Felicity
Seduta sul
vecchio cavalcavia che sovrastava la super strada che portava verso
Boston, il
viso poggiato sull’alta inferriata che serviva a prevenire
che la gente
decidesse di voler provare a volare per poi finire spappolato sul
parabrezza di
un tir, il vento che soffiava forte contro le mie guance e decine e
decine di
auto che sfrecciavano sotto di me.
Nessuno
aveva mai capito la mia passione per le strade, le stazioni, gli
aeroporti. Io
li trovavo bellissimi: luoghi di passaggio, di addii, di fughe. Terra
di tutti
e di nessuno.
Avevo
percorso il solito sentiero tra le alte sterpaglie di quel paesaggio di
campagna che ormai riconoscevo come familiare, avevo attraversato di
corsa il
campo di Mr. Edwards sapendo quanto il vecchio burbero poco apprezzasse
che si
passasse sulla sua proprietà, e poi, dopo aver costeggiato
l’orto abbandonato
di una famiglia che aveva lasciato quelle terre anni prima, ero
arrivata al mio
posto segreto. Una volta quel cavalcavia era aperto al transito dei
veicoli ma,
trovandosi in una zona semi deserta e molto appartata della campagna,
gli unici
a passarci erano dei rari trattori. Poi due anni fa una equipe di
ingegneri
aveva fatto una perizia e aveva stabilito che quel cavalcavia doveva
essere
reso inagibile al passaggio di vetture e così era stato
abbandonato da tutti. I
rovi si erano impadroniti dell’asfalto ormai crepato e le
barriere di ferro si
erano arrugginite.
Da quella
distanza, se si aguzzava bene la vista e ci si alzava un pochino sulle
punte
dei piedi, si poteva scorgere la spianata verde dove si ergeva la mia
piccola
casetta e poco distante la villa di Mr. Liam. Con gli occhi socchiusi,
a causa
del sole pomeridiano ancora accecante nonostante fossero quasi le
cinque,
scrutai quel tetto rosso mattone e mi ritrovai a pensare
all’uomo che ne era il
proprietario.
Negli ultimi
giorni, dalla notte della festa di Zoe, mi ero ritrovata spesso a
soffermarmi
con il pensiero sui suoi zigomi pronunciati o sul suo tono di voce
sempre
velato di sarcasmo. Mi ero sentita colpevole e subito dopo mi ero
arrabbiata
con me stessa, perché mi permettevo simili debolezze e tutto
ciò nella mia
testa appariva come un tradimento nei confronti di Theodore. Eppure
ogni volta
che la mia mente si trovava libera tornava sempre lì: quegli
occhi, quelle
mani, quella bocca. Mi ero gettata a capofitto nel lavoro, convinta che
il
trucco stesse nel tenermi il più impegnata possibile, ma non
appena abbassavo
la guardia, certa di avercela fatta, mi ritrovavo con lo sguardo perso
nel
vuoto e la testa piena di ricordi tutti legati sempre e solo a lui.
Questo mio
uragano di pensieri ed emozioni contrastanti purtroppo non si era
limitato a
portare scompiglio dentro di me. Più volte Donovan mi aveva
sorpreso
chiedendomi cosa mi frullasse in testa visto il mio costante essere tra
le
nuvole. Persino Zoe, regina della distrazione, si era accorta di quanto
fossi
svagata e sovrappensiero in quei giorni.
Il problema
era che ero intrappolata in un circolo vizioso: mi sforzavo di non
pensare a
lui, cadevo nella trappola e contravvenivo a tutte le mie regole, mi
rimproveravo aspramente e poi tutto ricominciava da dove aveva avuto
origine.
Considerata
la mia buona stella Theodore aveva deciso che fosse proprio quello il
periodo
ideale per impegnarsi di più nel mantenere accesa la nostra
relazione e ora
ogni sera alle otto precise mi ritrovavo, mentre lavavo i piatti, a
raccontargli delle mie giornate via Skype. Le nostre conversazioni si
trascinavano tra gli insignificanti dettagli della nostra monotona
quotidianità
sempre vissuta separati e mai condivisa.
