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Autore: Fannie Fiffi    26/03/2016    5 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti!
Per prima cosa, come sempre mi scuso per l'enorme ritardo. So che non è un comportamento giusto nei confronti di chi legge, ma in questi ultimi mesi ho avuto dei problemi personali piuttosto gravi e scrivere era l'ultima cosa che ero in grado di fare.
Ma c'è una cosa che dovete sapere: non importa quanto tempo passi, non abbandonerò mai questa storia, né le persone che ci si sono affezionate. Soprattutto non ora che ci stiamo avvicinando alla conclusione (se le mie previsioni sono giuste, fra due o tre capitoli). 

Il motto di questo capitolo è una frase che dice Wells Jaha (sotto forma di allucinazione) a suo padre nella 2x02 e che non ha contribuito solo alla stesura di questo lavoro, ma anche ad una mia condizione personale.
"La tua vita può essere più che scelte impossibili e una tragica fine. Puoi scegliere di vivere." 
Ecco, ricordatelo quando leggerete il capitolo e quando sarete da soli con voi stessi, in ogni altro momento. In qualunque momento.

Inoltre, troverete una piccola citazione dal capitolo V che ho voluto sfruttare per esprimere la crescita di un determinato personaggio.

Che altro dire, smetto di ammorbarvi e vi lascio alla lettura.




 



Is It Any Wonder?




Clarke rovesciò il capo indietro, cercando di raggiungere con lo sguardo la sveglia posata sul comodino.

Il cielo fuori dalla stanza non era visibile attraverso le tapparelle socchiuse e le tende bianche, ma l’unico raggio di sole che era riuscito a filtrare oltre quegli ostacoli fu abbastanza coraggioso da posarsi su una ciocca dei suoi capelli, attorno alla quale si strinsero celermente le dita di Bellamy.

« Ci siamo preparati per andare a dormire più di due ore fa. Dovresti provare a riposare un po’. » Sussurrò, abbassando lo sguardo verso il capo stanco ma rigido di lei, accovacciata contro il suo petto.

La voce del maggiore dei Blake risuonò contro la sua tempia nel punto in cui il suo orecchio era poggiato sul suo torso, e Clarke si ritrovò sorpresa dalla naturalezza che le provocò quel gesto.

« Sì, quando ho usato il tuo spazzolino. Siamo disgustosi. » Scherzò, accennando un ghigno placido e bonario.

« La scorsa notte abbiamo fatto sesso, condividere lo spazzolino è davvero la cosa peggiore che ti viene in mente? »

Poteva vedere solo la sua nuca e i suoi capelli, ma Bellamy percepì ugualmente il sorriso che ottenne in risposta.

« Non dovresti mai sottovalutare i problemi dell’odontoiatria. »

« Lungi da me, signora. » Finse con tono solenne e austero, poi continuò: « Seriamente, però, dovresti cercare di riposare. Anche solo un paio d’ore. »

« Forse una parte di me sta cercando di raggiungere una deprivazione del sonno tale da non dover parlare con mia madre. »

A quel punto spostò il capo, poggiando il mento contro il suo petto e portando la mano sinistra sul suo collo.

« So che vuoi avere risposte. È tutto quello che hai sempre voluto. Beh, quel giorno è arrivato, e non devi permettere alla paura di portartelo via. »

La rassicurò lui, raggiungendo le sue dita e stringendole piano, tentando di infonderle quel coraggio che, lo sapeva bene, era già dentro di lei.

Le sue parole sembrarono colpirla profondamente, perché la bionda abbassò lo sguardo e lo fissò sul logo della maglietta di Bellamy, la bilancia della Giustizia e il motto “Proteggere e Servire” dai colori sbiaditi.

« So di volerlo. È solo che… Ho paura, Bellamy. Non so se sono pronta. » Ammise in un sussurro.

« Fra me e mia madre non è mai stato così. Non abbiamo mai… parlato. Parlato davvero, intendo. Io ho sofferto il mio dolore e lei il suo e abbiamo fatto finta che non fossero la stessa cosa. Ci siamo fatte del male, l’ho delusa, e non so se le cose potranno mai essere normali.

Io volevo davvero ferirla, sai? L’ho fatto consapevolmente. Ho fatto del male a mia madre perché credevo che non fosse sufficiente, che l’avesse superato con troppa facilità. E ora non riesco a smettere di pensare a lei, a chiunque io abbia fatto del male. Adesso lo so, ho usato il mio dolore.

L’ho usato come giustificazione, come un’arma, perché pensavo che se doveva fare male a me, allora avrebbe dovuto farlo anche a tutti gli altri. Che non sarebbe dovuto toccare solo a me.

Desideravo così tanto che la mia sofferenza fosse inflitta agli altri, soprattutto alle persone che amavo, ché non riuscivo a vedere che mi stava distruggendo. Cosa fa di me tutto questo? Chi sono? »

La sua voce tremò sull’ultima domanda, e Clarke si sentì improvvisamente sospesa fra il carico del senso di quelle parole, della sua confessione, e il sollievo di potersene finalmente liberare, lasciarle andare, perdere il loro significato.

La vergogna e l’assoluzione erano in totale contraddizione ma in perfetto equilibrio fra loro, e per un attimo la giovane si chiese come fosse possibile provare così tanto e non uscirne annientati.

« Non posso chiederle se ha a che fare con l’omicidio di mio padre ora che l’ho finalmente perdonata. Ora che sto cercando così tanto di perdonare me stessa. »

« Ehi, guardami. » La esortò. « So che tua madre non ti farebbe mai del male. Non importa quanto tu ne faccia a lei, quanto tu ti sia impegnata per deluderla, non credo che potrebbe anche se volesse. Ci deve essere una spiegazione, e tu la troverai.

E poi, io sono qui. Wells è qui. I tuoi amici sono qui. Qualsiasi cosa sarà, non dovrai affrontarla da sola. »

I suoi occhi scuri parevano estremamente certi di quello che stavano dicendo, come se quella fosse davvero la verità. Come se, per una volta soltanto, nessuno l’avrebbe lasciata. Nessuno se ne sarebbe andato, e lei avrebbe potuto fare di più che continuare a scappare da ciò che si nascondeva dentro di sé.

E questo, ovviamente, non faceva che terrorizzarla ancora di più.

« Ho dovuto imparare a non dare più queste promesse per scontato. Non volevo, ma ho dovuto. » Il suo tono di voce era tirato e rigido, il che trovava netto contrasto con il tormento che le bruciava negli occhi.

« So come ti senti. So che tutte queste parole ti sembrano inutili, solo delle semplici formalità pronte ad essere dimenticate e sepolte, pronte a lasciarti confusa e sola nel momento in cui ti senti più debole.
Ma io sono qui. »

Bellamy, le spalle poggiate contro la testiera del letto, si sporse un po’ più avanti, stringendo le braccia attorno alla sua schiena e avvicinandola ancora di più contro il proprio corpo.

Lui era davvero lì, con lei, reale e tangibile fra le sue mani, e non fu difficile crederci. Crederlo davvero, nonostante quello che entrambi avessero perso, quello che fossero dovuti diventare e le scelte che avessero dovuto prendere.

Nonostante tutto, Bellamy era davvero lì e Clarke era con lui e non c’era bisogno di metterci un’etichetta sopra, di definire una spontaneità che li aveva lasciati intimoriti solo per poi fargli vedere quanto fosse semplice lasciarsi andare anche solo per un attimo.

« So di non poterti promettere niente per il futuro. So che ci sono tante cose su cui non abbiamo potere, e c’è voluto così tanto tempo per riuscire ad accettare di non averne il pieno controllo, ma so cosa voglio adesso: questo.

Il mio letto, la mia maglietta preferita su di te, condividere uno spazzolino. Portarti a vedere un nuovo film. Vederti sul divano insieme a mia sorella. Spogliarti.

