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Autore: Rei_    23/03/2016    5 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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«Uh?»
La porta si aprì di scatto, e il gelo della notte si diffuse velocemente in tutta la stanza. Vi entrò un uomo con un cappotto molto elegante, che si strofinò le scarpe sullo zerbino.
Thomas si alzò a fatica dal divano, rendendosi conto in quel momento che si era addormentato davanti alla televisione.
«Riccardo?»
«Thomas?» rispose Marchesi, altrettanto stupito dell’altrui presenza,
«che ci fai qui?»
«Stavo lavorando e poi ho guardato Michele… alla TV…» biascicò, incapace di mettere due frasi in fila per la stanchezza.
Si alzò per spegnere il televisore, che ormai mostrava il tg della notte, mentre cacciava un sonoro sbadiglio, sistemandosi con la mano i capelli biondi scompigliati.
«E com’è andato?» chiese Marchesi, togliendosi il soprabito e rivelando un maglione blu troppo casual per i suoi standard.
«Direi bene. Ma tu non l’hai visto?»
«No».
Thomas lo guardò male.
«E perché mai? È una faccenda grave, e lui è un tuo deputato!»
«Non mi piacciono i talk show» commentò sbrigativamente Marchesi, andando ad aprire un armadio nel corridoio, «ti va del rum?»
«No» rispose Thomas, «ehi, aspetta, ma che ci fai qui tu a quest’ora?»
Il segretario di Sinistra Democratica riemerse dal buio con la bottiglia in mano.
«Dormo spesso qui» rispose placidamente.
«Nella nostra sede? Non ce l’hai una casa?» commentò ironicamente Thomas, sapendo bene in quale genere di villa abitava il suo segretario.
«Sì, ce l’ho» rispose lui, «ma è troppo piena di ricordi, a volte».
Thomas scrutò il suo segretario da capo a piedi mentre l’altro, con fare indifferente, si versava l’alcolico in un bicchiere. Forse era quel maglione blu a confonderlo, ma ebbe la chiara impressione di vedere qualcosa di diverso in lui. Avevano passato diversi anni della loro vita a odiarsi reciprocamente, e ancora Thomas doveva fare i conti con l’idea di condividere la stessa sede con “Riccardo-il-damerino”.
«Non è consono per un segretario di partito bere alcolici a tarda notte» lo rimbeccò il biondo.
«Non è appropriato per un deputato fare brutte osservazioni sulle abitudini del suo segretario».
Marchesi arricciò il naso con aria di superiorità, e Thomas trattenne una risata. Non era poi così cambiato dalla loro gioventù.
«Non sei stato tu a mettere quella busta nella tasca di Michele» affermò il biondo dopo qualche minuto, rompendo il silenzio che si era creato.
Riccardo sorseggiò il rum con calma. Finito il bicchierino se ne versò un altro, sotto il costante sguardo di rimprovero di Thomas.
«Lo so che non faresti mai qualcosa che va contro il partito. Il nostro partito» insistette il biondo.
Marchesi si leccò un labbro. Aveva gli occhi spenti, come se fossero completamente assenti dal presente.
«Detto da te mi suona strano» sorrise, «ricordo ancora il tuo discorso, il primo giorno che entrai nel vostro partito…»
«Lo ricordo anch’io» lo anticipò Thomas, «ti dissi che voi democristiani eravate alla nostra porta per scopi puramente elettorali, e che mai sareste stati parte integrante di Sinistra Democratica…»
«…ma che, nel nome della lotta al fascismo, voi avreste comunque accettato di condividere il vostro spazio con noi» concluse Marchesi. Il suo volto assunse diverse espressioni mentre ricordava, «un discorso da vero statista, devo dire».
Thomas fece una smorfia. Era fin troppo strano ritrovarsi lì adesso, in quella stessa sede dove avevano preso la decisione storica di accettare che dei democristiani entrassero nel loro partito, a interpretare la replica di loro due da giovani che giocavano al cane e al gatto.
«In parte avevi ragione ad avere dei dubbi. Né io né Goffredo eravamo brave persone, e lo sapevi benissimo. Ma sono successe delle cose, dopo. E ora è tutto diverso…» Marchesi appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo, fissandolo con un sorriso quasi luminoso,
«hai ragione tu, Thomas. Non farei mai nulla contro il nostro partito».
Il deputato biondo sorrise in risposta, sinceramente contento di sentire quelle parole. Si alzò, aprì un armadio e vi trasse fuori due coperte pesanti, lanciandole addosso all’altro.
«Buonanotte. Ti affido la nostra base».
«È in buone mani, caro compagno».
Thomas si congedò subito dopo, lasciando da solo Marchesi con i suoi fantasmi.
 
