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Autore: HannibalLecter    23/03/2016    1 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Felicity

 

Seduta sul vecchio cavalcavia che sovrastava la super strada che portava verso Boston, il viso poggiato sull’alta inferriata che serviva a prevenire che la gente decidesse di voler provare a volare per poi finire spappolato sul parabrezza di un tir, il vento che soffiava forte contro le mie guance e decine e decine di auto che sfrecciavano sotto di me.

Nessuno aveva mai capito la mia passione per le strade, le stazioni, gli aeroporti. Io li trovavo bellissimi: luoghi di passaggio, di addii, di fughe. Terra di tutti e di nessuno.

Avevo percorso il solito sentiero tra le alte sterpaglie di quel paesaggio di campagna che ormai riconoscevo come familiare, avevo attraversato di corsa il campo di Mr. Edwards sapendo quanto il vecchio burbero poco apprezzasse che si passasse sulla sua proprietà, e poi, dopo aver costeggiato l’orto abbandonato di una famiglia che aveva lasciato quelle terre anni prima, ero arrivata al mio posto segreto. Una volta quel cavalcavia era aperto al transito dei veicoli ma, trovandosi in una zona semi deserta e molto appartata della campagna, gli unici a passarci erano dei rari trattori. Poi due anni fa una equipe di ingegneri aveva fatto una perizia e aveva stabilito che quel cavalcavia doveva essere reso inagibile al passaggio di vetture e così era stato abbandonato da tutti. I rovi si erano impadroniti dell’asfalto ormai crepato e le barriere di ferro si erano arrugginite.

Da quella distanza, se si aguzzava bene la vista e ci si alzava un pochino sulle punte dei piedi, si poteva scorgere la spianata verde dove si ergeva la mia piccola casetta e poco distante la villa di Mr. Liam. Con gli occhi socchiusi, a causa del sole pomeridiano ancora accecante nonostante fossero quasi le cinque, scrutai quel tetto rosso mattone e mi ritrovai a pensare all’uomo che ne era il proprietario.

Negli ultimi giorni, dalla notte della festa di Zoe, mi ero ritrovata spesso a soffermarmi con il pensiero sui suoi zigomi pronunciati o sul suo tono di voce sempre velato di sarcasmo. Mi ero sentita colpevole e subito dopo mi ero arrabbiata con me stessa, perché mi permettevo simili debolezze e tutto ciò nella mia testa appariva come un tradimento nei confronti di Theodore. Eppure ogni volta che la mia mente si trovava libera tornava sempre lì: quegli occhi, quelle mani, quella bocca. Mi ero gettata a capofitto nel lavoro, convinta che il trucco stesse nel tenermi il più impegnata possibile, ma non appena abbassavo la guardia, certa di avercela fatta, mi ritrovavo con lo sguardo perso nel vuoto e la testa piena di ricordi tutti legati sempre e solo a lui.

Questo mio uragano di pensieri ed emozioni contrastanti purtroppo non si era limitato a portare scompiglio dentro di me. Più volte Donovan mi aveva sorpreso chiedendomi cosa mi frullasse in testa visto il mio costante essere tra le nuvole. Persino Zoe, regina della distrazione, si era accorta di quanto fossi svagata e sovrappensiero in quei giorni.

Il problema era che ero intrappolata in un circolo vizioso: mi sforzavo di non pensare a lui, cadevo nella trappola e contravvenivo a tutte le mie regole, mi rimproveravo aspramente e poi tutto ricominciava da dove aveva avuto origine.

Considerata la mia buona stella Theodore aveva deciso che fosse proprio quello il periodo ideale per impegnarsi di più nel mantenere accesa la nostra relazione e ora ogni sera alle otto precise mi ritrovavo, mentre lavavo i piatti, a raccontargli delle mie giornate via Skype. Le nostre conversazioni si trascinavano tra gli insignificanti dettagli della nostra monotona quotidianità sempre vissuta separati e mai condivisa.

Un grosso camion carico passò strombazzando e portando con sé una folata di aria calda e inquinata. Mi allontanai dalle sbarre metalliche e mi sedetti sull’asfalto caldo, gli occhi chiusi per godermi il tepore del sole mischiato alla brezza che fischiava e faceva danzare le ciocche di capelli sfuggite alla mia coda di cavallo disordinata.

Due sere prima era successo quello che avevo temuto fin da quando Theodore se ne era uscito con quella nuova proposta delle videochiamate: ero scoppiata.