So anche che potrebbe arrivare il giorno in cui non sapremo farci altro che male, e forse non saremo mai in grado di amarci – amarci davvero, bene, sempre. Forse niente di tutto questo succederà. So solo che adesso voglio restare con te, e voglio impegnarmi a non lasciarti fuori. A dirti quando non mi sentirò all’altezza o sarò triste o vorrò andarmene e lasciare tutto. A parlarti sinceramente, qualsiasi cosa dovessimo affrontare. E voglio che tu faccia lo stesso. Non sei sola, Clarke. Non siamo soli.

Dobbiamo crederci. Dobbiamo sforzarci di farlo, o trascorreremo il resto delle nostre vite a scappare. »

La giovane Griffin non rispose. Nemmeno pensò, troppo occupata a lasciare che le parole che aveva appena ascoltato permeassero attraverso la pelle e raggiungessero quel punto dentro di sé in cui le sentiva già bruciare.

Avrebbe voluto disegnare la sensazione che stava provando, se solo avesse saputo come.

Avrebbe voluto gridare o saltare o tuffarsi nel mare ghiacciato dell’alba. Avrebbe voluto fare qualcosa che l’avrebbe aiutata a tenere a freno o perlomeno regolare il battito sfrenato del suo cuore e l’effetto che gli occhi di Bellamy ancora puntati nei suoi le stavano facendo.

Non riuscì a fare niente di tutto questo, però. Socchiuse le labbra alla disperata ricerca di aria. Spalancò di poco gli occhi, impercettibilmente, come se in quel modo potesse vedere ancora di più le sue lentiggini, memorizzare alla perfezione la sua espressione.

Poi si scagliò contro di lui, dolce e feroce come non si era mai sentita prima, e lo baciò senza regole, senza ordine, senza direzione. Lo baciò una, due, tre volte, velocemente, mentre le proprie mani si aggrappavano alle sue guance e lo tiravano giù e lo accarezzavano, e le sue mani rincorrevano i propri capelli e li stringevano teneramente, sguazzandoci attorno, perdendosi in essi.

Lo baciò con frenetica pazienza, sopra e sotto la bocca, sul naso, sul collo, baciò le sue stesse mani sul suo volto e scoppiò a ridere.

Non era felice da tanto tempo, non era sicura nemmeno di ricordarsi come fosse essere felice, era incompleta e costantemente arrabbiata e piena di sentimenti che non sapeva come controllare, ma Clarke scoppiò a ridere e lo abbracciò e sprofondò al centro del suo sterno, nascondendo il viso contro la sua maglietta.

« Restiamo così. » Sussurrò, strusciando la guancia contro il cotone. « Restiamo così solo un altro po’. »








 
 
 
 
Quando si svegliò, qualche ora più tardi, la giovane Griffin era da sola.

Il lato di letto di Bellamy era ancora tiepido nel punto in cui la sua mano si era allungata a cercarlo, perciò non doveva essersene andato da molto.

Non ebbe nemmeno tempo di permettere alla delusione di raggiungerla, però, ché notò un bigliettino posato sul cuscino di lui e lo afferrò senza esitazione, leggendolo velocemente e accennando un sorriso alla vista della sua scrittura disordinata e caotica.

Diceva che era uscito per una spesa veloce e che le aveva lasciato il caffè pronto, quel tipo di premura e riguardo che lei non aveva mai permesso agli altri di riservarle, ma che ora sembravano riscaldarla di una tranquillità disarmante.

Stiracchiandosi fra le coperte e attorcigliandosele addosso per un’ultima volta, Clarke si costrinse a mettersi a sedere e si passò una mano fra i capelli. Con un’occhiata incurante e veloce osservò quello che indossava – una vecchia maglietta a maniche corte e una delle sue tute un po’ rovinate – poi passò ad ispezionare la camera.

Ovviamente l’aveva già osservata prima, ma non ci era mai rimasta da sola. La cosa che più la colpiva, quello che da sempre l’aveva colpita della famiglia Blake, era l’enorme quantità di fotografie presenti.

Appese ai muri, appoggiate a una mensola, incastrate ai bordi dello specchio alla sua sinistra.

Ovunque si voltasse, Octavia e Bellamy abbracciati, una piccola Octavia senza incisivi, Bellamy con gli occhiali da sole e in piedi su uno skateboard la guardavano sorridenti, congelati nel tempo, per sempre felici.

Non seppe perché, ma i suoi occhi si appannarono.

Fu per quel motivo, forse, che si alzò in piedi e aprì le finestre, permettendo alla lieve brezza di Settembre di entrare nella stanza e rinnovarla, dirigendosi nuovamente verso il letto e iniziando a rifarlo.

Poco meno di un quarto d’ora dopo, i loro vestiti erano ripiegati e le loro scarpe occupavano un piccolo spazio all’angolo della stanza, finalmente ordinata e assestata.

A quel punto, discretamente affamata e sicura che fosse tutto a posto, Clarke si avviò senza fare rumore verso la cucina, richiudendosi la porta alle spalle e stringendosi le braccia al petto.

Quello che non si sarebbe aspettata, tuttavia, erano due voci femminili giungerle appena fu abbastanza vicina, una delle quali apparteneva indubbiamente alla più giovane dei Blake.

L’altra le sembrava familiare, ma non fu in grado di accostarla ad un volto.

Non finché non voltò l’angolo che la separava dalla cucina  e si ritrovò davanti Raven Reyes.

Non sapeva che le due fossero amiche – anzi, non sapeva nemmeno si conoscessero, perciò la sorpresa di rivederla lì, in quella casa, al fianco di Octavia, la lasciò completamente interdetta.

« Clarke! » Fece quest’ultima a mo’ di saluto, senza riuscire a celare del tutto lo stupore nel suo tono di voce.  Nonostante questo, però, gli occhi della bionda non si erano ancora staccati da quelli dell’altra ragazza, la quale sembrava altrettanto stupita di trovarsi faccia a faccia con la persona che le aveva portato via Finn.

« Ciao… Ero con… È rimasto del caffè? » Provò lei, imbarazzata, spostando il peso da un piede all’altro e stringendosi le mani in grembo.

Raven, ancora silenziosa e impassibile, i gomiti immobili poggiati sul tavolino, sbatté velocemente le palpebre. Poi, annuendo impercettibilmente, le rivolse parola: « Ne abbiamo lasciato giusto una tazza. » Sussurrò, e sembrò abbastanza tranquilla da permettere alla giovane Griffin di mettersi seduta accanto a loro.

Non era facile. L’ultima volta che si erano rivolte parola Raven era salita sull’automobile di Finn e le aveva intimato di non farsi più vedere.

Non importava quanto tempo fosse trascorso, non importava che nessuna delle due fosse più la stessa di prima, né che non ci fosse più niente che le legasse a lui, i loro passati si erano intrecciati nel peggiore dei modi, e forse nessuna delle due era mai riuscita a dimenticarli del tutto.

Ma dovevano sforzarsi. Forse, in tutto quello che erano diventate le loro vite, in tutto quello che erano diventate loro, c’era ancora posto per perdonarsi un’ultima volta. Per lasciar andare.

« Bellamy è uscito per fare la spesa, ma dovrebbe tornare a momenti. Mi ha detto di farti trovare pronta, non so dove debba accompagnarti. »

La giovane Griffin si immobilizzò, ricordando all'improvviso l’imminente incontro con sua madre.

Poi annuì, cercando di dissimulare il nervosismo e accennando un breve sorriso. « Grazie. »

Le tre ragazze rimasero sedute al tavolo della cucina per diversi minuti senza scambiarsi parola, ognuna troppo persa nei propri pensieri od occupata a non dire la cosa sbagliata.

Non appena percepirono la porta d’ingresso aprirsi, però, le loro teste scattarono simultaneamente nella stessa direzione, dalla quale apparve poco dopo il più grande dei Blake.

« Wow! » Esclamò, osservandole con stupore. « Siete tutte qui! » Solo dopo aver incontrato lo sguardo di Clarke, tuttavia, si abbandonò ad un sorriso sereno, così semplice da non rendersene nemmeno conto.