Un grosso
camion carico passò strombazzando e portando con
sé una folata di aria calda e
inquinata. Mi allontanai dalle sbarre metalliche e mi sedetti
sull’asfalto
caldo, gli occhi chiusi per godermi il tepore del sole mischiato alla
brezza
che fischiava e faceva danzare le ciocche di capelli sfuggite alla mia
coda di
cavallo disordinata.
Due sere
prima era successo quello che avevo temuto fin da quando Theodore se ne
era
uscito con quella nuova proposta delle videochiamate: ero scoppiata.
«Ti
vedo
distratta…», mi aveva fatto notare lui mentre io
passavo la spugnetta per
l’ennesima volta sullo stesso piatto ormai luccicante.
Non se a
farmi scattare fu il suo tono leggero, come se il fatto che la sua
fidanzata
non gli prestasse la minima attenzione fosse normalissimo, o la mia
esasperazione di fronte a quella situazione con la sottoscritta che
pensava ad
un altro mentre parlava con il proprio ragazzo, il quale a sua volta
probabilmente stava rimuginando sull’etimologia del nome
latino di una cazzo di
pianta.
Avevo
mollato in malo modo il pianto che era scivolato nel lavello pieno
d’acqua
facendo schizzare la schiuma tutt’attorno.
Vi assicuro
che se già litigare è brutto, farlo separati da
uno schermo lo è mille volte di
più.
«Forse
lo
sono perché a quasi ventisette anni mi ritrovo intrappolata
in una relazione
più spenta e soffocante di quella che
c’è tra due ottantenni
dopo sessanta anni di vita insieme?»
Me ne ero
pentita subito. Ero stanca sì ma l’unica con cui
me la sarei dovuta prendere
ero io stessa. Ero io che invece di impegnarmi per migliorare il mio
rapporto
con Theo avevo rinunciato dandolo ormai per perso e avevo iniziato a
fantasticare su qualcun altro. Nel mio intimo avevo ormai detto addio
al mio
ragazzo di sempre ma nella realtà ero ancora legata a lui e
questo significava
solo che tra i due quella nel torto ero io. La cattiva della storia ero
io.
Theodore poteva essere sempre impegnato in mille cose, poteva avermi
trascurata
ma era sempre stato leale nei miei confronti.
Afferrato un
bicchiere avevo iniziato
a sciacquarlo,
avere le mani occupate mi aveva fornito una scusa per non
schiaffeggiarmi da
sola.
«Potresti
almeno guardarmi in faccia mentre mi dici queste cose?». La
sua voce dal tono
grave mi aveva raggiunta alle spalle e mi ero sentita ancora peggio.
Avevo
lasciato perdere le stoviglie ancora insaponate, riposto la spugna e il
detersivo per piatti e mi ero sfilata i guanti di gomma gialla. Dopo un
respiro
profondo, per infondermi la dose di coraggio necessaria per affrontare
la
conversazione per nulla felice che mi attendeva, mi
ero finalmente voltata verso il tavolo dove
troneggiava il viso inespressivo di Theo incorniciato dallo schermo del
portatile.
«Cos’è
successo? Felicity, siamo andati avanti così per
più di tre anni e non ti sei
mai lamentata. Cosa è cambiato? Perché qualcosa
deve per forza essere accaduto.
Quando ci siamo visti in Florida sembrava tutto
ok…», cercava di capire. Aveva
la fronte corrugata e sapevo benissimo che si stava sforzando di
ricordare le
nostre ultime conversazioni, stava scandagliando mentalmente i nostri
ultimi
contatti alla ricerca di quell’indizio che doveva essergli
sfuggito.
Avevo
sospirato perché se c’era una cosa in cui non ero
per nulla brava erano le
tristi discussioni amorose. Perlomeno non di quel genere. Avevo sempre
sognato
che sarei stata protagonista di una di quelle storie d’amore
travolgenti e
totalizzanti dove avrei potuto dare libero sfogo al lato più
romantico e
sognatore del mio carattere. Volevo progettare, parlare solo di cose
belle,
pianificare castelli in aria dall’aspetto meraviglioso e
impossibile per il futuro.