 

«Ti vedo distratta…», mi aveva fatto notare lui mentre io passavo la spugnetta per l’ennesima volta sullo stesso piatto ormai luccicante.

Non se a farmi scattare fu il suo tono leggero, come se il fatto che la sua fidanzata non gli prestasse la minima attenzione fosse normalissimo, o la mia esasperazione di fronte a quella situazione con la sottoscritta che pensava ad un altro mentre parlava con il proprio ragazzo, il quale a sua volta probabilmente stava rimuginando sull’etimologia del nome latino di una cazzo di pianta.

Avevo mollato in malo modo il pianto che era scivolato nel lavello pieno d’acqua facendo schizzare la schiuma tutt’attorno.

Vi assicuro che se già litigare è brutto, farlo separati da uno schermo lo è mille volte di più.

«Forse lo sono perché a quasi ventisette anni mi ritrovo intrappolata in una relazione più spenta e soffocante di quella che c’è tra due ottantenni  dopo sessanta anni di vita insieme?»

Me ne ero pentita subito. Ero stanca sì ma l’unica con cui me la sarei dovuta prendere ero io stessa. Ero io che invece di impegnarmi per migliorare il mio rapporto con Theo avevo rinunciato dandolo ormai per perso e avevo iniziato a fantasticare su qualcun altro. Nel mio intimo avevo ormai detto addio al mio ragazzo di sempre ma nella realtà ero ancora legata a lui e questo significava solo che tra i due quella nel torto ero io. La cattiva della storia ero io. Theodore poteva essere sempre impegnato in mille cose, poteva avermi trascurata ma era sempre stato leale nei miei confronti.

Afferrato un bicchiere avevo  iniziato a sciacquarlo, avere le mani occupate mi aveva fornito una scusa per non schiaffeggiarmi da sola.

«Potresti almeno guardarmi in faccia mentre mi dici queste cose?». La sua voce dal tono grave mi aveva raggiunta alle spalle e mi ero sentita ancora peggio.

Avevo lasciato perdere le stoviglie ancora insaponate, riposto la spugna e il detersivo per piatti e mi ero sfilata i guanti di gomma gialla. Dopo un respiro profondo, per infondermi la dose di coraggio necessaria per affrontare la conversazione per nulla felice che mi attendeva,  mi ero finalmente voltata verso il tavolo dove troneggiava il viso inespressivo di Theo incorniciato dallo schermo del portatile.

«Cos’è successo? Felicity, siamo andati avanti così per più di tre anni e non ti sei mai lamentata. Cosa è cambiato? Perché qualcosa deve per forza essere accaduto. Quando ci siamo visti in Florida sembrava tutto ok…», cercava di capire. Aveva la fronte corrugata e sapevo benissimo che si stava sforzando di ricordare le nostre ultime conversazioni, stava scandagliando mentalmente i nostri ultimi contatti alla ricerca di quell’indizio che doveva essergli sfuggito.

Avevo sospirato perché se c’era una cosa in cui non ero per nulla brava erano le tristi discussioni amorose. Perlomeno non di quel genere. Avevo sempre sognato che sarei stata protagonista di una di quelle storie d’amore travolgenti e totalizzanti dove avrei potuto dare libero sfogo al lato più romantico e sognatore del mio carattere. Volevo progettare, parlare solo di cose belle, pianificare castelli in aria dall’aspetto meraviglioso e impossibile per il futuro.

Da bambina, ancora piena di fiducia e innocenza, creavo per le mie Barbie delle vere e proprie soap opera. Litigi, riappacificazioni, inganni, tradimenti, parentele insospettabili che spuntavano come funghi ma alla fine tutto si concludeva sempre e solo con il coronamento del sogno d’amore dei due protagonisti che si univano in matrimonio in un tripudio di coriandoli ottenuti spezzettando decine di fazzoletti e squilli di trombe malamente emulate da una Zoe obbligata a suonare una trombetta da party in plastica.

Il sole stava calando e così facendo rifletteva le sue sfumature rosate e aranciate tutto intorno rendendo quella campagna così cara a me ancora più incantata. Quel paesaggio avrebbe ispirato i migliori poeti inglesi romantici e ne sarebbero scaturiti dei versi immortali.

Peccato che Keats fosse morto ormai da anni e io non spiccassi certo per le mie doti liriche.

Mi incamminai verso casa consapevole del pomeriggio perso ad oziare e a rimuginare inutilmente su quel grande pasticcio che era ultimamente la mia vita e della notevole quantità di lavoro arretrato che mi attendeva.