Lei, d’altronde, non riuscì a impedirsi di fare altrettanto, ricambiando il gesto con un’intimità che costrinse le altre due ragazze a distogliere gli occhi da loro e scambiarsi un’occhiata complice ma imbarazzata.

La bionda quasi non si accorse di essersi alzata – tanto le era venuto istintivo – se non nel momento in cui il braccio sinistro di Bellamy si strinse attorno alla sua vita e lui le posò un lieve bacio fra i capelli.

« Ehi. » Sussurrò, incurante del fatto che non fossero soli e dell’evidenza di quello che avevano deciso di iniziare insieme.

« Mi dispiace di non essere ancora pronta. » Gli rispose lei, allontanandosi di un passo e guardandosi velocemente attorno. Non avrebbe mai ammesso ad alta voce che lo aveva fatto solo perché poteva percepire gli sguardi fissi di Octavia e Raven alle proprie spalle, ma dentro di sé sapeva bene che era così.

« Non c’è problema. Ti aspetto qui. »

Subito dopo aver annuito, Clarke si girò e lanciò un sorriso impacciato alle altre due ragazze, dirigendosi poi verso la camera del più grande dei Blake.

« Quindi… » Iniziò sua sorella, non appena rimasero da soli e in silenzio.

« Quindi! » Continuò la giovane Reyes, lanciando uno sguardo di sfida al suo amico.

« Vi odio. » Rispose lui, dandogli le spalle e prendendo una sigaretta dalla tasca della giacca. L’accese, fece un paio di tiri e la passò alla mora.

« Non negherò che sia stato imbarazzante. Sai, rivederla. Parlarle. Averla così vicina. Ma quel sorriso, Blake. » Lo additò con l’indice, provocandolo con un ghigno soddisfatto. « Quel sorriso sul tuo volto non ha bisogno di spiegazioni. »

« Taci! » La riprese Bellamy, sedendosi nel posto precedentemente occupato dalla giovane Griffin e lanciando un’occhiataccia verso di lei, tentando in qualsiasi modo di nascondere l’imbarazzo che stava provando in quel momento.

Non c’era titubanza nel modo in cui teneva a Clarke, nemmeno l’ombra di un dubbio nel desiderio che provava per lei – una brama che andava oltre la lussuria, oltre qualsiasi frenesia avesse mai provato – ma questo non significava che fosse abituato a condividere così i propri sentimenti e ad esternarli con facilità.

Non per lui, che aveva sempre ignorato i propri segnali, i messaggi che il suo cuore aveva tentato tanto ardentemente di fargli ascoltare e che lui aveva sempre finito col sopprimere in favore di elementi più pragmatici: il benessere di Octavia, le tasse universitarie, un tetto sopra le loro teste.

Ora, però, non era più tanto sicuro di voler continuare in quel modo. Come aveva detto a Clarke, non potevano più trascorrere il resto delle proprie vite a scappare. A ripararsi nella solitudine, nel rimpianto, nella nostalgia di qualcosa che non avevano nemmeno vissuto.

Bellamy Blake aveva deciso che, se avesse davvero dovuto provare quella malinconia con cui aveva vissuto fino a quell’istante, allora l’avrebbe provata per qualcosa di reale. Avrebbe sofferto davvero. Avrebbe sentito la mancanza di qualcosa solo dopo averla avuta, non dopo avervi rinunciato.

Una volta aveva letto da qualche parte che non si poteva decidere di non soffrire, ma si poteva decidere per cosa soffrire. E lui avrebbe sofferto per quello che stava provando, se il futuro glielo avesse chiesto.

Avrebbe pagato il conto con il sorriso, placidamente, senza remore.

« Credo tu sia molto dolce, Bell. » Bisbigliò sua sorella all’improvviso, prendendo parola per la prima volta da quando erano rimasti da soli.

La più piccola dei Blake era energia pura, una caotica tempesta di colori e fermezza, ma in quell’attimo, sussurrando quelle parole, fu pacata. Completamente e delicatamente serena, come a voler rispettare il significato di quello che aveva appena detto.

E suo fratello capì. Capì che non c’era stato bisogno di esprimersi, di buttare fuori quello che stava provando tanto intensamente, di palesare quella decisione che si riversava fuori dai suoi occhi senza che lui potesse fare alcunché per impedirlo, perché Octavia lo sapeva già.

Quindi non gli restò che allungarsi oltre il tavolo e raggiungere la sua mano, stringerla nella propria come facevano quando erano solo due bambini, e accarezzarla con amore, il sentimento più forte che avesse mai provato per un altro essere umano.

« Ehi, io sono come… faccio anch’io parte della famiglia, stronzi. Abbracciatemi. » Si insinuò allora Raven, un’evidente affettuosità in quelle imprecazioni, e i due fratelli Blake scoppiarono a ridere.

« Sei una spina nel fianco, Reyes. » La canzonò Bellamy, continuando a sogghignare e facendole l’occhiolino subito dopo, mentre sua sorella si sporgeva alla propria destra e stringeva entrambe le braccia attorno al capo di Raven.

« Non riesco a respirare! » Urlò l’altra, la voce soffocata dalla sua stretta, e batté dei colpi contro le mani della giovane Blake per liberarsi.

Fu in quel momento, fra le risate spensierate e le urla giocose, che Clarke si affacciò dall’atrio della sala.

E fu in quel momento, non appena lei apparve in un angolo della stanza, seppur silenziosa e quasi invisibile, che Bellamy si voltò verso di lei.

« Sei pronta? »

Lei si limitò ad annuire, rivelandosi del tutto e poggiando una spalla all’uscio della porta, e lui si alzò rapidamente.

« Per quanto sia divertente vedervi picchiare, noi andiamo. Nella busta della spesa ci sono le lasagne! »







 
 
Il maggiore dei Blake accostò l’automobile nel parcheggio del Mount Weather Hospital poco dopo l’ora di pranzo, spegnendo il motore e voltandosi verso il sedile del passeggero.

Clarke, lo sguardo perso fuori dal finestrino, rimase immobile per un paio di secondi, poi ricambiò il suo sguardo.

« So che puoi farcela. »

« Ehi, non so come ringraziarti. Non solo per questo. Per tutto. Fin dall’inizio, fin dalla prima volta in cui ti sei rifiutato di aiutarmi e poi hai cambiato idea. Anche allora, quando ti ho detto di andare a farti fottere, » si interruppe per un breve ghigno, lasciando vagare lo sguardo oltre il cruscotto, « tu sei riuscito a farmi ragionare. A farmi vedere. »

« Non è stato solo grazie a me. »

La giovane Griffin lasciò andare un breve sbuffo, aggrottando le sopracciglia, come se ci fosse qualcos’altro a cui stesse pensando e che cercasse di esprimere correttamente.

Poi, tentando in qualsiasi modo di sovrastare la frustrazione, parlò: « Ti ammiro, Bellamy. Ti guardo, guardo quest’uomo che mi sfida e mi sostiene e mi terrorizza, e tutto quello che riesco a pensare è che vorrei essere come te. Vorrei essere come te, che hai il tuo obiettivo e non ti lasci spaventare da nulla pur di ottenerlo. » Confessò.

Teneva gli occhi rivolti verso il basso, sulle sue mani strette in grembo che si torturavano a vicenda, e non era difficile distinguere la difficoltà che pronunciare quelle parole a voce alta le faceva provare.

« Prima ero questa persona, ecco. Questa persona che non parlava e soffriva in silenzio perché pensava che nessuno fosse in grado di capirla. Continuavo a volere così tante cose ché alla fine non riuscivo mai a volere niente, perché avevo paura e credevo di non meritarle. »

In quel momento a Bellamy tornarono alla mente le parole che lei gli aveva rivolto sotto il suo portico due mesi prima, quando non avevano ancora idea di trovarsi davanti a qualcuno più simile a se stessi di quanto avrebbero potuto aspettarsi.

