Questa fic è
dedicata a Ryoredwarrior per ringraziarla
della sua grande generosità :)
Spero di aver reso giustizia al tuo amato Eren, in caso avessi fallato, sappi
che mi ci sono impegnata tanto, quindi apprezza la mia buona volontà.
Con sincero affetto DG.
E (spero) buona lettura a tutti!
Quelle parole che non ti ho mai detto…
Il
silenzio in quella stanza, paradossalmente, gli risultava assordante.
Immobile, quasi ligneo nella postura, osservava quel letto, mentre una folla di
pensieri gli si rincorreva veloce nella mente. Del resto non poteva far altro
che pensare.
Il mondo così come l’aveva conosciuto ormai non esisteva più da molto tempo.
Era finito quel giorno, in bocca a quel gigante insieme a sua madre.
Cercava di non pensarci mai, quella scena gli faceva troppo male. Il suo dolore
si era convertito in rabbia e la sete di vendetta si accompagnava alla voglia
di distruggere. Non aveva paura di morire, voleva solo sterminare quei mostri.
Voleva farli a pezzi con le sue stesse mani, comprimere le loro teste fino schiacciarle
come insetti per cancellarli dalla faccia della Terra.
Questa sua ossessione però si era divorata la sua giovinezza, la sua speranza e
lentamente stava inghiottendo anche la sua umanità.
Erano passati mesi e poi anni, in un soffio, si era ritrovato da recluta a
soldato, da ragazzino ad adulto, sebbene non avesse ancora neppure vent’anni. Questo
processo si era compiuto attraverso la paura, la sconfitta, il dolore, la
perdita e il senso di colpa, poi finalmente era riuscito a mettere da parte ogni
sua debolezza umana. Era diventato un mostro, proprio come loro. Solo così
avrebbe potuto sconfiggerli. Si era dovuto dimenticare che erano stati suoi
amici, che erano ragazzi come lui. Così come si era dimenticato, forse per
sempre, di ciò che era accaduto con suo padre. Nella sua testa c’erano delle
stanze chiuse, che contenevano qualcosa che non poteva, o non voleva ricordare.
Per questo a volte era così schizzato, irascibile, perché l’orrore lo aveva
segnato per sempre e giaceva dentro di lui come un morbo infetto.
Era fermamente convinto che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, del resto era
diventato un assassino a soli otto anni. Freddo e lucido aveva fatto fuori due
uomini.
Poi c’era lei.
L’unica cosa più vicina a una famiglia che gli era rimasta.
Negli ultimi tempi qualcosa era cambiato, si era fermato a guardarla di sottecchi,
mentre mangiava, o si allenava ed era stato come se la vedesse per la prima
volta. Sempre più schiva e solitaria. Mikasa era una specie di samurai. Stava
molto per conto suo, silenziosa, pensava solo a fare esercizio fisico, ad
allenarsi per diventare sempre più forte. Era diventata una delle punte di diamante
del Corpo di Ricerca. Uno dei soldati più capaci e più forti. Spietata e
coraggiosa, taciturna e letale.
Solo con lui si trasformava. Era abituato ad averla tra i piedi con il suo fare
apprensivo, o aggressivo, a seconda della circostanza. Se la sentiva sempre
alle costole e ciò lo aveva sempre molto irritato perché lo faceva apparire
debole, per questo era molto scostante nei suoi confronti.
Eren era un concentrato d’emozioni e lui stesso non sapeva mai quale avrebbe
prevalso.
Eppure le voleva bene. Un bene che non aveva mai messo in discussione ma
neanche analizzato, men che meno esteriorizzato. Non si era mai soffermato
sulla natura di quel sentimento che lo legava così profondamente a lei.
La trovava troppo appiccicosa e tendeva a tenerla a distanza, anche più del
necessario a volte.
Poi un bel giorno si era alzato ed era stato come se improvvisamente gli fosse
caduto un velo dagli occhi.
Mikasa era bella da togliere il fiato. I capelli neri come l’ebano, le labbra
piene e rosate, gli occhi scuri e scintillanti come una notte stellata. Il
fisico scattante e tonico, che il movimento tridimensionale aveva scolpito
quasi fino alla perfezione.
Tutti i ragazzi, quando passava, fiera e taciturna, con quell’aria distaccata e
severa, si giravano e la guardavano sognanti, perché di tutte era la più bella,
la più affascinante e di sicuro la più pericolosa.
Solo lui era sempre rimasto indifferente, quasi infastidito.