 
Erano in quattro quella notte. Era stato Francesco a decidere il numero. Di più si rischiava qualche parola di troppo e di fare troppa confusione, di meno non ci sarebbe stato abbastanza rinforzo per tutte le evenienze.
Per Thomas, ventitré anni, una ormai prossima laurea in scienze politiche e già diverso tempo della sua vita riempito con comizi, cortei e comitati fondati su ogni sacrosanta lotta che nasceva in città, quella era la prima volta. Era ancora un mistero come facesse Francesco Venturi, uno che, nonostante tutto, stava dall’altra parte, ad avere certe conoscenze in fatto di bombe artigianali. Venturi, uno che stava nell’Azione Cattolica e nelle associazioni di centro, uno che faceva l’animatore in oratorio la domenica e il catechista il sabato.
«Io sono di Bologna» aveva detto loro l’altra sera, «fare danni qua non mi costa niente, non mi conosce nessuno. Domani sarò a casa mia e potrò ridermela mentre cercheranno il colpevole. Quindi vedete voi se volete prendervi il rischio di accollarvela».
Thomas e gli altri si erano lanciati sguardi eloquenti e avevano discusso tra loro. Nessuno, né nel sindacato né nel partito, aveva mai neanche osato fare una scritta sui muri, figuriamoci far saltare in aria un covo di fascisti. Erano persone pacifiche, per quanto gli altri non li vedessero così. Il problema era Francesco. Francesco il cattolico che proponeva di passare all’azione, al contrattacco, e loro che non potevano farsi vedere conigli davanti ad un democristiano, era una questione di dignità. E poi, Thomas stava iniziando a capire che, per quel periodo storico, non era più il caso di darsele uno contro l’altro, ma di allearsi contro il nemico comune della democrazia. E aveva ragione, perché due anni dopo Sinistra Democratica sarebbe finalmente diventata la casa di tutti loro.
Era un martedì sera buio e deserto, e i loro passi su una via secondaria del Pigneto risuonavano nel vuoto. Francesco procedeva in avanti come se sapesse davvero ciò che stava facendo, con l’ordigno che rimbalzava nello zaino e i ciuffi rossi che gli ricadevano sulla fronte.
«Sei sicuro che funzionerà?»
Gliel’avevano chiesto almeno cinque volte solo in quella giornata, e lui aveva sempre risposto sbuffando e rimproverandoli per la loro scarsa fiducia.
«La chimica non è un’opinione!»
«Ma che ci fa uno che sa costruire bombe dentro l’Azione Cattolica?»
Quello nessuno se lo sarebbe mai spiegato, nemmeno Francesco. Cattolico in effetti lo era, ma non lo sembrava troppo dal carattere. Lo si trovava sempre alle manifestazioni studentesche sul carro del suo gruppo, dove con una grinta innata se la prendeva con questo e quel politico che non faceva abbastanza per gli studenti. Uno che sembrava facesse politica solo per il gusto di fare casino e di stare con la gente. Non c’era persona alla quale non stesse simpatico.
Aveva una buona parola per tutti, tranne che per i comunisti, che prendeva in giro, ma sempre con simpatia. Forse era per quello che era finito tra i democristiani: per il semplice gusto di prendersela con i comunisti.
Di lotta armata contro i fascisti ne parlava solo sottovoce e nei posti giusti. Nessuno, dall’Azione Cattolica all’Associazione Giovanile Universitaria era venuto a sapere della loro incursione notturna. E nessuno lo avrebbe mai saputo. Erano questi i patti.
«Eccoci» annunciò ad un certo punto.
Erano arrivati. Il covo era lì, vuoto, con le serrande chiuse. Sopra c’era un’abitazione con le tapparelle serrate. Anche se avessero sentito il botto, ci avrebbero messo un po’ di tempo prima di tirarle su per guardare in strada.
Francesco tirò fuori con cura l’ordigno, facendosi aiutare a sistemare la miccia in modo da poterlo accendere a debita distanza. Thomas osservò bene come i suoi compagni avessero quasi paura a toccare con i guanti quella roba che da un momento all’altro sarebbe esplosa, mentre Francesco non mostrava alcuna esitazione a infilare la mano per sistemare e raddrizzare.
Quando fu tutto pronto, Thomas estrasse l’accendino. Avrebbero dovuto fare in fretta, senza pensarci troppo, perché altrimenti sarebbe potuto passare qualcuno. La delicatezza del momento era estrema.
«Lo accendi tu?» chiese al roscio. Gli seccava lasciare fare quella cosa a un democristiano, ma, per quanto gli costasse ammetterlo, aveva una paura matta.
«Dà qua, zecca».
Attese un attimo e accese la miccia. Si assicurò per un secondo che seguisse il suo corso senza imprevisti prima di iniziare a correre come un forsennato per la strada.
Thomas fu avvantaggiato dalle gambe lunghe e arrivò più lontano degli altri quando si udì lo scoppio nel silenzio della notte. Era pur sempre un ordigno artigianale, ma qualche danno lo aveva certamente fatto. Come con i regali di Natale, bastava il gesto.
Si ritrovarono in un vicolo, tutti e quattro con il fiatone. Francesco riuscì a sorridere, evidentemente euforico.
«L’ho sempre detto io, che voi comunisti siete i primi a scappare!»
«Non ricominciare, roscio!» lo ammonirono tutti. Poi però scoppiarono a ridere. Era fatta, e loro erano salvi. Domani i giornali avrebbero parlato di quel briciolo di vendetta contro tutti i soprusi perpetuati dai fascisti, e con un po’ di fortuna nessuno li avrebbe mai scoperti.
«Marchesi darà la colpa a noi» si lamentò Thomas, «come gli spieghiamo che l’idea è stata del suo caro, cattolicissimo amichetto Venturi?»
«Semplicemente non glielo spiegate» sorrise Francesco, ma con una certa autorità nella voce. Era il più piccolo, diciassette anni compiuti, ma sapeva bene come farsi ascoltare, «lui non lo deve sapere. Lo sai che non è d’accordo con questo… metodo».
Thomas sospirò, con ancora l’adrenalina nel sangue che gli impediva di stare fermo. D’altra parte, faceva parte dei patti anche quello.
Alzò gli occhi al cielo, assaporando la vista di qualche stella, chiedendosi di sfuggita cosa stesse facendo la sua sorellina lassù. Le mandò un bacio immaginario, mentre un rivolo di sudore freddo faceva il suo corso lungo la schiena.
«Sede nostra o sede tua?» scherzò Thomas, mentre tutti e quattro si sistemavano sugli scooter. Senza fretta, perché ormai ciò che era fatto era fatto.
«Dipende. Ce l’avete del buon vino?» chiese Francesco.
«Mai mancato, quello».
 
