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Autore: _Sarah_Hemmings_    25/03/2016    0 recensioni
Whatever: Letteralmente "qualunque cosa". Whatever era Luke Hemmings. Qualunque cosa può essere buona o cattiva. Lui era la seconda.
"Te ne stai andando ancora! Fanculo Hemmings, ti odio" urlai con tutta la rabbia che avevo. A passo svelto mi raggiunse, mi prese per le spalle e mi spinse violentemente contro il muro freddo e scrostato facendo aderire il suo corpo al mio. La mascella serrata, il fiato corto, negli occhi la tempesta nera e buia; le sue mani premevano energicamente sulle mie spalle. Emanava rabbia e odio. Era pronto ad esplodere, come un ordigno distruggendo tutto ciò che avesse attorno. Me.
"Ora mia ammazza" pensai.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Shine! Svegliati cazzo, Shine!»

Mi sentivo scuotere dalle spalle e, aprendo gli occhi di colpo, mi ritrovai davanti Ashton pallido e spaventato.

«Che cazzo ti strilli» chiesi scocciata mettendomi a sedere

«Eri in apnea cretina, non respiravi. Pensavo non ti succedesse più» rispose serio alzandosi dal letto e andando in cucina.

Avevo sempre avuto incubi che si ripercuotevano nella realtà, facendomi svegliare in un bagno di sudore o con il fiato corto. Da bambina mi dicevano che fosse l'ansia per qualcosa.

Dopo essermi ripresa andai in bagno a fare una doccia e, nel rigoroso silenzio che regnava tra me e Ashton la mattina, ci trascinammo fino a scuola.

Non avevamo mai avuto voglia di andarci, sapevamo solo che era giusto farlo, ma in realtà non ci importava molto del futuro, non volevamo nemmeno pensarci. Con tutto lo schifo che era il presente, vivere in un futuro incerto, era deleterio.

La Borton non era molto lontana dagli appartamenti, ci si arrivava a piedi. Il giardino di cemento era già pieno di studenti. Ashton mi accompagnò in segreteria a ritirare i miei orari e, con una certa rabbia, scoprii di non essere in classe con lui

«Non sarai con me ma ci sarà Calum a controllare che tu non uccida nessuno» mi rassicurò ridendo. Non trovavo la cosa rassicurante, ad essere sincera. Io avevo bisogno di Ashton e lui di me.

Mi scortò fino ad un corridoio lungo al cui inizio vi era il moro. Scambiarono due chiacchiere svogliate, era pur sempre mattina. Mi lasciò andare in classe con Calum con cui, sinceramente, non avevo voglia di parlare ma «Come te la cavi con la letteratura?» chiese. Una domanda di circostanza  totalmente a caso, giusto per fare conversazione.

Prima di rispondere lo guardai attentamente. Le gambe fasciate da jeans neri, una maglietta grigia, lo sguardo fisso in avanti, come se evitasse di proposito il contatto con me. Non gli davo nemmeno torto, mio cugino doveva avergli raccontato quanto fossi terribile e, in fin dei conti, non mi dispiaceva incutere soggezione in qualcuno.

La mascella serrata in attesa della mia risposta, che tardava ad arrivare. Forse si era pentito di avermi fatto la domanda.

«Mi piace molto, ma non ho mai voglia di prestare attenzione alle spiegazioni» risposi con sincerità, un po' sperando di concludere la conversazione. Infatti, dopo un suo breve cenno del capo, non parlammo più fino a quando entrammo nella nostra classe.

Erano rimasti liberi solo tre banchi, due vicini in penultima fila e uno singolo proprio davanti a questi ultimi. Avrei tanto voluto sedermi da sola per crogiolarmi un po' nei miei pensieri ma «Conosco quella faccia, è identica a quella di Ashton. Mi ha detto di tenerti d'occhio, quindi ci sediamo vicini in penultima fila» disse Calum con un tono a metà tra il divertito e il canzonatorio.

Non avvertii, però, alcuna malizia o cattiveria nella sua voce. Era una semplice constatazione, un voler rispettare gli ordini di mio cugino che, con tutta probabilità, lo aveva minacciato di prenderlo a botte se avessi combinato casini in sua assenza.

