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Autore: Cranberry_    25/03/2016    0 recensioni
Si legge spesso di persone sfortunate a cui ad un certo punto della loro vita tutto comincia a venir fuori dannatamente bene. Ma cosa succederebbe se a chi ha ogni cosa, bellezza, cervello, popolarità, venisse improvvisamente tolto tutto?
-Forse da qualche parte nello spazio-tempo lei è ancora lì a sorridere felice, prima di girare la maniglia della porta che come al solito Luke non si era premurato di chiudere a chiave. E sempre da qualche parte nel tempo lei apre la porta e non vede Luke che si scopa una delle sue compagne di corso ad educazione civica, ma lo vede dormire teneramente avvolto dalle coperte. Ma chiaramente questa dimensione, per quanto crudele questo possa sembrarci, non coincide con la realtà. E chiaramente adesso lei nella realtà urlava, mentre il caffè si spargeva lentamente a terra formando un alone giallastro sulla moquette fresca di pulito. E lì in quella chiazza, a galleggiare fradici ed indifesi c’erano tutti i suoi sentimenti.
In frantumi.-
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In molti dicono che un’amica che ride delle tue sventure non è una vera amica. Questo spiegava in breve perché Alaska si sentisse così tanto una merda in quel preciso momento.
Liza l’aveva chiamata verso le dodici, dicendole con voce rotta che aveva bisogno che l’andasse a prendere. Alaska aveva capito subito che era quasi sicuramente successo qualcosa di molto grave con Luke, ed aveva tentato di seppellire sotto tutta la rabbia che montava verso il ragazzo quella piccola scintilla di soddisfazione che cresceva in lei.
Perché lei aveva sempre odiato e , tutt’ora odiava Luke Hemmings a tal punto che, suo malgrado, aveva cominciato a piacerle. Ne aveva parlato solo con Lee e Margo, assolutamente certa che nessuna delle due, nemmeno in preda ai postumi della più colossale sbornia, ne avrebbero mai fatto parola a qualcuno;
giurava in continuazione a sé stessa che c’aveva provato, dio se c’aveva provato, a levarselo dalla mente in ogni modo possibile ed immaginabile, seguendo svariati metodi anche abbastanza discutibili propostigli da tutta la sua cerchia di conoscenze. Aveva seguito il metodo di Lee, andando a letto con metà della squadra di football del campus che frequentavano, un paio di giocatori di lacrosse e il capitano del team di pallanuoto, cominciando dopo tutto questo non solo a sentirsi una grandissima troia e a temere di aver contratto una qualche infezione venerea, quanto a capire dopo l’ennesimo atleta che non era così che si sarebbe levata dalla testa quel preciso ragazzo, considerando anche il fatto che continuava incessantemente a fare paragoni tra lui e qualunque ragazzo le passasse accanto. Aveva bisogno di qualcosa di diverso, e fu così che passò al metodo di Margo iscrivendosi ad un corso di yoga e meditazione. Faceva lezione ogni giorno e aveva trasformato la sua stanza in una specie di piccola oasi spirituale con tanto di poster del Buddha a grandezza naturale, candele al patchouli e luci talmente soffuse da averle fatto scordare l’esatta disposizione dei mobili prima che la sua stanza cadesse in quello stato di buio perenne.
Ma nemmeno questo aveva funzionato, e dopo l’ennesimo straziante weekend a base di lacrime versate sull’ultimo post di Liza su facebook (un selfie alquanto provocante di lei e Luke davanti allo specchio in costume, 142 likes, tra cui anche il suo, che ipocrita) il lunedì seguente era passata all’ultimo metodo: il suo (questo non prima di una piccola ricaduta nel metodo Lee, avuta portandosi a letto il suo istruttore di yoga).
Il metodo Alaska consisteva molto semplicemente nell’ignorare i suoi sentimenti, attendendo il giorno in cui la sua vera anima gemella, un uomo come Alex Turner, o Drake giusto per fare un esempio, avesse bussato alla sua porta con un mazzo di rose in mano e un sorriso da “Vuoi sposarmi?” stampato sula faccia.
Nel frattempo però, avrebbe dovuto distanziarsi il più possibile da Luke e quale modo migliore per farlo se non mostrarsi come sua acerrima nemica?
Lo trovava un comportamento infantile e assolutamente stupido, ma non c’è cosa più difficile che trattare con indifferenza la persona per cui si prova qualcosa, il che è un po’ come passare davanti ad una piscina in una giornata maledettamente afosa senza nemmeno sentire il bisogno di tuffarsi, cosa pressoché impossibile.