“Ogni volta che pensavo alla reale possibilità di entrare in una buona università e diventare il chirurgo che ho sempre desiderato essere, mi tiravo indietro. Non potevo. Non potevo perché mio padre era morto e io non provavo niente, perciò non lo meritavo. Non lo merito.”

« Non voglio più essere quella persona. » Aggiunse improvvisamente Clarke, voltandosi verso di lui. « Ora so che dovevo solo sceglierlo. E lo sto scegliendo, lo faccio ogni giorno. Anche adesso. »

« Clarke- » Provò lui, con un’espressione quasi stralunata sul volto. Era tenerezza, sofferenza e anche profonda comprensione.
« Io non ti voglio e basta. » Terminò lei, sussurrando, e non poté impedirsi di spostare lo sguardo sulle sue labbra.

Si avvicinarono lentamente. Continuando a fissarsi, forti di un’intimità che li privava di qualsiasi imbarazzo, lei si spostò ancora di più sul sedile e si sporse al di là, aggrappandosi alla mano di Bellamy.

Il maggiore dei Blake, d’altronde, inclinò il capo, allungando il collo verso di lei e protendendosi verso il suo volto.

Quando furono vicini, abbastanza vicini da incontrarsi a metà strada, entrambi socchiusero gli occhi, pronti e come devoti.

Si baciarono con lentezza, senza lasciarsi trasportare dalla foga delle notti precedenti, ma attentamente, delicatamente, come se ci fosse qualcosa che ancora non si erano detti e che non avrebbero mai potuto dirsi se non con le loro mani strette, tremanti, e i loro volti vicini, incastrati, bellissimi nelle loro controversie e nelle loro paure più profonde.

La giovane Griffin si allontanò qualche istante dopo, poggiando la fronte contro la sua tempia e aggrappandosi un po’ più forte alle sue dita.

« È meglio che vada. » Sospirò.

« Aspetta, ho una cosa per te. »

Prima che lei potesse sorprendersi, Bellamy si sporse oltre i sedili posteriori e afferrò una piccola scatola ricoperta da una cangiante e coloratissima carta da regali.

Era rettangolare e di medie dimensioni, e Clarke non aveva idea di cosa potesse trattarsi nemmeno quando lui gliela porse.

« Aprila! » La incoraggiò brevemente.

La bionda non se lo fece ripetere due volte, strappando la carta e facendo pressione ai lati della scatola di cartone per aprirla. Quando, con grande stupore e divertimento, si rese conto che cosa effettivamente riguardasse, la giovane Griffin non si sforzò nemmeno di trattenere la risata che arrivò spontaneamente dal petto.

« Non ci posso credere! » Esclamò con entusiasmo, voltandosi per l’ennesima volta verso di lui e sorridendogli a pieno volto, « Mi hai regalato uno spazzolino. »

« Mai sottovalutare i problemi dell’odontoiatria, giusto? » Fu la sua pronta risposta, scoppiando a ridere a sua volta e poggiando la tempia destra contro il sedile per guardarla meglio.

« Sei incredibile. »

« Ho solo pensato che… Ecco, insomma. Potresti lasciarlo nel mio bagno. Così la prossima volta non dovrai essere costretta a usare il mio, no? » Il suo tono si fece più serio, ma i suoi occhi restarono quieti, sereni, e Clarke comprese il suo messaggio senza che lui avesse bisogno di fornirle ulteriori spiegazioni.

« Mi farebbe piacere lasciarlo nel tuo bagno. » Annuì con convinzione, spostando di nuovo lo sguardo verso la semplice e banale confezione dello spazzolino e lasciandosi trasportare da un’ondata di quel calore al centro del petto che provava ogni volta che Bellamy dimostrava la più piccola preoccupazione nei suoi confronti.

Aveva imparato e si era forzata a non prendere tutto ciò per scontato, perché le appariva scontato anche il fatto che prima o poi qualcuno o qualcosa glielo avrebbe portato via.

Le attenzioni di una persona cara, la premura nelle più ordinarie questioni, la vicinanza in un momento difficile non erano altro che parte di tutte quelle cose di cui si era privata fino al momento in cui l’aveva conosciuto, quando credeva di non meritarle e di non poterle donare a sua volta per far capire che lei era ancora lì, viva, fra tutti loro, e il suo cuore batteva ancora.

Il suo cuore batteva ancora, e Clarke sembrò realizzarlo solo adesso che lo faceva così forte da farle pensare di poterlo perdere da un momento all’altro.

« Posso chiamarti più tardi? » Domandò infine. Tutto quello che si erano detti rimaneva vero, ci stavano davvero provando, ma lei non voleva nemmeno pensare di poter dare per ovvio determinati atteggiamenti.

L’ultima delle sue intenzioni era quella di soffocarlo, perciò le sembrò quantomeno gesto di accortezza assicurarsi di poterlo fare.

« Ma certo », le assicurò Bellamy, « puoi chiamarmi quando vuoi. »

La giovane Griffin abbassò il capo, sorridendo come impacciata, e annuì un paio di volte, prima di aggrapparsi alla portiera e scendere dall’automobile.

Non appena si richiuse lo sportello alle spalle, poggiò per qualche istante la mano al finestrino, salutandolo un’ultima volta.
 
 
 







« Ehi, Gina. » Salutò Clarke non appena arrivò al terzo piano, ripercorrendo i tragitti dell’ospedale che conosceva a memoria fin da bambina.

La suddetta infermiera, una ragazza poco più grande di lei con cui aveva preso a chiacchierare da quando aveva iniziato a lavorare lì e che riteneva una mente brillante, alzò il capo da alcuni documenti che stava compilando e le sorrise.

« Clarke! Che ci fai qui? » Domandò da un lato all’altro della scrivania per le informazioni.

La bionda, poggiando i gomiti sulla superficie e guardandosi intorno, fingendo una disinvoltura che in realtà non le apparteneva, rispose immediatamente: « Cerco il grande Capo. È qui? »

« Sì, tua madre è qui. Si è appena chiusa nel suo studio, in questo momento non ha pazienti. »

« Vorrà averne, dopo avermi vista. » Mormorò fra sé e sé la più giovane. « Grazie, Gina. Tifo perché il prossimo posto di primario sia tuo! »

« Sei il mio idolo! » Si fece sentire l’infermiera alle sue spalle, osservandola mentre camminava verso l’ufficio della madre e scuotendo giocosamente la testa subito dopo.





 
La giovane Griffin si ritrovò a fissare la targhetta col nome di sua madre sopra senza riuscire a muoversi.

Da lì a qualche secondo sarebbe dovuta entrare nella stanza e affrontare per la prima volta ogni cosa che lei e Abigail non si erano dette durante tutti quegli anni, ciò che non avevano fatto altro che rifuggire e ignorare, pensando che forse, in quel modo, se ne sarebbe andato da solo.

Ma l’uomo a cui entrambe avevano voluto bene e con cui avevano trascorso le loro vite se ne era andato – non se ne è andato, lo hanno ammazzato, le suggerì una voce fredda e atona nella sua testa – e non potevano più far finta che non fosse più una ferita da cui stavano cercando disperatamente di guarire.

Era arrivato il momento di parlare, parlare davvero, e domandarsi tutte quelle cose che non avevano avuto il coraggio di chiedere. Era arrivato il momento di sapere, e lei non poteva tirarsene indietro. Non ora.

Fu per quel motivo che, spinta da un improvviso moto di adrenalina e coraggio, Clarke afferrò fermamente la maniglia e, senza bussare, entrò nella stanza.
 




 
 


« Lincoln? » Chiamò immediatamente Bellamy, mettendo la chiamata in vivavoce mentre guidava.

« Sono con Lexa », fu la risposta repentina dell’altro, avvisandolo tacitamente di rispettare la parte e non rivelare nulla di compromettente, « dovresti venire al solito posto. »

« Lei sa? »

« Dovresti raggiungerci. » Si limitò a ripetere, poi riattaccò senza attendere risposta.