 
*
 
 
Trascorse una settimana.
Nonostante la dichiarazione ufficiale di Pasqui in sua difesa, Michele si accorse ben presto che gran parte del partito aveva iniziato a vederlo di pessimo occhio, ancora peggio che dopo i tempi
dell’equivoco articolo di giornale. Lui, con la solita ingenuità, salutava tutti cordialmente, ma in cambio spesso riceveva solo occhiatacce di rimprovero. Avrebbe tanto voluto fregarsene, invece ci soffriva.
Arturo aveva ripreso a stargli accanto come non mai. L’anziano lo rendeva partecipe di tutto ciò di cui si discuteva in Sinistra Democratica, sia apertamente che segretamente. Gli chiedeva opinioni su tutto, e si complimentava quando faceva osservazioni brillanti. E poi, con la sua presenza, costringeva gli altri deputati ad avere almeno un minimo rispetto per lui, almeno quando giravano insieme.
Thomas, invece, era bravissimo a tenerlo il più lontano possibile dai giornalisti. Li scansava e li derideva apertamente, finendo poi su tutti i telegiornali per il suo atteggiamento. Si diceva in giro che molti compagni erano andati a chiedere a Pasqui di dirgli qualcosa per evitare certe figure indegne, ma sembrava che il capogruppo non si sarebbe mai permesso di rimproverare Thomas.
Pasqui, con Michele, aveva conservato lo stesso atteggiamento ostile e indifferente. Invece, Marchesi era diventato più cortese del solito.
Michele non capiva come facesse, ma ogni giorno riusciva a intercettarlo “casualmente” in qualche corridoio, insistendo per offrirgli il caffè o l’amaro. Gli parlava a manetta per un quarto d’ora, offrendogli anche consigli e frasi di incoraggiamento, per poi sparire, preso da qualche impegno sempre urgentissimo.
La strana nascente amicizia con il suo segretario non convinceva per niente Nicolò, e Michele non riusciva a capire perché.
«Mi sembra abbastanza strano che tutto a un tratto abbia preso questo atteggiamento. Secondo me c’è dietro qualcosa» rispose, quando Michele gli chiese per l’ennesima volta cosa avesse contro Marchesi.
«Assolutamente no! Io e lui siamo spesso in disaccordo sulle idee, ero tra quelli che non l’ha votato al congresso e sicuramente non sono stato contento di certi suoi atteggiamenti, ma ha speso la sua vita lottando ed è una brava persona».
«Vedi, è questo il vostro problema!» scattò Andreani, «non è possibile dire niente su di lui perché voi lo mitizzate!»
«Sembra di sentire parlare Arturo» sbuffò Michele.
«Arturo mi sembra quello che più ragiona del partito vostro» ribatté il capogruppo del Fronte, che aveva molta stima dell’anziano deputato per la sua lotta contro la mafia.
«Sì, ma è anche prevenuto, lo conosco».
«Dammi retta, Michele» Andreani gettò la sigaretta, prendendogli dolcemente una spalla per guardarlo negli occhi, «Marchesi non è una brava persona».
 
Michele riuscì ad intuire dal suo sguardo che c’era qualcosa che l’altro non gli stava dicendo. Quando uscì dal cortile, si appuntò mentalmente di indagare meglio la questione.
 
 
*
 
 
«Ho capito».
Marchesi aveva una mano sulla fronte per la noia e l’esasperazione mentre teneva il telefono in mano davanti a sé. Pasqui invece era serissimo, seduto rigidamente sulla poltrona girevole davanti alla scrivania.
«Bel casino» commentò stancamente il segretario, non appena finita l’ennesima chiamata. Si versò un goccio di vino nel bicchiere. Quel giorno stava bevendo poco, doveva mantenersi lucido.
«Il vero casino sarà domani» ribattè, Pasqui, più nervoso che mai, mentre al contrario beveva il vino a grandi sorsi.
«Abbiamo tutta la notte per preparare una linea. Non è quello il punto. Dobbiamo riuscire a bloccare tutto, sai di che parlo» spiegò Marchesi, mentre pasticciava nervosamente un blocco di appunti.
«Goffredo ha chiamato tutte le sue conoscenze. Io ho chiamato i giornali. Abbiamo limitato i danni il più possibile» ragionò Pasqui. Riccardo ascoltava il resoconto dell’amico, ma si distraeva facilmente. Il sole stava già tramontando, e a volte assistere a quello spettacolo riusciva a riempirlo di sconforto. Un tramonto è un giorno che finisce, una vita che si spegne e della quale, forse, rimarrà solo un angoscioso ricordo.
«Servirà altro vino se dobbiamo stare qua tutta la notte» fece notare poco dopo, come se fosse di vitale importanza, prendendo il telefono per avvisare una delle collaboratrici. Non fece in tempo a chiamare, però, che Pasqui gli prese il cellulare in mano.
«Prima dobbiamo fare una cosa».
«Cosa?»
Il capogruppo alzò un sopracciglio.
Marchesi sospirò, anche se sapeva bene che l’altro aveva ragione. Sarebbe stato troppo rischioso.
Gli lanciò le tre bustine che aveva, due nelle tasche interne della giacca e una nella ventiquattrore. Pasqui le prese al volo.
«Cercherò di fidarmi di te».
«Non preoccuparti, erano le ultime».
Riccardo lo fissò innervosito mentre Pasqui se le nascondeva addosso.
«Quanto resisti senza?»
C’era un tono compassionevole nella voce dell’amico, e il segretario ne fu ancora più irritato.
«Quanto voglio».
Pasqui lo fissò negli occhi. Non gli credeva nemmeno un po’, ma fece finta di niente e continuò il resoconto delle misure intraprese. Si prospettava una lunga nottata.
 