Mi ero ostinata nel mio proposito di poter risolvere tutto da sola e non mi ero confidata con nessuno. Zoe era sempre mia ospite e nonostante le sue continue lamentele sul caldo, gli insetti e il sole non aveva ancora parlato di partenze e la cosa mi aveva preoccupato perché mia sorella era una nomade e l’unico posto dove amasse fermarsi per un po’ di tempo era la sua baita di montagna sperduta tra muschio e roccia. Donovan mi osservava in silenzio, aggrottava la fronte più del solito interrogandomi con lo sguardo e mi scrutava con attenzione in attesa di un possibile crollo emotivo o perlomeno di una qualche reazione.

Ma io sono bravissima in queste cose. Le emozioni forti, le urla, le crisi isteriche non facevano per me. O forse, più semplicemente, non le riconoscevo come possibile modo di reagire alla tensione perché non mi ero mai trovata in una situazione simile. Avevo ibernato il mio cuore, mi ero raccontata che quello che avevamo io e Theo era quello che le persone chiamano amore e mi ero accontentata.

Sarebbe come crescere un bambino a broccoli e riso in bianco e raccontargli che sono i cibi più deliziosi al mondo, che nulla li supera in bontà e squisitezza. Non avendo mai provato ad assaggiare un gelato o un piatto di spaghetti lui si convincerà che i broccoli e il riso in bianco siano davvero il top che la l’arte culinaria abbia mai prodotto.

Mancanza di termini di paragone. Ecco, questo probabilmente mi aveva sviato per tutti questi anni.

Non volevo essere cattiva nei confronti di Theodore, non potevo recriminargli nulla in fondo. Lui mi aveva sempre offerto il tipo di affetto che lui poteva dare, nulla di più, nulla di meno. Non mi aveva mai fatto promesse, mi era stato accanto nel suo modo caratteristico sempre un po’ distante e distratto, ma non era mai sparito, non mi aveva mai fatto mancare il suo supporto e mi aveva sempre tenuto la mano quando ne avevo avuto bisogno.

Per me quello era stato fondamentale e mi aveva permesso di sorvolare sulla nostra lontananza, sulla sua mente sempre impegnata su qualunque cosa non fossi io e sul suo modo di fare sempre formale e poco familiare.

Ero stata felice, forse in un modo diverso da quello che mi ero sempre aspettata, ma lo ero stata. Soprattutto all’inizio quando tutto era ancora nuovo e da scoprire e Theo ai miei occhi era ancora il timido assistente del professore.

Cambiai strada per evitare di dover passare accanto al giardino di Mr. Liam e non appena raggiunsi il portico percepii qualcosa di diverso dal solito. La porta finestra e la zanzariera erano chiuse entrambe, le ante socchiuse e non c’erano più gli scarponcini sporchi di terra di Zoe allineati ai miei appoggiati al battiscopa.

Pescai le chiavi di scorta da dietro la casetta per uccellini che tenevo affissa alla colonna centrale del portico, in verità nessun volatile si era mai sognato anche solo di avvicinarsi a quella mia creazione ma tentar non nuoceva, e aprii la doppia porta.

«Zoe?», chiesi alla penombra solcata da leggeri spicchi rosso fuoco che penetravano dalle persiane. Feci un paio di passi, lo sguardo sul divano vuoto, il tavolino basso sgombro dalla solita pila di appunti per la bozza di nuove storie e racconti horror, la veranda deserta e i fili del bucato spogli da magliette nere svolazzanti.

Così com’era venuta ora s’era andata.

Come faceva sempre non aveva avvertito, non aveva chiesto il permesso, non aveva detto addio. Aveva raccolto le sue poche cose, le aveva impacchettate e si era chiusa la porta alle spalle.

Sul tavolo della cucina trovai un rapido bigliettino scribacchiato sul retro della busta dell’ultima bolletta del gas consumato nell’ultimo bimestre.

 

È giunta l’ora di tornare a casa. Ho mille idee che mi frullano in testa ma non riesco a capire cosa vogliono dirmi con tutto questo tripudio di cinguettii, fiori e raggi di sole a circondarmi. Non voglio correre il rischio di trovarmi a scrivere una storia d’amore tra una giardiniera e un avvocato affascinante che calpestava incurante il prato della suddetta giardiniera, perciò me ne torno tra le mie amate e crudeli vette in modo da poter creare qualche nuovo pervertito psicopatico con cui dilettarmi per qualche centinaio di pagine.

