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Autore: Blablia87    26/03/2016    8 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John, sguardo appannato e polmoni in fiamme, si lasciò andare contro il muro del vicolo, graffiandosi i palmi delle mani nel tentativo di mantenersi in piedi.
Alzò gli occhi verso il cielo plumbeo che si muoveva sopra di lui, carico di pioggia, cercando di normalizzare il proprio respiro.
La camicia, ormai impregnata di sudore, si era attaccata alla pelle, peggiorando il fastidio ed il bruciore. Il contatto - in alcuni punti - con la lana del maglione, era divenuto quasi insostenibile. Sentiva tirare, pungere, ogni movimento una lacerante agonia di calore e dolore.
Alzò una mano, tremante, tentando di aprire un po’ il cappotto, all’altezza del collo.
Un uomo, sulla strada principale, si bloccò all’ingresso del vicolo, voltando la testa verso di lui, congelando il suo movimento in un palmo alzato, sanguinante, sospeso nel nulla.
“Ehi!” Si sentì chiamare, mentre l’uomo muoveva qualche passo nella sua direzione. “Va tutto bene?”
John si calò con più forza il cappello sulla testa, chiudendo la giacca fino all’ultimo bottone. Strinse la sciarpa intorno a collo e bocca, staccandosi a fatica dal muro.
“Sì.” Rispose, cercando di apparire tranquillo, respirando l’aria attorno a sé a piccoli bocconi, per non essere sopraffatto dall’eventuale scia Alpha dell’altro.
“Sicuro?” Insistette l’uomo, avvicinandosi ancora.
“Sicuro.” John accompagnò le parole con un vigoroso movimento della testa, sentendo il terreno sotto di sé muoversi in risposta al suo cenno.
Vertigini. La parola esplose nella sua mente come una condanna. Non sarebbe stato in grado neanche di camminare correttamente, per l’ultimo tratto di strada che gli rimaneva da compiere.
“Non sembri star bene.” La scia dell’uomo, debole, arrivò fino al medico, che sentì il respiro mozzarsi per il sollievo. Beta. Innocuo, almeno a giudicare dal suo odore.
Gli venne da ridere, scosso dai brividi caldi della febbre, la testa stretta in una morsa.
Per almeno qualche altro secondo, avrebbe potuto respirare.
 
Aveva camminato per più di un’ora, prima con passo sicuro - il viso quasi del tutto coperto da la sciarpa di Sherlock, tenuta premuta contro il naso – poi sempre più lentamente, le gambe pesanti ed il respiro corto.
Qualche passante, all’inizio, si era fermato ad osservarlo senza troppo interesse.
Curiosità, prevalentemente.
Un paio di Omega, stretti al braccio del proprio compagno, lo avevano invece seguito con gli occhi, increduli. Il suo odore non mentiva, non avrebbe potuto. Eppure, nonostante il proestro in pieno svolgimento, quell’uomo stava camminando per strada, completamente coperto, solo.
John, ad ogni sguardo, aveva stretto con ancora più forza la sciarpa attorno al collo, aggrappandocisi con disperazione.
L’odore del detective, forte, legato in ogni fibra di lana, serviva a ricordargli perché lo stesse facendo, un memento olfattivo che gli sarebbe stato utile soprattutto quanto febbre e stanchezza avrebbero provato ad avere la meglio su di lui, fiaccando le sue gambe e rallentando il suo passo. Inoltre, la scia di Sherlock confondeva quella degli altri, rendendo a John sopportabile camminare in strada, nonostante ogni Alpha libero che incontrasse accentuasse la propria traccia, in modo volontario o meno.
Aveva cercato di camminare sempre su percorsi conosciuti e strade trafficate.
Gli input sensoriali erano molti, destabilizzanti, ma le probabilità di venir approcciato in modo aggressivo venivano in quel modo notevolmente ridotte, quasi azzerate.
Non era nel pieno dell’estro, e nessun Alpha avrebbe potuto aggredirlo in strada trincerandosi dietro alla forza della sua scia e alla naturale necessità fisiologica di risponderle.
L’aggressione ad un soggetto Omega – nonostante stesse sovvertendo pressoché ogni regola di sicurezza personale e di condotta sociale accettabile - non era consentita: se qualcuno avesse provato ad avvicinarsi a lui in modo violento in pieno luogo pubblico, con molta probabilità sarebbe stato fermato.
Questo a patto che rimanesse su vie frequentate: non appena isolato in una zona secondaria, nessuno avrebbe più dato peso a lui, né avrebbe provato a bloccare un eventuale attacco nei suoi confronti.
Col passare del tempo e l’intensificarsi della febbre, però, mantenersi sulle strade principali era divenuto sempre più complicato.