 
*
 
 
Nicolò aveva fatto in tempo ad analizzare il calendario dei lavori fino alla prossima settimana.
Vedere che Michele era finalmente quasi fuori dalla scia mediatica di fango lo aveva tranquillizzato un po’, e ora procedeva spedito dentro il suo ufficio, stampando emendamenti di qua e inviando fax di là.
Il sole, fuori dalla finestra, stava tramontando dietro le case. Il capogruppo si ricordò di tutte le volte che lo aveva visto tramontare da altri uffici, perso in altre vite che nulla avevano a che fare con quella. Facendo politica aveva lasciato indietro tutto il resto senza troppi rimpianti, e questo forse voleva dire che aveva trovato la sua strada. Non ne era sicuro al cento per cento, ma quel giorno se lo sentiva più del solito.
Quando Chiarelli entrò, insieme ad altri quattro deputati, Nico era troppo concentrato sul suo lavoro e sui suoi pensieri per accorgersi di loro.
«Nicolò».
Era da un po’ di tempo che non usava quei toni confidenziali con lui. Ultimamente, i loro rapporti si erano ridotti quasi solo a buongiorno e buonasera, e a volte nemmeno quello.
Nico alzò lo sguardo. Davanti a sé c’era il suo vice, Giorgio e altri due tra i deputati di lungo corso del Fronte. Chiarelli aveva in mano dei fogli, ma li teneva in modo tale da non fargli leggere neanche una riga.
«Dobbiamo parlare, è una faccenda molto seria».
«Ah, sì?» ironizzò Nicolò «fammi indovinare, c’è un’altra foto di mezzo? Mi scuserai se non ti do retta, ma starei lavorando per il gruppo».
Chiarelli mandò uno sguardo d’intesa a Giorgio.
«Nico, è una cosa molto seria. Non si parla di una foto, ma di intercettazioni telefoniche» intervenne Giò.
Nicolò drizzò le orecchie, scrutando l’amico. Smise di battere sulla tastiera, improvvisamente serio.
«Vi ascolto».
Chiarelli si sedette vicino a lui, tenendo i fogli sempre capovolti. Cercava il suo sguardo mentre parlava, ma Nicolò continuò ostinatamente a guardare fisso davanti a sé per non incrociarlo.
«Ho un amico che lavora a Repubblica e mi ha mandato un pezzo che uscirà domani. Per ora siamo solo noi a saperlo. La procura di
Catanzaro ha aperto un fascicolo di intercettazioni, con l’obiettivo di inseguire la pista di un clan della ’ndrangheta. Sono saltati fuori dei nomi… Tra cui un certo Vittorio Martino».
Nicolò sussultò sentendo il cognome. Cercò di rimanere impassibile mentre mille domande gli affollavano la mente.
«Vittorio è il fratello di Michele. A quanto pare ha fatto pressione, mesi fa, per un emendamento che SD ha approvato alla finanziaria, aiutando la sua compagnia di assicurazioni».
Il fratello. Non gli aveva mai parlato di un fratello.
La ‘ndrangheta era la criminalità che più di tutte si basava sui legami di famiglia, e lui se l’era sempre ricordato. Era la ‘ndrangheta che aveva colpito a Milano, quella da cui lui stesso era stato minacciato durante la sua campagna elettorale.
«Ma non è tutto…» Chiarelli sospirò, cercando sostegno dagli altri colleghi, «in queste telefonate, si parla chiaramente di come il fratello di Vittorio, Michele, sarebbe stato eletto grazie a migliaia e migliaia preferenze per cui il padre avrebbe sborsato circa duecentomila euro in voti di scambio».