Ora Alaska era in macchina, davanti alla casa della sua più segreta ossessione, pronta a recuperare la sua migliore amica.
Liza era bellissima mentre usciva dalla porta nonostante il trucco colato e l’espressione piena di tristezza; guardandola negli occhi Alaska si sentì ancora più malvagia, e represse definitivamente ogni sentimento al di fuori della rabbia e della compassione, perché nonostante tutto lei era consapevole del fatto che Liza venisse prima di Luke, e nemmeno i sentimenti che provava verso di lui l’avrebbero tenuto al sicuro dalla sua ira, non appena avesse scoperto cosa le aveva fatto.
La bionda aprì lentamente la portiera della Mini verde bottiglia decisamente scassata di Alaska entrandoci pesantemente, quasi si trascinasse dietro un corpo non suo.
-Gli spacco il culo subito o mi dici prima cosa è successo?- chiese Alaska, col tono di voce basso ma con gli occhi fiammeggianti.
-Parti-
-Liza, dimmi subito cosa ha fatto quel figlio di p…-
-Mi ha tradita. Tante volte. Adesso parti, non ce la faccio a stare qua.-
Alaska Mirrell era sempre stata un’abnorme stronza. Era il suo modo di essere e di vivere la vita, quasi un occhio per occhio. Eppure nonostante avesse capito dopo quella frase che tra Liza e Luke le cose potevano ritenersi assolutamente concluse,  proprio non riusciva a sentirsi felice. Quanto più ferita, quasi come se il ragazzo non avesse tradito solo la sua amica, ma anche e sopratutto lei; sapere che colui il quale desideri con tutta te stessa è impegnato felicemente con la tua migliore amica non è di certo un sogno comune a tutti, ma sapere che è “impegnato felicemente” con mezza scuola è un colpo al cuore. Forse fu lì che l’immagine idilliaca che Alaska aveva di Luke Hemmings cominciò a fare crack, forse fu lì che lei cominciò a comprendere quanto magari fosse una cosa buona che lui la vedesse solo come l’amica irritante di Liza.
Ma dopo un paio d’ore passate in un bar sulla spiaggia, tanti Margarita per lei, una coca light per Liza ed innumerevoli lacrime condite da insulti, la ragazza arrivò ad una sola misera quanto schifosa conclusione: per il suo cuore non era cambiato proprio un cazzo.
 
La consapevolezza che si ha nel momento in cui capiamo di aver rovinato qualcosa è paragonabile ad una caduta libera. Sì, perché noi sbagliamo sempre, continuamente, senza porci limiti, ma nessuno di quegli sbagli per quanto possiamo ritenerli tali assume il peso che acquisisce nell’esatto momento in cui capiamo che “cazzo, ho davvero mandato tutto a puttane”.
E Luke Hemmings era in quell’esatta situazione. La cheerleader era da poco uscita dalla porta con un “ci si vede in giro” vergognosamente sussurrato, e lui era lì lì per trattenerla; aveva paura di restare da solo con sè stesso e con i suoi pensieri. Non metteva in dubbio l’aver provato qualcosa per Liza, né tantomeno il fatto che lo provasse ancora, ma allora perché? Non se lo sapeva spiegare nemmeno lui.
Il tradimento non era nel DNA della sua famiglia, gli era stato inculcato come un tabù, qualcosa che si poteva a stento pronunciare, figuriamoci mettere in atto. Eppure eccolo lì, seduto sul divano della sala da pranzo a rimuginare su quanto si sentisse una merda e su come fosse potuto succedere tutto quello. E rivedeva ogni cosa chiaramente, quasi fosse successa in quel momento, quasi fosse ancora la prima volta. Quasi fosse ancora un anno prima, con Liza in vacanza-studio a Tokyo e lui imboscato nello spogliatoio con Taylor DeSantis, la vice delle cheerleader. Che poi Luke pensava a lei solo come un’oca; bel culo, ma un’oca completa. Non era come Liza, non aveva sempre il sorriso pronto ed un repertorio di frasi fatte che solo pronunciate da lei potevano veramente fare effetto. Non aveva i capelli biondi naturali e la pelle di seta, non era così… perfetta.
Luke aveva avuto quella perfezione a portata di mano per tutto quel tempo sentendosi incompleto. “Ingrato”, gli urlava ogni parte del suo corpo.