Da bambina,
ancora piena di fiducia e innocenza, creavo per le mie Barbie delle
vere e
proprie soap opera. Litigi, riappacificazioni, inganni, tradimenti,
parentele
insospettabili che spuntavano come funghi ma alla fine tutto si
concludeva
sempre e solo con il coronamento del sogno d’amore dei due
protagonisti che si
univano in matrimonio in un tripudio di coriandoli ottenuti
spezzettando decine
di fazzoletti e squilli di trombe malamente emulate da una Zoe
obbligata a
suonare una trombetta da party in plastica.
Il sole
stava calando e così facendo rifletteva le sue sfumature
rosate e aranciate
tutto intorno rendendo quella campagna così cara a me ancora
più incantata. Quel
paesaggio avrebbe ispirato i migliori poeti inglesi romantici e ne
sarebbero
scaturiti dei versi immortali.
Peccato che
Keats fosse morto ormai da anni e io non spiccassi certo per le mie
doti
liriche.
Mi incamminai
verso casa consapevole del pomeriggio perso ad oziare e a rimuginare
inutilmente su quel grande pasticcio che era ultimamente la mia vita e
della
notevole quantità di lavoro arretrato che mi attendeva.
Mi ero
ostinata nel mio proposito di poter risolvere tutto da sola e non mi
ero
confidata con nessuno. Zoe era sempre mia ospite e nonostante le sue
continue
lamentele sul caldo, gli insetti e il sole non aveva ancora parlato di
partenze
e la cosa mi aveva preoccupato perché mia sorella era una
nomade e l’unico
posto dove amasse fermarsi per un po’ di tempo era la sua
baita di montagna
sperduta tra muschio e roccia. Donovan mi osservava in silenzio,
aggrottava la
fronte più del solito interrogandomi con lo sguardo e mi
scrutava con
attenzione in attesa di un possibile crollo emotivo o perlomeno di una
qualche
reazione.
Ma io sono
bravissima in queste cose. Le emozioni forti, le urla, le crisi
isteriche non
facevano per me. O forse, più semplicemente, non le
riconoscevo come possibile
modo di reagire alla tensione perché non mi ero mai trovata
in una situazione
simile. Avevo ibernato il mio cuore, mi ero raccontata che quello che
avevamo
io e Theo era quello che le persone chiamano amore e mi ero
accontentata.
Sarebbe come
crescere un bambino a broccoli e riso in bianco e raccontargli che sono
i cibi
più deliziosi al mondo, che nulla li supera in
bontà e squisitezza. Non avendo
mai provato ad assaggiare un gelato o un piatto di spaghetti lui si
convincerà
che i broccoli e il riso in bianco siano davvero il top che la
l’arte culinaria
abbia mai prodotto.
Mancanza di
termini di paragone. Ecco, questo probabilmente mi aveva sviato per
tutti
questi anni.
Non volevo
essere cattiva nei confronti di Theodore, non potevo recriminargli
nulla in
fondo. Lui mi aveva sempre offerto il tipo di affetto che lui poteva
dare,
nulla di più, nulla di meno. Non mi aveva mai fatto
promesse, mi era stato
accanto nel suo modo caratteristico sempre un po’ distante e
distratto, ma non
era mai sparito, non mi aveva mai fatto mancare il suo supporto e mi
aveva
sempre tenuto la mano quando ne avevo avuto bisogno.
Per me
quello era stato fondamentale e mi aveva permesso di sorvolare sulla
nostra
lontananza, sulla sua mente sempre impegnata su qualunque cosa non
fossi io e
sul suo modo di fare sempre formale e poco familiare.
Ero stata
felice, forse in un modo diverso da quello che mi ero sempre aspettata,
ma lo
ero stata. Soprattutto all’inizio quando tutto era ancora
nuovo e da scoprire e
Theo ai miei occhi era ancora il timido assistente del professore.