Anche lei alla fine era cambiata. Nell’ultimo periodo lo teneva a distanza. Si
preoccupava sempre, ma in modo più distaccato mentre con gli altri, perfino con
Jean, appariva meno algida.
Non c’era stato neppure il tempo di rifletterci, perché erano sempre coinvolti
in qualche battaglia e i suoi pensieri si erano inevitabilmente rivolti
altrove.
Sembrava facile agli occhi dei suoi compagni. Tutti pronti a ricordargli che il
destino dell’umanità era nelle sue mani. Che era l’unico Titano dalla parte degli
uomini. Sapeva solo lui che calvario fosse quel potere immenso e così selvaggio
che non riusciva a mai completamente a domare, che spesso gli sfuggiva di mano,
che era ribelle, proprio come lui. Quel potere che sembrava un’estensione
carnale della sua rabbia folle.
Da qualche tempo si era trovato a chiedersi se avesse mai potuto permettersi di
pensare a una ragazza, qualunque ella fosse stata. Poteva sperare in una vita
normale? Gli era concesso il lusso di innamorarsi? Ma poi cos’era l’amore? Avrebbe
mai fatto in tempo a conoscerlo e viverlo? O sarebbe morto prima di scoprire
quel sentimento di cui tutti parlavano?
Erano domande che a volte, a caso, gli si affacciavano nella mente, perché alla
fine era solo un ragazzo e dentro, anche se non lo esternava mai, gli mancava
di poter viversi la parte più lieve e più bella della sua gioventù.
Una sera, per caso, aveva scorto Mikasa passeggiare da sola e di nascosto era
rimasto a osservarla.
Lei così forte e fiera era una guerriera nata, ma era anche una ragazza
introversa e solitaria, di poche parole. Era stato piacevole guardarla, era
vestita in abiti civili, la cosa gli aveva ricordato quando erano piccoli, solo
che adesso Mikasa era molto più simile a una donna che a una bambina. Qualcosa
dentro lo aveva turbato. Non aveva mai pensato a lei in quel senso e gli era
parso davvero strano quel lampo d’attrazione improvviso che aveva avvertito,
come se solo in quel momento avesse realizzato che non era solo un suo compagno
d’arme.
Si era però subito risolto a fare spallucce e aveva continuato fare finta che Mikasa
fosse solo una sorella fastidiosa.
Che bella scusa che si era inventato, comoda e confortante, in cui accucciarsi
per non affrontare una realtà scomoda e anche improvvisa, che lo aveva colto
decisamente alla sprovvista. Ma la vita è una sorpresa continua riesce sempre a
coglierti in contro piede e non sempre in modo piacevole o benevolo.
Era
ancora davanti a quel letto, aveva perso il senso del tempo. L’umidità della
stanza lo fece rabbrividire appena, ma forse era solo ancora un altro modo di
mistificare la realtà. La natura di quei brividi era tutt’altra.
La stava osservando, avviluppata in quel sonno innaturale, che la faceva
somigliare a qualche principessa di qualche favola antica, di cui aveva sentito
parlare da bambino.
Le labbra piene erano leggermente violacee e il suo incarnato troppo pallido,
quasi cinereo. Il respiro lieve, quasi impercettibile e i grandi occhi erano
come sigillati, chiusi in quello strano torpore.
Mikasa era ferma, immobile, adagiata su quel letto candido, macchiato solo dalla
massa scura dei suoi capelli folti e lucenti e dalla sciarpa rossa che teneva
tenacemente stretta in una mano, come se stesse aggrappata a un appiglio per
evitare di scivolare per sempre nell’oblio.
Se non fosse stato per quel leggero respirare sarebbe potuta sembrare morta.
A Eren parve che il suo cuore sanguinasse, come se un pugnale lo avesse bucato,
passandolo da parte a parte.
Si sentiva impotente esattamente come quando, davanti ai suoi occhi quel
gigante aveva inghiottito sua madre distruggendo per sempre ogni sua illusione.
Nel frattempo Jean era arrivato alle sue spalle, silenzioso, furtivo e in
religioso silenzio si era messo a osservare Mikasa.
Eren non si era neppure girato. Era rimasto fermo, in attesa che sbottasse e
gliene dicesse di tutti colori, magari che lo prendesse pure a pugni, per una
volta tanto riteneva di meritarsi ogni grammo del suo astio.
Si sentiva così inutile e addolorato, per colpa sua lei era tra la vita e la
morte.
Fermo. Immobile. La fissava come per cercare delle risposte da quel corpo
ferito.