Quello non andava affatto bene. Dal tono di voce di Lincoln era evidente che ci fosse qualcosa di sbagliato, qualcosa che non stava seguendo i piani, e il maggiore dei Blake tentò di mantenere la calma mentre sterzava bruscamente e cambiava strada.

Una volta diretto al Givin’ and Takin’, il luogo di ritrovo dei Grounders dove appena una settimana prima aveva incontrato ufficialmente il Comandante Lexa, il moro cercò un altro numero nella sua rubrica e avviò una nuova chiamata.

« Bell, stai bene? » La voce preoccupata di sua sorella gli arrivò chiara al secondo squillo.

« Sto bene, O. Va tutto bene. Ho solo bisogno che tu mi faccia un favore. »

« Qualsiasi cosa. »
« Vai da Clarke, è al Mount Weather. Va’ da lei e non separatevi finché non torno a casa, okay? »

« Mi stai spaventando. Dov’è Lincoln? Gli è successo qualcosa? »

« Non succederà niente a nessuno, Octavia. Te lo prometto. Ma tu devi restare con Clarke. Prenotate cibo da asporto, guardate un film, invitate Raven. Fate quello che volete, ma restate in casa e insieme fino a che non te lo dico io. Siamo d’accordo? »

« Sarà meglio che tu e Lincoln torniate a casa presto, o giuro sull’Onnipotente che verrò a cercarvi io stessa. »

« Ti voglio bene, scimmia. » Addolcì il tono sull’ultimo nomignolo, un soprannome che le aveva affibbiato da piccola, sei anni al massimo, quando era così spericolata da arrampicarsi sugli alberi e nascondersi ovunque.

« Ti voglio bene anch’io, fratellone. »
 






 
 
« Clarke? » La riprese con sorpresa sua madre, i capelli perfettamente ordinati e il solito camice bianco poggiato sulle spalle. Stava compilando alcuni documenti, sempre così occupata a salvare vite umane e trovare soluzioni ai più grandi misteri della biologia, e aggrottò le sopracciglia all’inaspettata e imprevedibile visita di sua figlia.

« Ho bisogno di parlarti. » Fu tutto ciò che la più giovane riuscì a dire, spostando il peso da un piede all’altro e tentando con ogni sforzo di farsi vedere sicura e determinata.

Nonostante la presenza di Abigail le avesse sempre provocato un certo disagio – non sapeva se fosse frutto del naturale e sottile conflitto umano fra madre e figlia o se fosse solo il risultato della loro più totale mancanza di comunicazione – la giovane Griffin cercò faticosamente di mantenere una parvenza di autocontrollo.

« Sono sommersa da scartoffie, possiamo vederci a cas- »

« Ho bisogno di parlarti adesso. » La interruppe con un misto di aggressività e frustrazione, chiudendo per un attimo gli occhi.

Abby scattò in piedi, scrutandola più attentamente. « Stai bene? »

« Il fatto è questo, mamma », e non avrebbe dovuto suonare così aspro, Dio, questa era la donna che l’aveva creata, che l’aveva resa lei, e non riusciva nemmeno a chiamarla in quel modo, « per un lungo tempo ho creduto di no. Di non poter più stare bene. »

La più anziana sbatté più volte le palpebre, quantomeno confusa da quelle improvvise rivelazioni, frutto degli enigmatici segreti che non le aveva mai confidato ad alta voce.

« Non voglio più credere che sia così. » Sussurrò, abbassando le spalle senza accorgersene e tenendo saldo lo sguardo nel suo. Poi sospirò.

« Io voglio essere felice. E credo di aver trovato qualcosa che possa aiutarmi ad esserlo. »

I sorrisi di Bellamy, di suo fratello, di Jasper e Monty e Miller e perfino Raven, dannazione, le affiorarono alla memoria, sfilandole davanti agli occhi come se fossero veramente lì.

« Non mi importa se sarà solo un’illusione, una stupida ingenuità. Potrebbe essere tutto quello che possiederò, potrei non avere mai qualcosa di vero, quindi sì, voglio qualsiasi tipo di felicità mi sia concesso avere. Non voglio più soffrire. »

Clarke rivide se stessa stare davanti a quella stessa porta su cui ora era appoggiata, rivide se stessa impaurita di qualsiasi reazione le sarebbe toccata e non poté fare a meno di lasciarsi tranquillizzare dal sollievo che quella rivelazione le stava provocando.

Non avrebbe mai dovuto avere paura di questo. Queste parole, questa decisione – si meravigliò di quante possibilità le si presentassero ora che era finalmente pronta a sceglierle – erano ciò che l’avrebbe liberata, e lei era pronta a gridarle, a lasciarsele imprimere addosso.

« Piccol- »

« Se non voglio più soffrire, allora dovrò iniziare a perdonare. Perdonare ciò che io ho fatto gli altri. Ciò che gli altri hanno fatto a me. Quello che io e te ci siamo fatte. E per perdonarti, ho bisogno che tu sia sincera con me. »

Prese un respiro visibilmente profondo, sbuffando nel mentre, e compì qualche passo in avanti, avvicinandosi ad Abigail. Quest’ultima, riflettendo i suoi passi, superò la scrivania e aumentò la prossimità fra loro due. Aveva un’espressione indecifrabile sul volto. Qualcosa che, la bionda avrebbe potuto giurarlo, era una pericolosa combinazione di rimorso e impotenza.

« Non ti ho mai mentito, Clarke. » Sussurrò sua madre, apparentemente mettendo da parte la maschera di austerità che si era costruita attorno e che sembrava non togliersi mai.

« Non mi hai nemmeno detto la verità, mamma. »

Prima che potesse ricevere qualsiasi tipo di risposta, il cellulare di Abby squillò, interrompendola proprio nel momento in cui stava per aprir bocca.

« Ti prego. Ti prego, non rispondere. Sto cercando di parlarti. »

« Ma- »

« Non farlo. Per una volta. »

Non seppe se fu per le sue parole o per qualcosa che aveva visto nel suo sguardo, ma sua madre non rispose.

« Grazie. » Prese un respiro profondo. « Facciamo una cosa, okay? Io spengo il mio e tu spengi il tuo. »
La giovane Griffin sapeva bene quale fosse il rapporto del primario di Chirurgia con il suo telefono.

Era cresciuta con la consapevolezza di tutte le volte in cui era rimasta a lavoro fino a notte fonda o che aveva trascorso molti dei suoi compleanni attaccata a quell’aggeggio, più preoccupata a risolvere una delle sue tante questioni piuttosto che a vedere sua figlia spegnere le candeline.

Questo voleva dire che sapeva anche cosa effettivamente le stesse chiedendo.
Ascoltami, mamma. Guardami. Mi sei mancata così tanto. Ti ho odiata così tanto. Dimmi che mi ami. Amami, mamma.

« Va bene. » Acconsentì la più anziana, probabilmente troppo allarmata dall’insolito e ambiguo comportamento di sua figlia per fare ulteriori domande. « Mi stai preoccupando, Clarke. Che sta succedendo? »

Lei distolse lo sguardo. Contraendo la mascella in segno di avvilimento, si permise per un attimo di osservare l’ufficio di Abby. Alle pareti erano appese fotografie sanitarie, promozioni pediatriche e i vari attestati medici che aveva conseguito nel corso degli anni.

La scrivania, sulla quale un portatile e una grossa agenda capeggiavano fra gli altri oggetti, di un ebano rosso – unico e pregiato nel suo genere – l’elegante e imponente poltrona che sembrava sempre troppo vuota, troppo grande, e le finestre ampie, qualsiasi componente in quella stanza pareva antico, indecifrabile, come inutilizzato.

Una volta Clarke aveva letto da qualche parte che tutto quello non era altro che un riflesso di ciò che c’era dentro.

Una stanza, dei libri, un tipo di lampada, una scrivania. Erano solo un riflesso. Erano solo un’implicita ammissione di interiorità. Io sono questo. Io sono quello che mi circonda.

In quel momento sperò di sbagliarsi.