Nicolò registrò quelle parole e il loro significato molto lentamente. Ritornò indietro nel tempo, alla sua prima settimana in Parlamento, dove si era informato riguardo a tutti i suoi colleghi. Ritornò ai primi discorsi fatti a casa con Giorgio, dove gli aveva esposto tutti i suoi sospetti su quelle preferenze prese da quel giovane calabrese che non si era mai visto prima nel mondo politico. Ora c’era la conferma che aveva avuto ragione, quell’unica volta in cui avrebbe desiderato sbagliarsi del tutto.
Gli passarono davanti tutti i momenti delle ultime settimane che aveva trascorso con Michele. Chi era quella persona che aveva difeso dai suoi colleghi, dai giornalisti? Quello con cui aveva passato una settimana chiuso nel suo ufficio per scrivere una legge, finendo per farlo ammalare? Quello con cui aveva bevuto sul tetto, e che aveva abbracciato dopo che gli aveva raccontato tutti gli orrori del suo passato?
Focalizzò ciascun ricordo, unendolo a quella nuova consapevolezza. Avrebbe dovuto riscrivere ogni singolo attimo, in cui con lui ci sarebbe stato un altro Michele. Uno che aveva comprato le preferenze tramite il padre. Uno membro di una famiglia di mafiosi.
Non si era accorto di avere stretto i pugni, istintivamente. Chiarelli gli appoggiò una mano sulla spalla, cercando di calmarlo.
«Capisco come ti senti, ma non è più possibile difenderlo con queste accuse. Dobbiamo preparare delle dichiarazioni da fare».
Nicolò ripensò a quando gli era piaciuto insultare spesso e volentieri i colleghi della maggioranza, tirando fuori cose del loro passato che neanche loro pensavano di avere e utilizzando le calunnie più fantasiose. A quei tempi, questo sarebbe stato il suo più grande piatto d’argento per questa pratica. Ora, invece, era peggio di una coltellata alla schiena.
«Certo» Nicolò fece un sorriso, colmo di tutta l’amarezza che stava provando, «fate come meglio credete, lascio questo compito a voi» rispose calmo.
Si alzò in piedi, rendendosi conto che stava tremando. Non gli era mai successo. Era decisamente fastidioso non avere più neanche il controllo del proprio corpo.
Tutti lo fissarono mentre si chiudeva la porta alle spalle. Erano venuti in quattro, apposta per dargli sostegno e per convincerlo all’azione, e lui se n’era semplicemente andato.
Eppure non gli importava. Nemmeno un po’.
Corse fino al parcheggio delle moto, si indossò il casco e partì a razzo, tra le proteste dei pedoni e i clacson delle macchine.
Non sapeva neanche lui dove stava andando. Per l’ennesima volta nella sua vita, stava viaggiando senza meta e senz’alcun appoggio a cui fare riferimento. Per la prima volta, però, stava viaggiando con un vuoto nel cuore. Una sensazione terribile, di quelle che ti impediscono di respirare, come se fosse il tuo stesso corpo a rifiutare l’ossigeno, e ti fanno sentire la testa compressa dentro pareti troppo strette, intrappolata in un dolore senza via di fuga.
Era così che si sentivano gli altri, quando soffrivano?
Strinse più forte i manubri e accelerò, tenendo gli occhi puntati sulla strada sotto di sé che, mano a mano che avanzava, diventava sempre meno familiare.
 