Smettila di pensare troppo e fai qualcosa, qualunque cosa essa sia.

Z.

P.S. Non chiamarmi per il prossimo mese: devo concentrarmi e per farlo sarà necessario che tagli i fili del telefono e disdica la connessione internet.

P.P.S. Ovviamente ti voglio bene e tante cose carine e fiocchettose varie, bleah!

 

Sorrisi, invidiando il carattere fiero e imprevedibile di mia sorella.

Non si era mai curata del giudizio degli altri, delle convenzioni e delle aspettative e sembrava dannatamente felice così. Aveva trovato la sua dimensione, la sua casa ed era riuscita a trasformare la sua aspirazione in realtà, anzi, aveva fatto di più, l’aveva trasformata in un successo che le fruttava migliaia di dollari e di fan cerebralmente instabili che la adoravano. Non che a lei interessasse, aveva sempre affermato che l’unico scopo dei suoi libri era che piacessero al lettore più importante e intransigente di tutti: lei stessa. Se fosse stata meno severa nei confronti del suo operato probabilmente ora la sua bibliografia consterebbe di trenta volumi e non di sole quattro opere.

Spalancai tutte le finestre facendo entrare più luce possibile e riposi la busta con il messaggio di Zoe nel mio quadernone dei ricordi che era prossimo alla disintegrazione tanto era consunto e pieno fino a scoppiare. Ero sempre stata una di quelle persone che amavano accumulare e conservare qualsiasi cosa, da un biglietto del tram ad una fototessera di mia nonna all’età di quindici anni.

Degli schiamazzi provenienti dal retro della casa mi distolsero dalla folla idea di provare a imitare quell’enorme chignon frutto di cotonatura e fiumi di lacca che acconciava i capelli di nonna nei lontani anni Cinquanta.

Mi sporsi fuori dalla finestra per vedere se mi ero immaginata il tutto o qualcuno aveva appena strillato e quando, in risposta al silenzio che mi accolse, stavo per ritirarmi in casa chiudendo i vetri, delle piccole urla mi fecero tornare sui miei passi.

Uscii in giardino cercando di capire da dove provenissero ma di nuovo non sentii altro che il fruscio delle fronde del salice e il canto di qualche grillo già in azione visto l’orario quasi serale.

Mi allontanai da casa mia, addentrandomi nel verde in direzione della mia piccola serra e del muretto di recinzione. Il rumore di un pianto lieve, come trattenuto, e di alcuni singhiozzi disperati furono la stella cometa che mi condusse al retro della parete di vetro che stava a nord, dove, accucciata a terra, stava una bambina.

Aveva degli enormi occhi grigi spalancati e appannati dalle lacrime che le scendevano copiose, un dito infilato in bocca e le ginocchia graffiate.

Mi avvicinai piano e non appena entrai nel suo campo visivo la piccola fece un balzo e si gettò verso di me, aggrappandosi disperata alle mie gambe e nascondendo il viso contro i miei jeans.

«Hei, cosa succede? Shhh, tranquilla, va tutto bene…», mi abbassai per poterla abbracciare stretta e calmarla cullandola piano.

Sentivo le sue piccole mani intrecciate dietro il mio collo e il suo respiro accelerato dallo spavento.

«Ci sono qui io adesso. Cosa ti ha fatto paura?», le chiesi allontanandola leggermente da me, nonostante le sue mani non accennassero a lasciarmi andare, e le asciugai piano le guance.

«Un brutto insetto…», mormorò guardandosi attorno circospetta.

Sorrisi pensando alla medesima reazione che aveva avuto Zoe due settimane prima quando aveva trovato una cavalletta sul davanzale, solo che lei invece che piangere aveva strillato fino a rimanere senza fiato e aveva fatto sfoggio di tutto il suo vocabolario di parolacce e improperi.

«Vieni, entriamo dentro la serra. Qui non ci sono brutti insetti ma solo i buonissimi frutti di bosco che io coltivo…», le spiegai afferrando la sua mano e facendole strada nell’ambiente umido della serra.

Era ancora presto per le fragole ma c’era già un profumo dolciastro a permeare tutto lo spazio, sperai che questo non avesse attirato troppe api altrimenti mi sarei ritrovata a fronteggiare una nuova crisi infantile.

«Come ti chiami?», le chiesi mentre la facevo sedere su una delle poltroncine di vimini che avevo posizionato accanto all’entrata per creare una sorta di piccolo salotto.