Non appena riportò l’attenzione al volto di suo madre, quel viso che aveva pensato di conoscere così bene, di cui credeva di aver visto la felicità, l’incertezza, il dolore profondo, le lacrime si raccolsero sul fondo dei suoi occhi, e lei seppe di non poter più mentire.

« Puoi dirmelo. Che è successo? »

« Ho bisogno di sapere. » La sua voce tremò, ma lei prese un respiro profondo e si diede forza. « Ho bisogno di sapere perché mio padre è morto. »
 
 
 







Bellamy non esitò.

Non appena parcheggiò davanti all’insegna del bar in cui sapeva avrebbe trovato la verità – o ciò che più le si sarebbe avvicinato – afferrò le chiavi, si strinse la pistola dietro la schiena e scese.

Camminò con sicurezza, le mani nelle tasche della giacca e la disinvoltura nei passi, per quei pochi metri che lo dividevano dall’entrata.

I vetri erano oscurati, ma lui non si curò di avere visuale ed entrò alla cieca, ancora incerto di cosa potesse trovarsi davanti.

« Guardate chi è arrivato! » Esclamò una voce a lui sconosciuta.

« Heda ti aspettava, amico! » Chiamò un altro.

« Bellamy. » Finalmente individuò Lincoln, seduto ad uno dei tavoli in fondo alla sala. Raggiungendolo velocemente, senza però evitare di guardarsi attorno, il moro fece un cenno del capo.

« Che cazzo sta succedendo? » Sibilò a bassa voce, mettendosi a sedere con le spalle al muro – aveva bisogno di una buona visuale, dopotutto – e continuando a ispezionare il luogo con sguardo indagatore.

Prima che l’altro potesse rispondere, tuttavia, due porte alla loro destra sbatterono e si spalancarono, rivelando Lexa e altri tre uomini alle sue spalle.

« Stavo iniziando a sentire la tua mancanza. » Esordì con evidente sarcasmo e provocazione nella voce.

Si avvicinò lentamente, le trecce selvagge e lunghe che parevano muoversi di vita propria e scivolarle delicatamente lungo la pelle scoperta delle spalle, gli occhi truccati, sempre così truccati di nero, come una maschera, un’armatura a proteggerla da tutto il resto.

Indossava un corsetto di un granata rosso che le fasciava i fianchi e lasciava ben poco all’immaginazione. Le sue gambe avvenenti erano avvolte in semplici jeans neri, attillati lungo le caviglie, attorno alle quali si stringevano un paio di stivaletti di pelle.

Guardandola, Bellamy pensò che, se Medusa fosse esistita veramente, avrebbe avuto il suo volto.

Meravigliosamente pericolosa, una creatura ipnotica e insieme mortale contro cui difficilmente qualcun altro avrebbe potuto avere la meglio.

Strinse fra le mani i bordi della panca su cui era seduto, mettendo da parte il nervosismo che quella situazione gli provocava e cercando di sfruttarla a proprio vantaggio.

« A cosa devo l’onore? » Rispose con lo stesso identico tono, forzando un ghigno nella sua direzione.

Mentre la giovane Heda si avvicinava a lui, sorpassando la sedia di Lincoln e dandogli le spalle, gli altri tre uomini si fermarono a una certa distanza.

« Io ho qualcosa che vuoi », scandì con precisione e zelo, parandosi davanti a lui e costringendolo ad alzare la testa per guardarla, « detective Blake. »
Merda.

Il Comandante lo aveva scoperto. Questo voleva dire che tutti i Grounders lo avevano scoperto. E che, quindi, in quel momento lui e Lincoln stavano lottando per qualcosa di più che delle informazioni da passare al Distretto.

Stavano lottando per le proprie vite.

Il suo sguardo corse immediatamente al ragazzo di sua sorella, che era rimasto in silenzio per tutto quel tempo e non aveva ancora pronunciato parola. I suoi occhi, tuttavia, gli inviarono un chiaro messaggio: Mi dispiace.

Fu di quel momento di distrazione che Lexa si approfittò quando, in un gesto fulmineo e calcolato, si sedette a cavalcioni su Bellamy e trascinò le labbra contro le sue.

Lui, terribilmente colto di sorpresa, spalancò gli occhi e scattò con una mano verso la pistola che teneva nascosta sotto la cintura, mentre con l’altra afferrava il fianco sinistro di lei e cercava di respingerla. Di tutte le reazioni che avrebbe potuto aspettarsi, quella era sicuramente l’ultima che avrebbe considerare.

Prima che potesse fare qualcosa, qualsiasi cosa per reagire, la giovane si era già staccata da lui e lo guardava dall’alto con un sorriso spietato e sbarazzino.

« Togliti. » Le intimò lui, allontanando il più possibile il volto da suo e guardandola di sbieco.

Lei scoppiò a ridere, sfiorandogli con la punta dei polpastrelli la pelle esposta del collo. « Ti è piaciuto, ammettilo. »

« Ti sta solo provocando, Bellamy. » Lo avvisò all’improvviso Lincoln, fermo alle loro spalle, e in un secondo il rumore del cane di una pistola che veniva azionato fu l’unico suono che entrambi sentirono.

« Sta’ zitto, Lincoln. I traditori qui dentro non parlano. » Sputò fuori Lexa, senza nemmeno degnarsi di voltarsi verso di lui.

« Non devi farlo per forza. » Si rivolse il maggiore dei Blake a lei, ottenendo nuovamente la sua attenzione. « Le cose possono finire in maniera molto diversa. »

« Oh, dolcezza. So esattamente come andranno a finire le cose. »

Con un breve gesto della sua mano sinistra, i due uomini si ritirarono da dove erano venuti, mentre il terzo – continuando a puntare l’arma contro la nuca di Lincoln – lo trascinò nella stessa direzione, lasciando Bellamy e Lexa da soli.

« Ti dispiace? » Accennò lei, gettando uno sguardo alla sua mano che ancora le immobilizzava il fianco.

Il moro la lasciò andare in una frazione di secondo, come scottato, e la osservò in cagnesco.

« Ti dispiace? » Ripeté le sue parole, alludendo al fatto che fosse ancora seduta sopra di lui.

Agilmente, come se stesse compiendo un passo di danza, la giovane Heda spostò una gamba e scivolò di lato. Finirono spalla contro spalla, l’uno al fianco dell’altra, e rimasero per qualche istante a fissare il vuoto davanti a loro.

« E comunque non agitarti, non sei il mio tipo. Preferisco le bionde. »

« Cos’hai? » Bellamy ignorò quello che gli aveva appena detto, alzando gli occhi al cielo senza nemmeno voltarsi verso la sua direzione.

« So chi ha ucciso Jake Griffin. » Rispose l’altra con tranquillità e una scrollata di spalle, come se fossero due amici che chiacchierano e si raccontano i vecchi tempi.

La testa dell’agente Blake scattò talmente velocemente che avrebbe potuto rimanere bloccata, e i suoi occhi ispezionarono attentamente il suo volto alla ricerca di qualsiasi segnale che potesse confermare che stava mentendo.

Quando Heda ricambiò il suo sguardo, sentì che era sincera.

« Cosa vuoi in cambio? » Conosceva bene questo tipo di scambio di informazioni. Nel suo lavoro, fra questa gente, nessuno regalava niente. Nessuno aiutava nessun altro per nessun motivo.

« Voglio l’immunità. » Replicò disinvolta, sebbene avesse smesso di sorridere. « Qualsiasi cosa troviate su di me, qualunque prova abbiate, non potrà farmi niente. Non posso andare in prigione. Non ora che ho finalmente costruito qualcosa. »

« Hai costruito un impero di terrore e crimini, Comandante. Perché? »

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Lexa sembrò metter da parte l’atteggiamento di arroganza e fierezza che si era metodicamente cucita addosso, lasciando che fosse l’unica cosa che gli altri vedessero e temessero di lei.

« Vuoi sapere chi è stato o no? » Evitò il discorso, e Bellamy non insistette oltre.
C’era solo una cosa di cui aveva bisogno in quel momento, ed era conoscere la verità, perciò si limitò ad annuire con convinzione.