Cambiai strada
per evitare di dover passare accanto al giardino di Mr. Liam e non
appena
raggiunsi il portico percepii qualcosa di diverso dal solito. La porta
finestra
e la zanzariera erano chiuse entrambe, le ante socchiuse e non
c’erano più gli
scarponcini sporchi di terra di Zoe allineati ai miei appoggiati al
battiscopa.
Pescai le chiavi
di scorta da dietro la casetta per uccellini che tenevo affissa alla
colonna
centrale del portico, in verità nessun volatile si era mai
sognato anche solo
di avvicinarsi a quella mia creazione ma tentar non nuoceva, e aprii la
doppia
porta.
«Zoe?»,
chiesi
alla penombra solcata da leggeri spicchi rosso fuoco che penetravano
dalle
persiane. Feci un paio di passi, lo sguardo sul divano vuoto, il
tavolino basso
sgombro dalla solita pila di appunti per la bozza di nuove storie e
racconti
horror, la veranda deserta e i fili del bucato spogli da magliette nere
svolazzanti.
Così
com’era
venuta ora s’era andata.
Come faceva
sempre non aveva avvertito, non aveva chiesto il permesso, non aveva
detto
addio. Aveva raccolto le sue poche cose, le aveva impacchettate e si
era chiusa
la porta alle spalle.
Sul tavolo
della cucina trovai un rapido bigliettino scribacchiato sul retro della
busta
dell’ultima bolletta del gas consumato nell’ultimo
bimestre.
È
giunta l’ora di tornare a casa. Ho mille
idee che mi frullano in testa ma non riesco a capire cosa vogliono
dirmi con
tutto questo tripudio di cinguettii, fiori e raggi di sole a
circondarmi. Non voglio
correre il rischio di trovarmi a scrivere una storia d’amore
tra una
giardiniera e un avvocato affascinante che calpestava incurante il
prato della
suddetta giardiniera, perciò me ne torno tra le mie amate e
crudeli vette in
modo da poter creare qualche nuovo pervertito psicopatico con cui
dilettarmi per
qualche centinaio di pagine.
Smettila di
pensare troppo e fai
qualcosa, qualunque cosa essa sia.
Z.
P.S. Non
chiamarmi per il prossimo
mese: devo concentrarmi e per farlo sarà necessario che
tagli i fili del
telefono e disdica la connessione internet.
P.P.S.
Ovviamente ti voglio bene e
tante cose carine e fiocchettose varie, bleah!
Sorrisi,
invidiando il carattere fiero e imprevedibile di mia sorella.
Non si era
mai curata del giudizio degli altri, delle convenzioni e delle
aspettative e
sembrava dannatamente felice così. Aveva trovato la sua
dimensione, la sua casa
ed era riuscita a trasformare la sua aspirazione in realtà,
anzi, aveva fatto
di più, l’aveva trasformata in un successo che le
fruttava migliaia di dollari
e di fan cerebralmente instabili che la adoravano. Non che a lei
interessasse,
aveva sempre affermato che l’unico scopo dei suoi libri era
che piacessero al
lettore più importante e intransigente di tutti: lei stessa.
Se fosse stata
meno severa nei confronti del suo operato probabilmente ora la sua
bibliografia
consterebbe di trenta volumi e non di sole quattro opere.
Spalancai tutte
le finestre facendo entrare più luce possibile e riposi la
busta con il
messaggio di Zoe nel mio quadernone dei ricordi che era prossimo alla
disintegrazione tanto era consunto e pieno fino a scoppiare. Ero sempre
stata
una di quelle persone che amavano accumulare e conservare qualsiasi
cosa, da un
biglietto del tram ad una fototessera di mia nonna
all’età di quindici anni.
Degli schiamazzi
provenienti dal retro della casa mi distolsero dalla folla idea di
provare a
imitare quell’enorme chignon frutto di cotonatura e fiumi di
lacca che
acconciava i capelli di nonna nei lontani anni Cinquanta.