Lei si accomodò tutta impettita con la schiena, facendo attenzione a non appoggiare la schiena e la testa allo schienale.

«Arabella. Posso avere un fazzoletto, per favore?», mi rispose guardandomi attentamente. Percepii i suoi occhi su tutta la mia figura e vidi chiaramente il suo nasino storcersi di fronte alle mie scarpe di tela macchiate di terra e quei pozzi grigi si spalancarono quando si accorsero che stavo indossando degli shorts ridicolmente corti.

Come poteva una bambina così piccola farmi sentire a disagio?

Allungai una mano nella tasca sul retro dei miei pantaloncini e ne sfilai un fazzoletto, spiegazzato ma pulito.

Glielo porsi ma lei, invece di prenderlo e soffiarcisi il naso, mi domandò se ne avessi un altro.

«Questo andrà benissimo se davvero ne hai bisogno», la ripresi senza accennare ad assecondare quello che ai miei occhi era un semplice capriccio.

«Allora non lo voglio!», squittì guardandomi storto.

Era evidente che non fosse abituata a non essere accontentata in tutte le sue richieste pretenziose.

Sbuffai, feci un paio di passi nella sua direzione e mi chinai verso di lei. Dispiegai il fazzoletto e delicatamente le pulii il nasino appiccicaticcio.

Lei tentò di divincolarsi ma io ero stata più rapida e soddisfatta mi lasciai cadere sulla poltrona di fronte alla sua, il fazzolettino incriminato già fatto sparire nella mia tasca.

«Avevo detto di no», mi fece notare imbronciata lei.

Alzai le spalle con fare noncurante, «Devo aver capito male…»

Indossava un vestito di organza color celeste, più adatto ad una festa di battesimo che ad una scampagnata.

«Ti sei persa Arabella? Cosa ci facevi nel mio giardino?», la interrogai cercando di capire da dove fosse arrivata quella piccola principessina che ora stava guardando con espressione di disgusto una piccola macchia d’erba sulla punta della sua scarpetta di lucida vernice bianca.

Lei sollevò lo sguardo e mi guardò curiosa, «Come ti chiami?»

«Felicity»

La vidi annuire tra sé e sé come se la mia risposta le avesse confermato qualcosa che aveva già immaginato da sola.

Quella bambina era decisamente atipica e mi intimoriva leggermente.

«Quanti anni hai?»

«Non te l’hanno insegnato che non si chiede mai l’età ad una signorina?», mi rimproverò corrugando le sue sopracciglia chiare e scuotendo la testa di boccoli castani.

Per un attimo restai senza parole e mi limitai a fissarla interdetta mentre dentro di me mi domandavo sulla possibilità di trovarmi di fronte ad un cyborg con le sembianze di un’angelica bambina.

«Sì, ma non sono mai stata molto obbediente. Facciamo così: tu mi dici quanti anni hai e io farò lo stesso, ok?», le proposi curiosa di sapere quanti anni aveva quel piccolo robot…ehm volevo dire bambina.

Lei socchiuse gli occhi come se stesse riflettendo sulla possibilità che stessi cercando di ingannarla in un qualche modo subdolo e alla fine acconsentì mettendo come condizione che fossi io la prima a rivelare quel grandissimo segreto che costituiva la mia età anagrafica.

Quando le rivelai che avevo ventisei anni non reagì e si limitò ad inclinare il capo e a lanciare un altro sguardo stranito ai miei calzoncini di jeans.

«Io ne ho cinque ma tutti dicono che sembro più grande», affermò orgogliosa come se fosse naturale che una bambina a cinque anni fosse già scontenta della sua età e desiderasse essere più grande.

L’aspetto era quello di una bambina di cinque anni ma il comportamento era quello di un piccolo adulto e non sapevo perché ma la cosa mi metteva addosso una tristezza infinita.

«Ora mi vuoi dire cosa ci facevi nel mio giardino?», le domandai più dolcemente.

«Mi annoiavo e ho deciso di fare una passeggiata…», spiegò vagamente prima di alzarsi in piedi, sistemarsi il vestitino, lanciare un’ultima occhiata preoccupata alla scarpetta rovinata e chiedermi se poteva fare un giretto esplorativo della serra.

Annuii contenta e mi alzai a mia volta. «La tua casa ha un giardino?», chiesi mentre accendevo le luci e recuperavo il mio fido innaffiatoio.