Era come se una enorme lampadina gli si fosse accesa nel cervello: capiva tutto, vedeva tutto, ed un improvviso senso di nausea gli si formò alla base dello stomaco. “L’ho tradita” urlavano tutti i suoi neuroni “Mi ha lasciato”; migliaia di insulti continuavano a rincorrersi, come se uno valesse l’altro, come se nessuno valesse abbastanza. Si alzò di scatto, per correre in bagno. Salendo le scale quasi inciampava nella chiazza formata dalla busta della caffetteria, quella che Liza aveva portato con sé, un conato più forte degli altri si manifestò e il ragazzo si ritrovò ad aumentare il passo. Arrivato in bagno vomitò la cena del giorno prima, ed alcune lacrime clandestine gli solcarono le guance, “Lacrime di coccodrillo” avrebbe detto Alaska. Già, Alaska.
Probabilmente era stata lei a raccogliere la Liza tremante che lui non aveva nemmeno avuto il coraggio di rincorrere; quella che ha amato ma che nonostante tutto ha tradito tante di quelle volte da perderne il conto. E per cosa? Per ritrovarsi qui a piangere come una ragazzina, con la nausea che sale e una voglia assurda di rompere ogni cosa? Si fiondò nella doccia bollente, quasi strappandosi i vestiti da dosso, e nella sua testa la risata sarcastica di Alaska Mirrell aveva sostituito gli insulti che si stava rivolgendo ormai da mezz’ora. Cosa avrebbe detto Alaska? Cosa avrebbe fatto Alaska? Liza gli aveva raccontato che anche lei aveva tradito diversi dei suoi ragazzi, molte volte. Secondo Liza era perché Alaska si sentiva incompleta; “Le manca qualcosa, o qualcuno. Non può essere soddisfatta se non ha ciò che soddisfa il suo cuore, il corpo viene dopo” e Luke non sapeva perché ricordava proprio quella conversazione. Sarà perché quella era la prima volta che vedeva Alaska sotto una luce diversa, non come la stronza dedita a rovinargli l’umore con le sue battutine sfacciatamente sarcastiche. Sì, perché Alaska in quel momento era uguale a lui, sapeva come lui si sentiva. Incompleto.
Ed anche ustionato. Regolò la doccia ad una temperatura accettabile, ed appoggiò la fronte sul muro lasciando che l’acqua tiepida potesse scorrere libera sul suo capo e sui pettorali. E decise che non poteva finire così, c’avrebbe riprovato, non poteva lasciarsi scappare Liza e non poteva continuare a sentire tutto quel macabro ronzio di voci nella sua testa.
E non aveva cambiato idea un’ora dopo, sdraiato sul letto con i Green Day che quasi gli foravano entrambi i timpani e la foto di lui e Liza impressa su quella foto ancora capovolta che bruciava come una fiammata, dritto al cuore. Avrebbe riprovato, ma come? Già, come.
Nella sua mente prese forma una sola soluzione, e portava il nome di Alaska Mirrell.
Lee era andata da sola alla festa di Joshua Kendricks, perché tanto avrebbe fatto amicizia sul posto. Andava sempre a finire così, lei alle feste quasi ogni giorno e le altre in giro per la città a dare un senso alla loro vita.
A volte si metteva a pensare, altre volte addirittura parlava dei suoi problemi a qualcuno senza gli occhi coperti da una delle decine di paia d’occhiali da sole sparsi per la sua camera o senza fare nessuna battuta cattiva; ma erano casi rarissimi, isolati e soprattutto poco considerevoli, almeno secondo lei.
Ma perché parlare seriamente di qualcosa se di cose veramente serie nella tua vita non ne hai nemmeno una? Lee non capiva come fosse possibile, quindi per non fare la figura della scema stava zitta e basta la maggior parte del tempo. Non zitta-taciturna come Margo, ma zitta-misteriosa come lei; che poi ai ragazzi piacciono da morire quelle che parlano il giusto o ancor di più quelle che non parlano per niente quindi ben venga!
Lee i ragazzi li vedeva come loro vedevano lei, divertimento allo stato puro; e sotto questo punto di vista Alaska riusciva ad esprimere i suoi pensieri alla perfezione. Sì perché non c’era una sola volta in cui Alaska non avesse fatto un commento su un ragazzo che lei non avesse fatto silenziosamente giusto un attimo prima. L’unica differenza era che quella che dopo se li portava a letto era Lee, ad anche quella che veniva considerata come “quella facile” o denominata con francesismi quali “troia”, “succhia cazzi” o giù di lì.
Ma in fin dei conti a lei poco importava, perché aveva tutto e quel paio di critiche rivolte al suo stile di vita non la scalfivano, anzi. Aumentavano la sua auto-considerazione.