Aveva sempre creduto che fosse stato Armin il più debole, quello da proteggere
e difendere, invece era stata Mikasa che ci aveva quasi rimesso le penne. Nella
furia della battaglia era quasi caduta perché lui aveva pensato a raccogliere e
a proteggere tutti, tranne lei, che era partita da sola, all’attacco, così com’era
capitato un sacco di altre volte. Era bastato quell’errore di valutazione per
essere stato la causa di una nuova disgrazia.
Ancora una volta aveva fatto la scelta sbagliata. Non aveva capito che Mikasa era
quella fragile, che si nascondeva dietro la sua freddezza e dietro la sua forza
fisica, mentre Armin grazie alla sua intelligenza aveva mille risorse.
Non aveva capito niente. Era stato cieco e sordo e questa ne era la conseguenza
Aveva dato alcune cose per scontate, che inevitabilmente erano passate in
secondo piano e aveva finito per dare anche Mikasa per scontata al suo fianco, come
se fosse immortale e invincibile, come se non fosse umana. Lei c’era sempre
stata da quando era entrata nella sua vita e le aveva regalato quella sciarpa
scarlatta. Non si erano di fatto mai separati. A volte l’aveva detestata perché
gli faceva pressione e lo metteva davanti alle sue debolezze, spronandolo a
vincerle, oppure perché lo soffocava di premure irritandolo. In verità lei era
tutto ciò che gli restava e stava rischiando di perderla. Per sempre.
Jean era ancora alle sue spalle e non parlava, allora Eren si girò e lo fissò. Kirshtein
rimase di sasso. Scorse in quegli occhi verdi, che conosceva bene come sempre
pieni di rabbia, solo un profondo dolore. Erano due pozze colme di lacrime trattenute,
l’immagine di un’anima straziata.
In quello sguardo muto e ferito aveva letto tutto il senso di colpa e
l’angoscia che stavano schiacciando Eren.
«Non è stata colpa tua. Non puoi prevedere ogni mossa di una battaglia e non
puoi incolparti per ogni incidente, o morte che accade o accadrà. Ficcatelo in
quella testa dura!» si sorprese per primo a dirgli.
Poi gli si sedette accanto. Sapeva quanto Mikasa fosse attaccata a Eren e dato
che provava dei sentimenti per lei, il minimo che poteva fare era consolarlo,
dato che purtroppo a lei, al momento, non poteva essere di alcun aiuto. C’era solo
da aspettare e augurarsi che superasse la notte, come avevano detto.
Così lo spronò a fare ciò che avrebbe voluto fare al suo posto.
«Prendile la mano e dille quanto le vuoi bene. Obbligala ad ascoltarti, tirala
fuori da quel limbo e riportala tra noi. Se le parlerai, anche dall’altro mondo
lei ti ascolterà!».
Eren lo guardò stupefatto. Non capiva perché Jean gli dicesse quelle cose, ma
su un punto aveva ragione, non le aveva mai detto quanto le volesse bene. In
quel momento capì molte cose, guardò il compagno più intensamente e lesse nei
suoi occhi il suo stesso dolore, come il riflesso di uno specchio.
«E tu promettimi che la amerai come io non sono capace di fare» gli disse in un
soffio. Quelle parole gli costarono molto più di quanto avesse mai immaginato.
Jean incurvò le labbra in uno dei suoi sorrisetti ironici, che poi prese una
piega amara. «Sei sempre il solito impulsivo che non ragiona. Non hai capito niente!
Non sta a noi decidere, ma a lei. Posso amarla fino a morirne, ma lei è te che
vuole, possibile che tu sia l’unico che non se ne sia mai reso conto?».
Fu come se Eren avesse ricevuto uno schiaffo.
Rimase in silenzio.
Era come bloccato. Non riusciva a prenderle la mano. Non riusciva a carezzarle
i capelli, non riusciva a dirle che se fosse morta non se lo sarebbe mai
perdonato.
«Quello che non hai mai capito è che ci vuole più coraggio a vivere e amare,
che a uccidere e compiere una vendetta» aggiunse Jean «Quindi per una volta
nella vita tira fuori le palle e affronta i tuoi sentimenti, aiutala ad avere
un motivo valido per vivere!» concluse.