Mi sporsi
fuori dalla finestra per vedere se mi ero immaginata il tutto o
qualcuno aveva
appena strillato e quando, in risposta al silenzio che mi accolse,
stavo per
ritirarmi in casa chiudendo i vetri, delle piccole urla mi fecero
tornare sui
miei passi.
Uscii in
giardino cercando di capire da dove provenissero ma di nuovo non sentii
altro
che il fruscio delle fronde del salice e il canto di qualche grillo
già in
azione visto l’orario quasi serale.
Mi allontanai
da casa mia, addentrandomi nel verde in direzione della mia piccola
serra e del
muretto di recinzione. Il rumore di un pianto lieve, come trattenuto, e
di
alcuni singhiozzi disperati furono la stella cometa che mi condusse al
retro
della parete di vetro che stava a nord, dove, accucciata a terra, stava
una
bambina.
Aveva degli
enormi occhi grigi spalancati e appannati dalle lacrime che le
scendevano
copiose, un dito infilato in bocca e le ginocchia graffiate.
Mi avvicinai
piano e non appena entrai nel suo campo visivo la piccola fece un balzo
e si
gettò verso di me, aggrappandosi disperata alle mie gambe e
nascondendo il viso
contro i miei jeans.
«Hei,
cosa
succede? Shhh, tranquilla, va tutto bene…», mi
abbassai per poterla abbracciare
stretta e calmarla cullandola piano.
Sentivo le
sue piccole mani intrecciate dietro il mio collo e il suo respiro
accelerato
dallo spavento.
«Ci
sono qui
io adesso. Cosa ti ha fatto paura?», le chiesi allontanandola
leggermente da
me, nonostante le sue mani non accennassero a lasciarmi andare, e le
asciugai
piano le guance.
«Un
brutto
insetto…», mormorò guardandosi attorno
circospetta.
Sorrisi pensando
alla medesima reazione che aveva avuto Zoe due settimane prima quando
aveva
trovato una cavalletta sul davanzale, solo che lei invece che piangere
aveva
strillato fino a rimanere senza fiato e aveva fatto sfoggio di tutto il
suo
vocabolario di parolacce e improperi.
«Vieni,
entriamo dentro la serra. Qui non ci sono brutti insetti ma solo i
buonissimi
frutti di bosco che io coltivo…», le spiegai
afferrando la sua mano e facendole
strada nell’ambiente umido della serra.
Era ancora
presto per le fragole ma c’era già un profumo
dolciastro a permeare tutto lo
spazio, sperai che questo non avesse attirato troppe api altrimenti mi
sarei
ritrovata a fronteggiare una nuova crisi infantile.
«Come
ti
chiami?», le chiesi mentre la facevo sedere su una delle
poltroncine di vimini
che avevo posizionato accanto all’entrata per creare una
sorta di piccolo
salotto.
Lei si
accomodò tutta impettita con la schiena, facendo attenzione
a non appoggiare la
schiena e la testa allo schienale.
«Arabella.
Posso
avere un fazzoletto, per favore?», mi rispose guardandomi
attentamente. Percepii
i suoi occhi su tutta la mia figura e vidi chiaramente il suo nasino
storcersi
di fronte alle mie scarpe di tela macchiate di terra e quei pozzi grigi
si
spalancarono quando si accorsero che stavo indossando degli shorts
ridicolmente
corti.
Come poteva
una bambina così piccola farmi sentire a disagio?
Allungai una
mano nella tasca sul retro dei miei pantaloncini e ne sfilai un
fazzoletto,
spiegazzato ma pulito.
Glielo porsi
ma lei, invece di prenderlo e soffiarcisi il naso, mi
domandò se ne avessi un
altro.
«Questo
andrà benissimo se davvero ne hai bisogno», la
ripresi senza accennare ad
assecondare quello che ai miei occhi era un semplice capriccio.
«Allora
non
lo voglio!», squittì guardandomi storto.
Era evidente
che non fosse abituata a non essere accontentata in tutte le sue
richieste
pretenziose.
Sbuffai,
feci un paio di passi nella sua direzione e mi chinai verso di lei.
Dispiegai il
fazzoletto e delicatamente le pulii il nasino appiccicaticcio.
