiese, di nuovo. Improvvisamente non si sentiva più calma, al contrario era irrequieta. Guardava la figura di suo padre e ora gli sembrava vecchio, più stanco. Si sbagliava, il tempo che era passato l’aveva segnato, la pelle, le sue mani, i suoi occhi. Perché non era andato via? Sarebbe potuto essere ovunque, e ovunque sarebbe stato meglio che lì.
-Perché, dove altro sarei potuto andare?- domandò di rimando lui, con un mezzo sorriso. Poi chiuse gli occhi e sollevò le mani, come per accarezzare la melodia che gli scivolava intorno.
We’ve got to get in to get out…
-Mi perdonerai mai?- chiese lei.
- Non ha importanza adesso-
-Ma sono scappata senza neanche dirti addio e..-
-E sei tornata. Non ho più niente da perdonarti-
-Non dirmi queste cazzate!- sbottò lei. –Non sono una bambina, ne sono idiota, non puoi avermi perdonata, cazzo, sono scappata! Ti ho fottutamente abbandonato! Non puoi dire che mi hai perdonata, non puoi pensare che io ti creda, non prendermi per culo, accidenti!- l’uomo le sorrise, sembrò non scomporsi più di tanto per la reazione della figlia.
-Non sono io a dover perdonare te, sei tu a dover perdonare te stessa. Il mio perdono l’hai avuto, ora devi guadagnarti il tuo. Sono vecchio, stanco e mia figlia è tornata a casa, alla fine. Anche se fossi stato arrabbiato con te fino a un minuto prima che entrassi da quella porta, non riuscirei a esserlo adesso. Sei diventata una donna bellissima..- sussurrò, allungando una mano verso il viso di Jane e accarezzandole una guancia. –Sei cresciuta meglio da sola che con noi intorno, sono orgoglioso di te- la sua mano era fredda, gelida come il marmo. La ragazza abbassò lo sguardo.
-Non dovresti, non ho combinato molto, non sono tornata per nostalgia, sono qui perché ho fallito-
-E come avresti fallito?-
-Non ho.. realizzato niente, papà, faccio la sguattera per 400 dollari al mese all’Hotel Downtown Berkeley Inn, sono solo una..-
-Sei felice?-
-Come?-
-Mi hai sentito, allora, lo sei?-
-Bè.. si. Suppongo di si.-
-Sei più felice della notte che sei partita?-
-Si, certo.-
-Allora non hai fallito. Non sei andata via per trovare un buon lavoro, sei andata via per essere felice. A me non interessa chi sei ora, o cosa fai, voglio solo che tu sia felice. Non posso provare rancore per te, eri una ragazzina, avevi il diritto di provare ad esserlo. A volte quando si perde si ha vinto, anche se non ne la maniera che ci aspettavamo- lei sorrise e ora una piccola, solitaria lacrima, strisciava lentamente giù per la sua guancia, invisibile nella penombra.
The carpet crowlers heed they’re callers..
-Mi sei mancato, papà-
-Anche tu mi sei mancata, ma credo sia ora che tu vada-
-Perché?-
-Perché sono molto stanco, ho bisogno di riposare... sono felice di averti rivista. Ti ho lasciato anche un piccolo regalo, sul retro. Vai a vedere. Non sono l’unico ad averti aspettata fino ad oggi, se ti può consolare-
-Tornerò papà, lo prometto- disse, saltando in piedi e sul suo viso era stampato lo stesso sorriso che aveva quando era piccola. Un sorriso che era convinta di aver lasciato sotto il cuscino, la sera che era scappata.
-No, non lo farai- disse lui, sorridendo a sua volta.
-Perché dici così?-
-Perché ti conosco. Ora non hai più bisogno di tornare da me, anzi, non devi averne. Voglio che tu mi prometta di non sentire più il bisogno. Promettimi che non avrai più bisogno di me, che ti perdonerai per avermi lasciato qui-
-Te lo prometto- mormorò lei. –Addio-
-Addio tesoro e buona fortuna!- urlò alle spalle di Jane, mentre lei attraversava le macerie del vecchio soggiorno.
-Anche a te, papà- sussurrò, aprendo la porta d’ingresso.
We’ve got to get in to get out.
 