Era così fuori di sé che neppure si era reso conto di cosa avesse detto
e perché. I suoi sentimenti avevano avuto la meglio sul suo egoismo, e il suo amore
per Mikasa gli aveva ordinato di fare ciò che era più giusto per lei. Non era
forse questo essere un uomo? Già, anche lui, nonostante non avesse ancora
vent’anni doveva per forza essere adulto, non c’era più tempo per adagiarsi
sull’adolescenza, la guerra si era presa tutto, tranne i loro sentimenti. A dispetto
della devastazione in cui erano costretti a vivere nel loro animo erano limpidi
e freschi come una sorgente d’acqua, né la morte, né il sangue li avevano
ancora del tutto infettati.
Non potendo più rimanere lì a guardarla immobile, Jean uscì da quella stanza
con il cuore gonfio di dolore, ma anche con una flebile speranza, se c’era qualcuno
che poteva strappare Mikasa alla morte, era solo Eren. Lui poteva solo farsi da
parte.
Jeager rimasto solo nella stanza sospirò. Jean aveva ragione. I suoi sentimenti
erano incatenati dall’odio e dalla rabbia, prigionieri nella gabbia della
vendetta. Era questo che lo stava tramutando in mostro, piuttosto che il suo
potere da Titano.
Due lacrime calde e salate gli rigarono le guance, non voleva essere un mostro,
ma soprattutto non voleva che Mikasa, la sua Mikasa morisse. Così si fece
coraggio e le prese la mano tra le sue, stringendola goffamente. Da quando era
morta sua madre e si era arruolato, non aveva avuto mai più un momento di
tenerezza con nessuno e da nessuno. Solo lei gli era stata accanto dandogli
tutto il suo affetto. Era per questo che la teneva alla larga, perché amandolo
era come se spargesse sale sulle sue ferite.
«Ti voglio… bene» mormorò a fatica, come se le parole gli scivolassero lente dalle
labbra contro la sua volontà. Era così difficile, più difficile che uccidere
quasi. «Non te ne andare… ho bisogno di te» aggiunse «Non te l’ho mai detto, ma
sei ciò di più caro che mi sia rimasto e credo che non ce la farei senza di te…
perciò non fare scherzi, combatti Mikasa, combatti!» concluse a singhiozzo con
il cuore che gli scoppiava in petto.
Lei
non si mosse rimase ferma e immobile respirando piano, come se quelle parole
l’avessero accarezzata dolcemente, ma senza farle aprire gli occhi.
Eren rimase a vegliarla tutta la notte, da solo, aveva mandato via tutti, anche
Armin. Voleva sorbirsi quella sofferenza fino all’ultima goccia, come un calice
amaro, perché sentiva di meritarsela tutta.
Quando l’alba fece capolino dai monti, con un fascio timido di luce che
illuminò appena il volto di Mikasa, Eren, che si era assopito, aprì gli occhi
di soprassalto con il cuore in gola, maledicendosi perché si era fatto vincere
dal sonno.
Fu allora che la vide. Lo osservava, con la mano ancora stretta alla sua.
I suoi occhi erano lucidi e cerchiati da occhiaie scure, illuminati da un lampo
d’incredulità e stava sorridendo.
«Ho fatto un sogno bellissimo» gli disse quasi senza fiato non appena lo vide
sveglio «Ho sognato che mi dicevi che mi volevi bene» concluse a fatica, era
ancora molto debole.
Fu allora che Eren non riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere a dirotto,
abbracciandola. Ce l’aveva fatta lei era di nuovo con loro.
Forse non sarebbe cambiato niente, o forse sì. Ma dentro di lui qualcosa si era trasformato per sempre e dopo tanto tempo, e tanta sofferenza, una felicità quasi dolorosa gli scoppiò in petto, ricordandogli che era vivo, che aveva ancora dei sentimenti che lo rendevano umano.
BUONSALVE!
Buona domenica a tutti!
Solo due parole. Per la prima volta, in una storia su questo fandom, lascio
Levi in panchina! :D
Questa storia ce l’ho intesta da tempo immemore. A dire il vero nell’idea
iniziale avrebbe dovuto essere una comica, come avrete letto è diventata tutt’altro!
Sono molto curiosa di capire che cosa ne pensate, se vi va, perché è la prima
volta che entro così profondamente nella testa di Eren e non so se ci ho acchiappato! Quindi fatevi
sotto e fatemi sapere, mi farete davvero piacere.
PS
la raccolta di Levi verrà aggiornata in settimana :)
Grazie a chiunque sia passato di qua e abbia letto! ♥
Disclaimer: Eren, Mikasa e Jean (purtroppo) non mi appartengono, ma sono proprietà di Hajime Isayama