Mi uscì una risposta decisamente acida, ma sul limite di una piccola risata «Va bene, baby sitter». Una risposta naturale, semplice, che celava un po' di astio ma anche un po' di divertimento. Una nota di sarcasmo per il fatto che Ashton non si fidasse minimamente di lasciarmi da sola in una situazione del genere, nuova e, potenzialmente, una polveriera. Tante persone, chiuse insieme, in una stanza.

Rise scuotendo leggermente la testa mentre prendevamo posto nei due banchi scelti.

L'ingresso della professoressa in aula non fu niente di sorprendente. Aveva l'aria svogliata, assonnata anche lei, come se lì non ci volesse neanche stare.

Iniziò a fare l'appello, un cognome dopo l'altro. «Hood» e il moro di fianco a me diede la sua presenza.

«Hemmings» pronunciò soffermandosi un po' più del dovuto su quel cognome, alzando poi lo sguardo verso la classe.

«Presente» una voce proveniente dal corridoio mi indusse ad alzare lo sguardo dal blocco di fogli che avevo davanti. Con una calma maniacale, Luke, spuntò dalla porta con una sigaretta spenta in una mano e l'altra aggrappata alla tracolla di una borsa. Un sorrisetto fastidioso.

«Ci degna della sua presenza oggi, Hemmings. Quale onore» gli disse sarcastica la professoressa

Lui, strafottente le rivolse un sorriso e di diresse verso l'unico banco libero, quello davanti al mio.

«Irwin»

«Presente» risposi con noncuranza, gli occhi inchiodati alla figura di Luke.

«Lei assomiglia molto ad un ragazzo di un'altra classe, forse avete anche lo stesso cognome» disse la professoressa tirandosi un po' giù gli occhiali per scrutarmi il viso

«Siamo cugini» risposi semplicemente. Lei fece un cenno di assenso con la testa e proseguì con l'appello. Si vedeva, non gliene importava niente.

Il biondo si sedette con calma, si girò verso Calum e «Oggi a pranzo mangiamo nel cortile sul retro»

Il moro annuì e Luke si girò a guardarmi. Di nuovo quegli occhi azzurri, puri, che mi fissavano. Sentivo il gelo dentro, quella sensazione di freddo che parte dal collo e scende lungo tutta la schiena accompagnato da un brivido.

«Bhe?» fui solo in grado di dirgli, mi stava già facendo saltare i nervi di prima mattina, con quel viso da schiaffi

«Fastidioso eh?» rispose lui, mordendosi il piercing al labbro. E' come quando senti quell'irrefrenabile voglia di dare fastidio alle persone, sai che una cosa le fa arrabbiare e la fai di proposito.

Ruotai gli occhi verso l'alto respirando per darmi una calmata. Di solito la mattina non avevo voglia nemmeno di parlare, ma in quel momento era tutto diverso, avrei tanto voluto far sparire quel fottuto biondo da davanti a me, disintegrarlo.

Calum sussurrò un «Ashton ha detto di non uccidere nessuno, almeno per ora» concluse ridacchiando

Non potei fare a meno di accennare un mezzo sorriso e lasciar sbollire il nervoso. Calum era gentile, aveva già provato a rendere la situazione meno pesante.

All'ora di pranzo la campanella suonò e Ashton era già ad aspettarci fuori dalla porta. Luke disse solo «Vi aspetto fuori insieme a Michael» allontanandosi a grandi passi. Sapevo che in quel "vi" fossi compresa anche io.

Prendemmo il nostro vassoio dalla mensa e mi portarono sul retro della scuola, dove erano stati allestiti alcuni tavoli per far mangiare fuori gli studenti durante la bella stagione. Arrivati al tavolo trovammo solo Michael, non che la cosa mi dispiacesse. Speravo che il biondo avesse cambiato idea e non ci fosse.

Iniziammo a mangiare e scambiare qualche parola quando, da lontano, vidi Luke uscire da una porta e dirigersi verso di noi. Come stesse sfilando molti si girarono ad osservarlo. Era fastidiosa tutta l'attenzione che le persone prestavano a quel ragazzo.

Una volta seduto al nostro tavolo decisi di ignorarlo, non avrebbe ottenuto altre attenzioni da me. Lo sguardo, però, ogni tanto tornava su quel viso. Rideva, Luke rideva tranquillamente.