Sul retro sotto un vecchio telo nero di plastica, c’era lei. Le venne quasi voglia di abbracciarla, ma era un dannato pezzo di ferro, si sarebbe sentita ancora più fuori di testa se l’avesse fatto. Un’ HM Honda da cross. Suo padre ci aveva lavorato per otto mesi per sistemarla, due anni prima che la ragazza scappasse, ma ne era valsa la pena. Avrebbe potuto vederla, ma non l’aveva fatto, no, perché in quell’oggetto aveva messo tutto l’amore che nutriva per sua figlia e quell’amore l’aveva aspettata insieme a lui al 500 della 6th street.
L’aveva chiamata Brat, monella, ed era il suo tesoro sepolto, dimenticata sotto un telo nero e quattro anni di polverosa attesa.
Fuori, in strada, era tornata la bambina con la salopette e i capelli corti. Giocava ancora con la sua piccola palla quando Jane fu uscita dalla sua vecchia casa.
-Signora!- la chiamò. –Ha trovato quello che cercava?- chiese, sorridendole. La ragazza annuì.
-Si, piccolina-
-E cos’era?-
-Un vecchio pazzo con una canzone e.. un tesoro sepolto- mormorò e un’ultima, piccola lacrima si insinuò nel suo sorriso, abbandonando su quel suolo il suo ultimo rimpianto.
 
 
Alla fine della storia la protagonista si sveglierà in un istituto psichiatrico appena fuori Berkeley, scoprendo di chiamarsi Mary Jane Smith. La ragazza era affetta da schizofrenia fin da quando era bambina. I  sintomi si erano ridotti a un’estrema difficoltà nel legare con i propri coetanei e a un’incapacità totale di controllare le emozioni  fino alla morte per incidente dell’unico amico che era mai riuscita ad avere: Jim.. Dopo quel trauma la malattia è esplosa e la sua personalità si è definitivamente divisa fra il lato cosciente(Jane, la quale non ha cognome) e la malattia(Mary Smith). Durante una lite con la madre  il lato malato della ragazza prende il sopravvento e  spara a entrambi i genitori. In seguito a questo fatto lei viene internata e tutto ciò che verrà  raccontato non è altro che un viaggio nel mondo che la sua mente ha creato per tentare di giustificare il proprio gesto e per provare a auto guarirsi, analizzando singolarmente ogni parte di se. Tutti i personaggi che lei incontrerà saranno quindi  personificazioni dei concetti basilari su cui è fondata  la sua psiche: Jane, appunto, la parte cosciente, Mary, la parte che si fa deviare dalla malattia, la malattia stessa, quindi la follia, impersonata da Jackie, un astuto e subdolo ragazzino di periferia, uno spacciatore estremamente intelligente votato a piegare il prossimo al proprio volere per perseguire  i propri scopi;  Billie, che rappresenta la capacità della paziente di sognare e la sua infantilità, Mike, la logica e la razionalità, Frank, l’allegria, la voglia di non prendersi troppo sul serio; Max, la ragazza di cui si innamorerà che rappresenta il suo modello di donna, modello che crede di non poter raggiungere e Jim, l’unico personaggio con una basi reali, che rappresenta la sua coscienza, la sua parte migliore.
Durante tutto il viaggio nella mente di Mary Jane questa prova a perdonare se stessa per l’uccisione del padre che, pur sapendo di non avere colpe, non riesce a sopportare, poiché lui rappresenta l’unico che ha saputo credere in lei, darle  fiducia e appoggiarla, in contrapposizione con la madre che sembra non saper amare la figlia, considerando lei e la sua malattia uno smacco al suo buon nome, una vergogna, un’ umiliazione.

Nella scena descritta, quindi, il padre non è realmente presente, si tratta solo di una proiezione che dice ciò che la protagonista ha bisogno di sentire, perdonandola per ciò che ha fatto e permettendole di perdonarsi. Neanche la bambina descritta esiste,  non è altro che il fantasma di Mary Jane da piccola.