« Prima promettimi che mi farai avere l’immunità. Conosco voi sbirri. »

« Ti farò avere l’immunità, te lo prometto. »

« Tieniti forte, agente Blake. »
 
 
 
 





« Sono stanca di fare i nostri soliti giochetti. Tu mi provochi e io esplodo. Sono stanca di tutto questo. »

Iniziò Clarke, ripetendo quelle stesse parole che per tanto tempo aveva sognato di poter dire a sua madre, durante le notti che aveva trascorso insonne e le giornate passate a letto, la testa sotto le coperte e il corpo rannicchiato su se stesso.

Non era stato facile per lei. Non era stato facile nemmeno per sua madre, e sembrava accorgersene solo ora.

« Stai ancora avendo questi pensieri? Tel’ho detto un milione di volte, Clarke. Tuo padre ha avuto un attacco di cuor- »

« No! Non dare la colpa a me. Non farmi passare come la pazza di turno. Non è possibile. » Sibilò, alzando la voce e sollevando le braccia a mezz’aria. « Lui era sano. Tu ci facevi controllare ogni sei mesi. Non c’è nemmeno un’anamnesi nella nostra famiglia che possa rilevare un problema genetico. »

« Lui era forte. » Sussurrò. Non può essere questo.

« Non c’è certezza di prevedibilità in queste cose, tesoro. Lo sai anche tu. » La voce di Abby iniziò a tremare, e sua figlia spostò lo sguardo su di lei in tempo per vederla spazzare via con il dorso della mano alcune lacrime.

« Ci sono delle tossine invisibili all’autopsia. Se non sai come trovarle, non puoi vederle. Farmaci, veleni e sostanze letali create per sciogliersi e venire assorbite nel sangue. »

La bionda schioccò le dita un paio di volte, cercando di ricordare gli argomenti su cui si era tanto documentata.

Poi, con un gesto della mano, si rivolse a sua madre: « Il cianuro provoca arresto cardiaco e sparisce dall’organismo in meno di cinque minuti. »

« Ti prego, smettila. » La supplicò sua madre, portandosi entrambe le mani al volto e tentando di sopprimere i singhiozzi. Sembrava una bambina spaventata e impaurita, ma Clarke non fu in grado di fermarsi.

« E questo è solo uno dei tanti. Posso- »

« Basta! So che è difficile. Hai perso tuo padre, io ho sposato Thelonious. È stato tutto così difficile. Ma non puoi più farti questo, Clarke. »

« Voglio solo sapere la verità! Conoscevo anch’io segreto dell’Ark, mamma. Gli appalti illegali, gli investimenti a Hollywood, i piani per sbarazzarsi delle pratiche scomode. I soldi in ballo sono abbastanza per uccidere. Quelle persone erano pronte a mettere a rischio vite umane pur di vendere quei contratti, e papà lo aveva scoperto. Lo sapevo anch’io. Tutto questo non può essere una casualità. »

« Sei già stata arrestata una volta per queste insinuazioni. Non metterti contro queste persone. »

« Beh, dovresti seguire il tuo stesso consiglio. Kane? Davvero? » Domandò la bionda retoricamente, portandosi una mano fra i capelli e socchiudendo gli occhi. Quella conversazione stava andando proprio come l’aveva immaginata, e stava iniziando a pensare che fosse tutto inutile.

Sua madre sembrava non riuscire ad essere sincera con lei, forse quella era la semplice verità. Le cose sarebbero andate sempre così.

« So quello che ti ha detto Bellamy. Sì, Clarke. Io e tuo padre eravamo a conoscenza di quello che lui stava facendo. Ma non è dipeso da lui, posso assicurartelo. Marcus non è come loro. Lui era dalla nostra parte, voleva esporre tutto, smascherarli, ma ci sono persone più potenti pronte ad insabbiare tutto.

Persone molto più potenti di lui, di tuo padre e di tutti noi. »

« Quindi avete semplicemente permesso che il progetto continuasse. Avete messo a rischio delle persone. Come hai potuto? »

« Non c’era niente che potessimo fare! » A quel punto sua madre parve perdere qualsiasi forma di autocontrollo, e le si avvicinò in fretta fino a posarle entrambe le mani sulle spalle.

« Non potevamo rivelare niente. Perciò, abbiamo dovuto proteggerci. Proteggerti. Sapevamo bene che questo segreto avrebbe messo a repentaglio la sicurezza della nostra famiglia, così abbiamo giurato all’Ark che saremmo rimasti in silenzio. In cambio, ci siamo assicurati la tua protezione. »

« Certo, rivolgendovi alla più pericolosa banda di Los Angeles! » Urlò Clarke.

« Non avevamo scelta. Non potevamo rischiare che tu corressi dei pericoli per la nostra decisione, e quello era l’unico modo per essere certi che tu saresti stata al sicuro. Che non avresti pagato per i nostri errori. »

« Tu sei un dottore, per l’amor del Cielo. Come hai potuto mettere a rischio vite innocenti? »

« E tu sei mia figlia, Clarke. Metterei a rischio la mia stessa vita pur di proteggerti. »

La giovane Griffin sbuffò, incapace di ricacciare indietro le lacrime che avevano iniziato ad appannarle la vista. Per la prima volta dopo tanto tempo, non si vergognò di piangere davanti a sua madre.

« Voglio sapere perché ho perso mio padre. » Singhiozzò, abbracciandosi il petto e lasciando cadere il capo in avanti.

« Non avremmo potuto fare niente per salvarlo. Nessuno lo ha ucciso, Clarke, nessuno lo ha avvelenato. Non ti sto nascondendo nulla, te lo giuro. Il suo cuore si è semplicemente fermato. »

« Ma- Atom, lui mi ha rapita. » Sussurrò, portandosi una mano davanti agli occhi e scuotendo il capo. « Mi ha detto delle cose… Lui sa chi lo ha ucciso. »

« Eri confusa. » La interruppe Abby, il tono di voce incredibilmente vicino alla compassione. « Quelle persone conoscono la nostra famiglia. Sanno chi siamo, cosa abbiamo. Si sono solo approfittati della tua fragilità, hanno sfruttato il tuo punto debole per prendersi i soldi. »

« Ma non hanno mai chiesto un riscatto… »

« Lo avrebbero fatto, tesoro. Ti hanno usata per i loro malsani scopi e- »

« No. » Intervenne. « No, non è andata così. Loro sanno. »

Sua madre le prese entrambe le mani. « Se lo avessero veramente saputo, perché non dire niente alla polizia? Perché Bellamy non sa niente? Li avrebbe aiutati. Avrebbero potuto raggiungere un accordo e ricevere una riduzione di pena, collaborando con loro. Ma non l’hanno fatto, perché si sono inventati tutto. »

« Forse… Forse non possono. Forse c’è qualcosa che non sappiamo. »

« Piccola… »

« No, mamma. Deve esserci una spiegazione. »

« C’è una spiegazione, Clarke. Ma forse non vuoi accettarla. » Le suggerì all’improvviso sua madre. Il suo sguardo sembrava addolcito da qualcosa che non riusciva totalmente ad identificare, e le loro mani erano ancora strette fra di loro.

Quando annuì verso di lei come se volesse incoraggiarla, lei capì: era pietà.

A quel punto capì. Tutta la rabbia, la sofferenza, la mancanza che l’avevano annientata durante quegli anni.

Capì e rivide se stessa a quindici anni, troppo fragile per ragionare lucidamente. Il suo cuore spezzato e la sua mente infranta. Una perdita troppo grande per un corpo così piccolo. L’immaginazione, l’inganno, la via di fuga. La risposta più semplice ad una domanda troppo difficile.

« Nessuno lo ha ucciso. » Ripeté fra sé e sé. Forse era davvero così. Forse, durante gli anni, le era stato così impossibile accettare la morte di suo padre ché aveva voluto trovare a tutti i costi un motivo che la giustificasse. Un colpevole.