«No. Abito in un loft in città e mia mamma trova la natura sporca e piena di microbi»

Seguii con lo sguardo quella piccola testa castana aggirarsi tra le file di piantine di ribes e di more. Mi ricordava qualcuno ma non avrei saputo dire chi.

Quella sua affermazione mi fece arrabbiare ma era inutile tentare di prendersela con la piccola, se aveva una madre idiota la colpa non era certo sua. Evidentemente Arabella era stata plasmata dalle idee della sua scellerata genitrice perché mentre camminava tra tutto quel verde sembrava estremamente a disagio.

«Io faccio la giardiniera e trovo la natura meravigliosa. Vieni qui, Arabella, e guarda…», aspettai che mi raggiungesse prima di indicarle la piccola fragolina pallida che faceva capolino tra le foglie di una piantina. «Da un seme la natura ci ha regalato ciò: una nuova vita, un succoso e delizioso frutto, altri semi per continuare il ciclo di bellezza e magia. Tutto questo è bellissimo non trovi? Vivevamo in mezzo a tutto questo splendore e poi mano a mano che ci evolvevamo ce ne allontanavamo. E così siamo passati dal vivere nella natura allo sfuggire da essa dentro a strutture di cemento e ferro. Ti pare sporco quello che vedi?», le porsi l’innaffiatoio e la aiutai a sostenerne il peso mentre l’acqua bagnava le radici della piantina.

«Quindi tu puoi mangiare queste fragole?», domandò la piccola guardando con occhi spalancati quel piccolo frutto ancora acerbo.

Capivo lo stupore, era lo stesso che io provavo ancora ogni volta che il mio giardino e il mio orto mi facevano dono di qualche nuovo e gustoso frutto o ortaggio. L’uomo poteva benissimo sopravvivere senza i supermercati, senza l’allevamento intensivo, senza i pesticidi e i prodotti chimici. Lo aveva fatto per secoli: cibarsi di quello che si coltivava, con fatica, sudore e tempo.

«Mi piacciono le fragole. Mamma però è allergica quindi Mercedes non le compra mai», mi disse quasi sovrappensiero.

Più parlava di sua madre meno quella donna mi piaceva.

«Bè, se mi dicessi da dove sei arrivata potrei regalartene un cestino quando saranno mature…», le proposi strizzandole l’occhio.

Lei si illuminò tutta all’idea e mi sorrise entusiasta.

«Arabella?»

Una voce attutita dalle pareti di vetro ci raggiunse e la bambina sbuffò a questo suono.

La presi per mano e spensi le luci prima di uscire nuovamente all’aria aperta.

«Non voglio andare da lui! Sta sempre al telefono e io mi annoio…», protestò la bambina puntando i piedi e rifiutandosi di seguirmi.

Sospirai rassegnata, chiedendomi che razza di genitori avesse quella poveretta, e mi fermai per potermi inginocchiare accanto a lei e convincerla a ragionare.

«Suvvia tesoro, non puoi -»

«ARABELLA! Questa volta hai esagerato! Quante volte ti- …Felicity? Cosa ci fai tu con lei?»

Alzai lo sguardo e incrociai due occhi grigi che mi scrutavano interrogativi.

Occhi grigi.

Chinai lo sguardo e fissai i medesimi occhi sul volto della bambina che mi stava di fronte con un’espressione preoccupata e una mano tra i miei capelli.

«Io…bè…non sapev-…come potevo-…»

«Papà, lei è la mia amica Felicity. Tu la conosci?», mi interruppe fortunatamente la piccola.

Liam Carter Wright annuì grave e allungò una mano, chiaro invito a seguirlo.

«Promettimi che ti ricorderai delle fragole. Per favore…», mi implorò Arabella stringendo le mie ciocche dorate e fissandomi con uno sguardo triste.

«Certo che me ne ricorderò! Torna a trovarmi e mi raccomando: non rivelare a nessuno quanti anni ho», scherzai abbracciandola piano e respirando il profumo di albicocca che emanava la sua pelle.

Lei ridacchiò contro il mio collo prima di staccarsi e prendere la mano del padre.

«Nessuno lo saprà mai. Segreto segretissimo!»

Li guardai incamminarsi mano nella mano e fissai quell’uomo così alto legato a quel piccolo esserino avvolto in un fatato vestitino azzurro e poco prima di sparire alla mia vista vidi Mr. Liam voltarsi a cercare il mio sguardo, gli occhi dispiaciuti e terribilmente belli.

Papà.

Accidenti!

  
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