Il pensiero centrale della vita di Lee era che, se non sono i ragazzi a portarti a letto ma sei tu che porti a letto loro, ragionando quindi nello stesso modo subdolo e scontato comune a quasi tutti gli uomini, allora non sei una troia. Hai semplicemente capito che il sesso è vita, che il sesso ti piace e che soprattutto, non hai nessuna paura di ammetterlo. E, che dio la perdoni, Lee lo ammetteva a sé stessa ogni giorno della sua vita, quando si svegliava, quando si guardava allo specchio o quando si accorgeva degli sguardi che i ragazzi le lanciavano.
Proprio come quelli che le stava lanciando un ragazzo dall’altro capo della piscina. Biondo, alto, coi capelli che quasi gli toccavano le spalle larghe, un paio di skinny jeans così stretti che a Lee venne da chiedersi se fosse in grado di muoversi e una maglia dei Misfits. La ragazza prestava ormai pochissima attenzione alle parole di Winona, una biondina amica di Liza, che stava sparlando da un’ora dell’attuale fidanzata del suo ex ragazzo essendo entrambi i personaggi presi in considerazione presenti alla festa, ma si girò ugualmente per far finta di star ascoltando. Ma il ragazzo non c’era più.
“Cazzo”
-E nonostante il video di lei che fa un servizietto al prof di educ…-
-Winnie, scusa, mi sembra di aver visto Alaska. Vado a cercarla.- e senza nemmeno aspettare una risposta si incamminò verso l’altro lato della piscina. La casa di Joshua era enorme, Lee l’aveva conosciuta bene dopo un loro incontro abbastanza intimo durante il quarto anno di liceo. E lei sperava con tutta sé stessa che il biondino misterioso non fosse andato a ficcarsi in uno dei giardinetti laterali, perché con le sue Jimmy Choo tacco dodici sarebbe stata un’impresa impossibile trovarlo senza fratturarsi qualcosa.
Passò vicino al bancone degli alcolici, dove un Micheal Qualcosa che frequentava alcune lezioni con lei stava ballando mentre sventolava i pantaloni sopra la testa a mò di Magic Mike. Qualche ragazza si tuffò in acqua, spruzzandole le cosce lasciate scoperte dalla mini-tuta in seta che indossava e bagnandole le decolleté. E proprio mentre si girava pronta a fulminarle con lo sguardo, le sue caviglie si incrociarono, facendole battere violentemente la testa sul pavimento, mentre tutto attorno a lei diventava buio.
Si svegliò dopo un lasso di tempo imprecisato, con Winona ed altre due ragazze a fissarla preoccupatissime, come del resto stavano facendo un’altra decina di persone.
-Lee! Oh mio Dio, come ti senti? Per poco non morivi lì per terra!-
E Lee aveva molta voglia di dirle che non sarebbe di sicuro morta e che in  quel momento l’ultima cosa di cui aveva bisogno erano le sue urla da oca compassionevole, ma come al solito restò in silenzio. Le tempie lentamente smisero di pulsare e, sorretta dal trio di bionde platinate, riuscì a rimettersi in piedi sussurrando un grazie piatto e ricominciando a camminare nonostante l’andatura instabile. L’autista sarebbe passato alle 4 e mezzo, il cellulare lo aveva ovviamente scordato a casa e pur volendo chiamare qualcuno, non era ben sicura che sarebbe venuto lì apposta solo per lei. Era in momenti come questi che Lee si chiedeva se in fin dei conti aveva davvero tutto ciò di cui aveva bisogno.
Magari parlando di più e pensando in maniera diversa ora sarebbe stata in macchina con qualcuno, stanca sì ma al sicuro. E invece era lì, sola. E sapeva che questo cruccio sarebbe scomparso in fretta dalla sua testa, ma per quei momenti in cui si impossessava del suo animo faceva un male cane, come una pugnalata che la trafiggeva.
Alaska diceva sempre che “Nemmeno il dolore più grande ti fa mal se sei completamente sbronzo”. E quindi, perché no?
Dopo un’ora erano le due e mezzo, lei era disperatamente ubriaca e stava ballando su uno dei tavolini adibiti a cubo, nell’immenso salone. Probabilmente il cristallo si era scheggiato con la punta dei suoi tacchi a spillo ma a Joshua poco sarebbe importato, e a Lee ancor meno perché il biondino di prima era di nuovo lì sotto e la guardava, ci avrebbe giurato, più intensamente di prima. E il sorriso si amplificò, i fianchi cominciarono a rallentare e lei scese dal tavolino ormai sudicio, buttandosi in pista, con un paio d’occhi messi lì a bruciarle le spalle.