Mi chiesi come potesse essere così allegro e spensierato un ragazzo che, dopo averci parlato due volte, aveva solo sputato veleno dalla bocca. Quegli occhi glaciali che mi avevano guardata, impassibili, ora erano resi piccoli dal sorriso sul suo volto.

Finito il primo giorno di scuola tornai a casa insieme a Calum, perché Ashton aveva ancora un'ora di lezione e poi doveva andare al lavoro. Che lavoro facesse, non me lo aveva detto.

«Non sapevo avessi lo stesso cognome di Ashton» attaccò il moro mettendosi le mani in tasca. Non mi guardava ancora, mentre parlava.

Un po' me la aspettavo, questa affermazione. Ashton doveva avergli raccontato che mia madre e suo padre erano fratelli, quindi il cognome Irwin non era quello di mio padre.

«L'ho cambiato qualche anno fa. Allen non mi è mai piaciuto» risposi portandomi una sigaretta alla bocca

«Shine Allen. Shine Irwin» cantilenò un paio di volte «Sì, Irwin suona decisamente meglio» concluse soddisfatto della sua affermazione

Gli sorrisi, sinceramente.

Non riuscivo a vedere una goccia di cattiveria, in quel ragazzo. L'unica cosa buia che gli apparteneva era il colore degli occhi, nient'altro, nessuna malizia, nessun odio. Solo semplicità.

Finalmente il moro si girò a guardarmi e si mise a ridere, portando anche me a fare lo stesso

«Ecco, ora la vedo, la luce» disse

Lo guardai inclinando la testa di lato, soppesando le sue parole, poi capii. «Il tuo nome» continuò infatti

Storcendo il naso «Non è il nome che più si addice ad una persona come me» mi sentii di dirgli

Ironico come mi fosse stato dato il nome "Shine", quando di luce, intorno a me non ce n'era neanche ad accendere un fiammifero. Sarebbe stato inghiottito dal buio che ero io stessa.

Avevo sempre trovato divertente il fatto che il mio nome stonasse così tanto con quella che ero io. Mai niente poteva essere così diverso da quello che ero e da quello che mi sentivo di essere.

Shine: luce.

 

Arrivata nell'appartamento mi sedetti sul letto, accendendo la piccola televisione come sottofondo.

Avevo tanta voglia di urlare, di far uscire quello che c'era nella mia testa. Pensavo, pensavo incessantemente fino a farmi scoppiare il cervello e, forse, me lo meritavo. Non riuscivo a stare nemmeno un secondo senza pensare. Mi sfinivo da sola e, per smettere di pensare, mi addormentai sul letto si Ashton, stringendo il cuscino con il suo profumo.

Era sicuramente notte perché la stanza era illuminata solo dai lampioni del cortile. Delle chiavi si infilarono nella serratura e, con il solito tonfo, la porta si spalancò. Entrò mio cugino, cercando di non fare ulteriore rumore per non svegliarmi, ma già lo ero.

E lo guardavo fisso, se ne era accorto, era troppo tardi per girarsi.

Attraverso la poca luce vedevo gli occhi ambrati di Ashton, la mascella contratta, il viso di uno che invece di dimostrare diciotto anni ne dimostrava almeno cinquanta. Occhiaie profonde, pelle pallida, capelli disordinati, un borsone in spalla.

Si vedeva benissimo anche al buio, il livido viola che da metà collo di estendeva sulla spalla scomparendo sotto la maglietta nera che portava.

Pietrificato davanti a me non smetteva di guardarmi, aspettando una mia sfuriata.

Non arrivò, mi tolsi di dosso le coperte e mi diressi in cucina, a prendere del ghiaccio dal frigo per poi piazzarmi davanti a lui, spingerlo a sedersi sul letto proprio per spalla livida. Una smorfia di dolore si dipinse sul suo volto, ma cercò di trattenerla. Gli poggiai il ghiaccio sopra, quasi con rabbia. Silenzio, nient'altro c'era in quella stanza. Solo noi che ci guardavamo. Un silenzio assordante.

E glielo dissi con gli occhi, che niente era cambiato, che eravamo sempre gli stessi, che quando ci nasci, in un modo, alla fine, ci muori anche.

   
 
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