 
*
 
 
Michele stava lavando i piatti nel lavello, in qualche modo sereno. L’opinione pubblica sembrava aver accettato la sua innocenza, e ormai erano pochi i giornalisti rimasti a dargli ancora fastidio sulla storia della bustina.
La protezione di Nicolò era stata preziosa per dargli coraggio, e alla fine aveva avuto ragione: si era risolto tutto.
D’altra parte, da quando lo conosceva sembrava che tanti problemi che si trascinava dietro da anni fossero diventati più sopportabili. Finì di sistemare la cucina pensando a quanto quell’insolito legame fosse diventato prezioso, prima di sobbalzare quando sbloccò il cellulare e lesse un suo messaggio.
 
Non venire domani a Montecitorio. Aspetta il tempo che ti servirà. Questo è l’ultimo favore che ti faccio.
Domani capirai.
 
Lesse quelle poche righe almeno una decina di volte, pensando ad uno scherzo. Non era lui, non poteva essere un suo messaggio.
Provò a chiamarlo diverse volte, ma il cellulare squillò a vuoto. Non era vero.
Perché?
Che diavolo era successo?
- l’ultimo favore che ti faccio –
La frase gli rimbalzò nella mente diverse volte, mentre piano piano la assimilava, rendendosi conto del suo effettivo significato.
«Ma perché?»
Non si diede il tempo di aspettare la crisi che sentiva che stava per salirgli. Corse in camera, diretto verso il suo comodino. Dal primo cassetto estrasse il blister con i sonniferi, e ne buttò giù tre, uno dietro l’altro.
Fece giusto in tempo a sistemarsi a letto prima che iniziasse l’effetto e la sua camera svanisse in un bianco quasi rassicurante.
Sarebbe stato lontano dalla paura, almeno quella notte.
   
 
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