-Lo so cosa stai facendo.-
Era stato più veloce di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, Lee era meravigliata quando si girò verso di lui. Non disse nulla (ovviamente) continuò semplicemente a ballare, avvicinandosi di più al corpo muscoloso che nonostante i tacchi la sovrastava di un paio di centimetri.
-Mi hai sentito, Lindsey?- lei spalancò gli occhi e senza fermare il movimento si girò verso di lui.
-Come fai a..-
-Me l’hanno detto. Sembra che qui intorno ti conoscano tutti molto bene.-
Lei sorrise sfacciata: -Oh, non molto bene. Se no saprebbero che odio essere chiamata Lindsey. –si avvicinò al suo volto puntando verso le labbra del ragazzo, prima di voltarsi all’ultimo secondo posizionando la bocca accanto al suo orecchio, il mento che sfiorava la parte del collo lasciata libera dalla t-shirt –Se vuoi starmi simpatico, e io so che tu lo vuoi, chiamami Lee.-
Tornata a guardarlo negli occhi, due pozzi verdi chiaramente distinguibili nonostante le luci soffuse, lo trovò che sorrideva divertito.
-Va bene, Lee. Io sono Ashton.-
-E ti piace, Ashton?- disse lei strusciandosi sul cavallo dei suoi pantaloni.
-C..Cosa?-
-Quello che sto facendo.- Lee aumentò il movimento, e dopo poco percepì il tocco delle mani del ragazzo sui suoi fianchi quasi contemporaneo al suo sussurro.
-Da morire. Mi piace da morire.-
Erano finiti a letto dopo innumerevoli tentativi da parte di lui di parlarle, tutti abilmente schivati da Lee. Era bravo da morire, ed era anche simpatico e soprattutto gentile; e non gentile in quel senso noioso o cavalleresco, gentile nel senso che nonostante Lee come al solito avesse parlato poco o nulla, si era quasi sentita in colpa a schivare quei tentativi insistenti ma mai impertinenti, e quei sorrisi che nessuno le aveva mai fatto prima d’ora. Di solito i ragazzi non la guardavano nemmeno negli occhi una volta a letto, si limitavano a fare ciò che serviva a loro e basta; Ashton invece non solo aveva tenuto le iridi incastonate alle sue, ma si era preoccupato più del piacere della ragazza che del suo stesso, e le aveva screpolato le labbra a forza di baci e non si era lamentato per i graffi causati dalla troppa passione, né per i morsi che reprimevano le sue urla. Era stato gentile, così gentile che a Lee quasi dispiaceva, per la prima volta nella sua vita, di non poterlo rivedere un’altra volta.
-E’ stato..-
-Il migliore che abbia mai avuto.-
Erano sdraiati sul letto della stanza dei genitori di Joshua, che Lee aveva aperto con le chiavi nascoste dentro al vaso cinese accanto alla porta, e quelle ultime parole, per quanto impossibile potesse sembrare, le aveva pronunciate proprio lei. Era felice, ma non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi, le faceva male. E lui non sembrava impaziente di andarsene come lo erano di solito tutti gli altri, anzi, ma lei sapeva che le cose cominciate così velocemente possono finire solo  velocemente.
-Sono le quattro e mezzo passate, penso di dover andare.-
-Resta, ti prego.-
“SI!”urlava una vocina impertinente nella sua testa.
 –No, mi dis..mi dispiace. L’autista mi aspetta.-
-Almeno dammi il tuo numero.-
La risata partì come un riflesso involontario, ma Lee osservando l’espressione contrariata di lui sentì una fitta di senso di colpa prenderla tutta.
-Ci vedremo prima di quanto ti aspetti. Non abbiamo bisogno di parlarci, sai.-
Uscendo dalla stanza non ci credeva nemmeno lei a quello che aveva detto, ma era più facile rifiutarsi di credere ad una realtà che ci sembrava impossibile invece che aumentare i presupposti con i quali ci si può solamente ferire. E lentamente il passo ri-diventò spavaldo e la testa continuò a fissare dritta davanti a sé fino a quando non intravide Tom, l’autista, scendere per aprirle lo sportello posteriore della Range Rover nera.
Solo in quel momento si voltò verso la porta finestra e lì lo vide, cercava lei tra la massa di corpi barcollanti che affollava il patio. E Lee avrebbe davvero voluto provare qualcosa di lontanamente simile alla soddisfazione, ma l’unico sentimento che la stava lentamente consumando, era il rammarico.
  
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