Lei
tentò di
divincolarsi ma io ero stata più rapida e soddisfatta mi
lasciai cadere sulla
poltrona di fronte alla sua, il fazzolettino incriminato già
fatto sparire
nella mia tasca.
«Avevo
detto
di no», mi fece notare imbronciata lei.
Alzai le
spalle con fare noncurante, «Devo aver capito
male…»
Indossava un
vestito di organza color celeste, più adatto ad una festa di
battesimo che ad
una scampagnata.
«Ti
sei
persa Arabella? Cosa ci facevi nel mio giardino?», la
interrogai cercando di
capire da dove fosse arrivata quella piccola principessina che ora
stava
guardando con espressione di disgusto una piccola macchia
d’erba sulla punta
della sua scarpetta di lucida vernice bianca.
Lei
sollevò
lo sguardo e mi guardò curiosa, «Come ti
chiami?»
«Felicity»
La vidi
annuire tra sé e sé come se la mia risposta le
avesse confermato qualcosa che
aveva già immaginato da sola.
Quella bambina
era decisamente atipica e mi intimoriva leggermente.
«Quanti
anni
hai?»
«Non
te l’hanno
insegnato che non si chiede mai l’età ad una
signorina?», mi rimproverò
corrugando le sue sopracciglia chiare e scuotendo la testa di boccoli
castani.
Per un
attimo restai senza parole e mi limitai a fissarla interdetta mentre
dentro di
me mi domandavo sulla possibilità di trovarmi di fronte ad
un cyborg con le
sembianze di un’angelica bambina.
«Sì,
ma non
sono mai stata molto obbediente. Facciamo così: tu mi dici
quanti anni hai e io
farò lo stesso, ok?», le proposi curiosa di sapere
quanti anni aveva quel
piccolo robot…ehm volevo dire bambina.
Lei socchiuse
gli occhi come se stesse riflettendo sulla possibilità che
stessi cercando di
ingannarla in un qualche modo subdolo e alla fine acconsentì
mettendo come condizione
che fossi io la prima a rivelare quel grandissimo segreto che
costituiva la mia
età anagrafica.
Quando le
rivelai
che avevo ventisei anni non reagì e si limitò ad
inclinare il capo e a lanciare
un altro sguardo stranito ai miei calzoncini di jeans.
«Io ne
ho
cinque ma tutti dicono che sembro più grande»,
affermò orgogliosa come se fosse
naturale che una bambina a cinque anni fosse già scontenta
della sua età e
desiderasse essere più grande.
L’aspetto
era quello di una bambina di cinque anni ma il comportamento era quello
di un
piccolo adulto e non sapevo perché ma la cosa mi metteva
addosso una tristezza
infinita.
«Ora
mi vuoi
dire cosa ci facevi nel mio giardino?», le domandai
più dolcemente.
«Mi
annoiavo
e ho deciso di fare una passeggiata…»,
spiegò vagamente prima di alzarsi in
piedi, sistemarsi il vestitino, lanciare un’ultima occhiata
preoccupata alla
scarpetta rovinata e chiedermi se poteva fare un giretto esplorativo
della
serra.
Annuii contenta
e mi alzai a mia volta. «La tua casa ha un
giardino?», chiesi mentre accendevo
le luci e recuperavo il mio fido innaffiatoio.
«No.
Abito in
un loft in città e mia mamma trova la natura sporca e piena
di microbi»
Seguii con
lo sguardo quella piccola testa castana aggirarsi tra le file di
piantine di
ribes e di more. Mi ricordava qualcuno ma non avrei saputo dire chi.
Quella sua
affermazione mi fece arrabbiare ma era inutile tentare di prendersela
con la
piccola, se aveva una madre idiota la colpa non era certo sua.
Evidentemente Arabella
era stata plasmata dalle idee della sua scellerata genitrice
perché mentre
camminava tra tutto quel verde sembrava estremamente a disagio.