Ma non c’era mai stato nessun responsabile, e ora le sembrava tutto così chiaro. Era quella la verità. Suo padre se ne era andato e basta. Nessuno glielo aveva portato via. Nessuno aveva intenzione di distruggere la sua famiglia.

Era solo successo. Occlusione delle arterie, deficit di flusso sanguigno, e Jake Griffin all’improvviso non esisteva più. Stroncato. Nessuna tossina, niente cianuro né acido prussico, solo un corpo che non reggeva. Un cuore che smetteva di funzionare.

« È stato naturale. » Affermò nuovamente, annuendo più a se stessa che a sua madre, e all’improvviso qualcosa nel suo petto si incrinò e le impedì di respirare.

Clarke sbarrò gli occhi, cercò di fare un respiro profondo, ma l’attacco di panico sembrava attanagliarle la gola, un pugno stretto attorno al collo, e lacrime violente continuarono a bagnarle il volto, colarle per il mento e sporcarle la maglietta.

« Va tutto bene. » Le assicurò Abby, circondandole la nuca con la mano e spingendola dolcemente verso di lei.

Lei non oppose resistenza. Come quand’era piccola, tornando indietro nei ricordi, lasciò che sua madre la stringesse a sé e la cullasse.

Pianse senza freni, non seppe per quanto, aggrappandosi al suo camice e gridando parole sconnesse contro il tessuto ruvido, lamentandosi a voce alta, imprecando un susseguirsi di disperati no, no, no, no.

Abigail pianse con lei, ma silenziosamente, con cautela, come solo una madre sapeva fare. Senza farsi sentire, come di nascosto, perché non poteva spaventare la sua piccola. Doveva, invece, infonderle forza, rassicurarla che sarebbe andato tutto bene, perché quello era il suo compito e quella era la vita che aveva scelto dal primo giorno in cui aveva visto il suo volto.

Dal primo giorno che aveva saputo che un’altra vita cresceva insieme e dentro di lei.

Piansero insieme sul tempo che avevano perso e quello che avevano trascorso lontane, troppo lontane, e per il tempo che gli era stato portato via.

Piansero e si perdonarono tacitamente, in un accordo silenzioso, che necessitava solo dell’amore che provavano l’una per l’altra.

Tu sei mia figlia e io morirei per te, se solo tu me lo chiedessi. Mi dispiace così tanto, Clarke.







 
 
La giovane Griffin uscì dal Mount Weather un paio d’ore dopo, esausta e sfiancata e confusa.

Dopo essersi ripresa, Abigail l’aveva portata in caffetteria, le aveva ordinato torta di mele e gelato – quello che le prendeva sempre da bambina – e si erano fermate a parlare.

Clarke le aveva raccontato di come fosse riuscita a iniziare di nuovo a dipingere e della sua intenzione di iscriversi finalmente al College. Poi, quasi senza essere in grado di trattenersi, le aveva espresso il desiderio di farle conoscere Bellamy. 
Non come agente Blake, solo come Bellamy.                                                                                                                                                                                                                                           
Ora si erano salutate, un abbraccio e qualche parola di conforto l’una per l’altra, e Clarke doveva prendere una boccata d’aria.

Si guardò attorno disorientata, appena fuori le porte dell’Ospedale, passandosi una mano sul volto ruvido per le lacrime e prendendo un respiro profondo.

Aveva finalmente scoperto la verità, e fu quantomeno ironico che la cosa che aveva cercato così tanto fosse stata proprio sotto i suoi occhi per tutto quel tempo. Che fosse la cosa più semplice, così come la più straziante.

La cosa peggiore di tutto quello era che, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva meglio.

Un peso le era stato tolto dalle spalle e dalla mente, e la realizzazione che non avrebbe più dovuto trascorrere ogni giorno a pensare a quello che era successo la colpì all’improvviso.

Poteva andare avanti. Poteva finalmente andare avanti. Ora che aveva accettato la verità, ora che aveva abbracciato ciò che aveva tanto disperatamente cercato di respingere, il suo passato non sembrava più un masso legato al piede. Sembrava solo una parte di sé, difficile e dolorosa, ma conclusa e risolta.

Aveva appena iniziato a camminare fra le persone ignare di cosa stesse succedendo dentro di lei– ancora senza destinazione, ma in un certo senso a suo agio – per qualche istante, semplicemente passeggiando e lasciando che la mente si rilassasse, quando un ragazzo la superò all’improvviso, urtando contro la sua spalla e perdendo qualcosa sul marciapiede.

Clarke vide un cellulare e si chinò a raccoglierlo per restituirglielo, ma, non appena sollevò di nuovo lo sguardo, il ragazzo aveva già svoltato l’angolo della strada e lo aveva perso di vista fra la massa di persone che uscivano dagli uffici.

« Aspetta! » Gridò, facendo per seguirlo, ma fu interrotta dalla forte e insistente vibrazione del telefono.

Confusa, rimase per qualche istante a fissare davanti a sé, cercando con gli occhi il proprietario.

Quando, però, lo schermo si illuminò, fu costretta a riservargli la piena attenzione.

Ciao, Clarke. Era il primo messaggio. Proveniva da un numero sconosciuto, e lei si accorse solo in quel momento che il telefono che teneva fra le mani era probabilmente un usa e getta, privo di qualsiasi segno di riconoscimento.

Ho sentito che mi stavi cercando. Continuò a leggere. Ti sto cercando anch’io.

La giovane Griffin boccheggiò terrorizzata. Stacco gli occhi dallo schermo solo per guardarsi intorno, spostando freneticamente il capo da un lato all’altro della strada.

Vedeva macchine e taxi muoversi nel traffico, gruppi di ragazzi seduti ai tavolini del bar e adulti in cravatta pronti a tornare a casa, ma niente o nessuno che potesse fornirle qualche indizio su chi le stesse scrivendo.

Chi sei? Digitò in preda al panico, continuando a restare immobile sul marciapiede e a scrutare l’ambiente circostante.

Non capiva. Non riusciva a capire cosa diavolo stesse succedendo. Aveva così tanta paura da non essere capace di muoversi, di raggiungere il suo telefono e chiamare sua madre, o Wells, o Bellamy.

Lo stai per scoprire. Io e il detective Blake ti stiamo aspettando. Segui le istruzioni e non provare a chiamare nessuno, altrimenti lo ammazzo. Se accendi il tuo telefono, io lo saprò.

« No… » Sussurrò sgomenta e terrificata. Era vero. Qualcuno aveva ucciso suo padre, e ora aveva Bellamy.

Avrebbe perso anche lui. Stava per morire.

C’era solo una cosa che avrebbe potuto fare per salvarlo, e non esitò nemmeno un istante. Clarke, terrorizzata e completamente spaventata, preda del peggior tipo di panico che avesse mai provato in tutta la sua vita, non esitò.

Sto arrivando.
 





 
« Sono a casa! » Urlò il maggiore dei Blake, richiudendo la porta con la gamba e posando la tracolla sul mobile alla sua sinistra.

Il buio era calato da poco meno di un’ora e luci erano accese, perciò non si preoccupò. Non appena, però, Octavia gli si presentò davanti e lo guardò con un’espressione sconcertata sul volto, capì di essersi profondamente sbagliato.

« Che è successo? » Domandò allarmato, aggrottando le sopracciglia e facendo un passo avanti. « Dov’è Clarke? »

Sua sorella evitò il suo sguardo per qualche istante, poi sospirò. « Non lo so, Bell. »

« Che significa che non lo sai? »

« Dopo aver parlato con te, l’ho chiamata. Il suo telefono era spento. Così sono andata al Mount Weather, e sua madre mi ha detto che se ne era già andata. A quel punto ho chiamato Wells, Jasper e Monty, che a loro volta hanno chiamato tutti i loro amici.»

Bellamy sbatté velocemente le palpebre, disorientato ed evidentemente turbato, ma non disse niente.

« Nessuno sa dove sia. Mi dispiace così tanto. »






 
  
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