Non so esattamente perché ho deciso di darti questo pezzo, come regalo. Sarà perché in fondo chiedere soldi tuoi per comprarti un regalo mi sembra stupido, un controsenso, o forse perché dice certamente più di quello che è in grado di esprimere una camicia o qualsiasi altra cosa, anche se so che preferisci regali utili.
So come stai, papà. Tu credi che non lo veda, credi che non me ne accorga, ma ti sbagli e non hai idea di quanto ne soffra. Più andiamo avanti e peggio stai, ormai le volte in cui  sei sereno sono rare, non sopporto di vederti così. Tu probabilmente pensi  non sappia che in buona parte è colpa mia, e a volte sembra che non veda l’impegno che ci metto per non esserti di disturbo o per non peggiorare la situazione.
Non hai idea di quanto ho pianto, appena tornata dall’ospedale, perché mi sono resa conto di essere un peso per te, ancor più di quanto non lo sia di solito, ma lo sai, è una mia caratteristica, tendo a essere ingombrante, sono come un elefante in una cristalleria e per quanto faccia per cercare di non esserlo, mi sembra che non cambi niente.
Mi dispiace, mi dispiace davvero. Sono brava a scrivere quanto poco lo sono a parlare, e volevo augurarti buon compleanno chiedendoti scusa, scusa se non riesco ad aiutarti come dovrei, come vorrei. Scusa se non riesco a fare di più, per te.
Mi piacerebbe vederti felice, papà, mi piacerebbe venire con te a fare gite in montagna con la moto, e al ritorno ridere e scherzare sulla bella giornata trascorsa; mi piacerebbe sentirti suonare perché so quanto ti piace e mi piacerebbe sedermi ad ascoltare musica con te, in religioso silenzio, come quando a Natale mettiamo il Valzer delle Candele al massimo e ci lasciamo cullare dalla voce meravigliosa del cantante; mi piacerebbe continuare a fare le regate con te, diventare sempre più brava fino a riuscire a vincere la Cagliari-Carloforte da soli e ridere di quanto siano seghe gli altri, solo le regate  riuscivo a darti e ora che mi sono fatta male come un’idiota,oltre ad averti causato un maggior carico di rotture di coglioni,  non posso più farlo, almeno non per quest’anno. Forse, in fondo, l’unico regalo veramente utile che potrei farti sarebbe del tempo, tempo per te, per stare in pace, per fare quello che ti piace, ma non posso regalartelo, perché purtroppo non si compra, ne si scambia.

Ti voglio bene papà, tutto ciò che so fare, il mio modo di pensare, tutto ciò che amo me l’hai insegnato tu. Sono fiera di essere tua figlia e tutte le volte che dici di non farcela più, che dici di esser arrivato al limite e che prima o poi ti verrà un infarto e morirai perché sei dannatamente stanco vorrei poter fare qualcosa per cambiare le cose. Provo ad aiutarti, provo a esserci, ascolto ciò che mi dici e cerco di rimediare, eppure ancora non basta.
Anche da piccola ti scrivevo lettere per farti gli auguri e tu da piccola mi volevi così bene… magari è per questo che ho scelto questo lavoro, quest’anno.
Mi dispiace di essere come sono, cerco solo di migliorarmi, come tutti, e ti ringrazio, ti ringrazio per tutto quello che fai per me, per tutto quello che hai fatto e per tutto quello che farai. Ti ringrazio per avermi insegnato a pensare, a guidare, per avermi dato anche quello che mamma avrebbe dovuto darmi. Ti ringrazio per avermi insegnato che amare una persona significhi fare qualcosa di concreto per lei, aiutarla ogni giorno, regalargli il tuo tempo e il tuo impegno, invece che coprirla di stupidi regali, rose, complimenti e parole dolci.
L’altro giorno mi chiedevi come può esistere un Dio, se il mondo è così cattivo. Me lo sono chiesta tante volte, guardandoti. Mi chiedo come un Dio abbia potuto permettere che una persona come te sia rimasta incastrata in una vita come questa, perché non è giusto. Il mondo non è giusto se le persone migliori ammattiscono sotto una vita minuscola mentre persone che non meritano neanche di consumare ossigeno sono sedute nelle loro belle case a non fare assolutamente niente, forse sembra stupido da dire, un discorso da bambina, ma è la verità. Ho promesso a me stessa che farò di tutto per avere qualcosa di più, e che quando potrò ti regalerò una barca con cui tu possa partire e finire la tua vita per mare. Ti renderò orgoglioso, lo prometto, farò tutto ciò che posso per riuscirci e se non sono riuscita a renderti felice e fiero adesso, dedicherò parte del mio futuro alla promessa di farlo.

Ti voglio bene, papà, non hai idea di quanto, buon compleanno.




***
Non so esattamente perchè ho scelto di pubblicarlo. Forse perchè vorrei parlarne, o forse solo perchè mi fa piacere che qualcuno lo legga. In effetti è una cosa personale, un regalo di compleanno, ma voi non sapete chi sono e leggete solo l'amore di una figlia per il proprio padre e uno stralcio della millesima, stupida storia che scrive per evitare di vomitare i propri problemi e le proprie stronzate su qualche amico che non può farci niente, che non può dire niente. Almeno nelle storie quelle stronzate diventano piacevoli da leggere, divertenti, non lo so.
O forse perchè una promessa non ha senso senza testimoni. Grazie a tutti quelli che la leggeranno, quindi.

-Brat.
  
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