«Io
faccio
la giardiniera e trovo la natura meravigliosa. Vieni qui, Arabella, e
guarda…»,
aspettai che mi raggiungesse prima di indicarle la piccola fragolina
pallida
che faceva capolino tra le foglie di una piantina. «Da un
seme la natura ci ha
regalato ciò: una nuova vita, un succoso e delizioso frutto,
altri semi per
continuare il ciclo di bellezza e magia. Tutto questo è
bellissimo non trovi? Vivevamo
in mezzo a tutto questo splendore e poi mano a mano che ci evolvevamo
ce ne
allontanavamo. E così siamo passati dal vivere nella natura
allo sfuggire da
essa dentro a strutture di cemento e ferro. Ti pare sporco quello che
vedi?»,
le porsi l’innaffiatoio e la aiutai a sostenerne il peso
mentre l’acqua bagnava
le radici della piantina.
«Quindi
tu
puoi mangiare queste fragole?», domandò la piccola
guardando con occhi
spalancati quel piccolo frutto ancora acerbo.
Capivo lo
stupore, era lo stesso che io provavo ancora ogni volta che il mio
giardino e
il mio orto mi facevano dono di qualche nuovo e gustoso frutto o
ortaggio. L’uomo
poteva benissimo sopravvivere senza i supermercati, senza
l’allevamento
intensivo, senza i pesticidi e i prodotti chimici. Lo aveva fatto per
secoli:
cibarsi di quello che si coltivava, con fatica, sudore e tempo.
«Mi
piacciono le fragole. Mamma però è allergica
quindi Mercedes non le compra mai»,
mi disse quasi sovrappensiero.
Più
parlava
di sua madre meno quella donna mi piaceva.
«Bè,
se mi
dicessi da dove sei arrivata potrei regalartene un cestino quando
saranno
mature…», le proposi strizzandole
l’occhio.
Lei si
illuminò tutta all’idea e mi sorrise entusiasta.
«Arabella?»
Una voce
attutita dalle pareti di vetro ci raggiunse e la bambina
sbuffò a questo suono.
La presi per
mano e spensi le luci prima di uscire nuovamente all’aria
aperta.
«Non
voglio
andare da lui! Sta sempre al telefono e io mi
annoio…», protestò la bambina
puntando i piedi e rifiutandosi di seguirmi.
Sospirai
rassegnata,
chiedendomi che razza di genitori avesse quella poveretta, e mi fermai
per
potermi inginocchiare accanto a lei e convincerla a ragionare.
«Suvvia
tesoro, non puoi -»
«ARABELLA!
Questa
volta hai esagerato! Quante volte ti- …Felicity? Cosa ci fai
tu con lei?»
Alzai lo
sguardo e incrociai due occhi grigi che mi scrutavano interrogativi.
Occhi grigi.
Chinai lo
sguardo e fissai i medesimi occhi sul volto della bambina che mi stava
di
fronte con un’espressione preoccupata e una mano tra i miei
capelli.
«Io…bè…non
sapev-…come potevo-…»
«Papà,
lei è
la mia amica Felicity. Tu la conosci?», mi interruppe
fortunatamente la
piccola.
Liam Carter
Wright annuì grave e allungò una mano, chiaro
invito a seguirlo.
«Promettimi
che ti ricorderai delle fragole. Per favore…», mi
implorò Arabella stringendo
le mie ciocche dorate e fissandomi con uno sguardo triste.
«Certo
che
me ne ricorderò! Torna a trovarmi e mi raccomando: non
rivelare a nessuno
quanti anni ho», scherzai abbracciandola piano e respirando
il profumo di
albicocca che emanava la sua pelle.
Lei
ridacchiò
contro il mio collo prima di staccarsi e prendere la mano del padre.
«Nessuno
lo
saprà mai. Segreto segretissimo!»
Li guardai
incamminarsi mano nella mano e fissai quell’uomo
così alto legato a quel
piccolo esserino avvolto in un fatato vestitino azzurro e poco prima di
sparire
alla mia vista vidi Mr. Liam voltarsi a cercare il mio sguardo, gli
occhi
dispiaciuti e terribilmente belli.
Papà.
Accidenti!