Il suo odore, reso ancor più forte dalla temperatura corporea elevata e dal sudore, era ormai divenuto palese, tanto che chi aveva incontrato per la strada non si era più limitato a semplici occhiate ma, in almeno un paio di casi, lo aveva seguito per qualche centinaio di metri, in attesa e con la speranza che svoltasse in una zona più appartata.
John aveva continuato a camminare, testa bassa, chiudendo gli occhi ogni tanto, con in mente un solo pensiero: “Fa’ che non mi chiedano di fermarmi.”
In una condizione normale, in quella fase del ciclo, già una richiesta in tono fermo da parte di un Alpha avrebbe avuto l’effetto di farlo ubbidire, quanto meno come primo istinto.
Sconvolto da febbre e stanchezza, sarebbe stata sufficiente la pressione di una mano su un braccio ed un sussurro, per costringerlo a seguire ad occhi bassi chiunque glielo avesse chiesto.
Alla fine, dopo più di quaranta minuti di cammino, era successo.
Aveva appena superato la National Portrait Gallery quando un Alpha, proveniente in senso opposto, lo aveva bloccato, fermandolo per le spalle.
John aveva provato a divincolarsi, con l’unico risultato di far scivolare la sciarpa di lato, scoprendogli il viso e rendendo vulnerabili naso e bocca.
“Non dovresti girare da solo.” Gli aveva soffiato contro l’altro, un sorriso storto a corollario di uno sguardo divertito. “Succedono brutte cose a quelli come te, se se ne vanno in giro nelle tue condizioni.”
John aveva respirato l’eccitazione nella sua scia, sentendo le gambe farsi rigide, pronte a sgretolarsi. Con occhi lucidi e vista appannata, aveva messo a fuoco a fatica l’abito elegante dell’altro, probabilmente un professionista appena uscito dall’ufficio.
“Dove te ne vai?” Gli aveva domandato l’uomo, spostandolo con gentilezza verso il vicoletto tra la Orange Street Congrecational Church ed il palazzo successivo, rispondendo con un sorriso cordiale a due uomini che avevano ridotto l’andatura passando loro vicino.
“Tutto bene, è un amico.” Aveva aggiunto, rivolto ad un gruppo di giovani donne Alpha che si era fermato ad osservare la scena, dubbioso. Queste, dopo qualche secondo, avevano continuato a comminare, proseguendo oltre.
John si era lasciato condurre docilmente, cercando di rimanere concentrato.
Per un attimo aveva azzerato ogni difesa, respirando a pieni polmoni, così forte da sentirli dolere. Aveva bisogno di aria. Di pensare. Non aveva più incamerato tanto ossigeno dal suo primo passo oltre la porta di Baker Street, e per un secondo – nonostante la scia dell’uomo tanto forte attorno a lui - si sentì meglio.
L’ombra del vicolo li aveva accolti, inghiottendoli, celandoli alla vista degli atri.
John si era trovato premuto contro il muro ancor prima di aver realizzato concretamente di essersi mosso.
C’era qualcosa, nel modo in cui quell’uomo gli respirava addosso, che lo aveva atterrito.
Andava oltre ad una risposta ormonale. Con un Alpha ed un Omega tanto vicini. Aveva a che fare con la violenza, con il peso dell’uomo schiacciato con forza eccessiva contro il suo sterno.
Gli aveva ricordato un commilitone - in una delle lunghe notti in Afghanistan - trovato in una cella, sopra un miliziano Beta che avevano in custodia.
Il prigioniero, ridotto un cumulo di singhiozzi scomposti, aveva allungato una mano verso John in cerca di aiuto, mentre lui, orgogliosamente premuto sopra quel corpo martoriato, gli aveva rivolto uno sguardo fiero, carico della superbia di chi aveva fatto valere la propria forza su qualcuno incapace di difendersi.
Negli occhi di quel militare John aveva visto la stessa luce scura nella quale si stava nuovamente specchiando, nell’ombra di un vicolo.
“Non siamo mera usta”, aveva detto Sherlock, e John – solo in quel momento – aveva davvero capito.
Che esisteva una differenza, tra chi combatteva i propri istinti per rimanere libero, e chi si abbandonava a loro, con la scusa di esserne schiavo.
Il medico aveva quindi allargato le gambe, lasciando che l’altro facesse altrettanto.
L’uomo aveva appoggiato un ginocchio contro il muro, infilandolo tra le cosce di John, e aveva scavallato con la  gamba sinistra quella destra del medico, per riuscire a spingersi con più forza contro di lui in attesa di riuscire a tenerlo sufficientemente fermo da poter iniziare ad usare le mani liberamente, per spogliarlo.
John aveva chiuso gli occhi, sforzandosi di sintonizzare la propria scia su un sentore che potesse farlo apparire disponibile, aspettandosi in risposta una reazione scomposta dell’altro.
“Così va’ meglio.” Gli aveva sbuffato l’uomo contro il collo, e John lo aveva sentito rilassarsi contro di lui.
Era stato allora che lo aveva colpito: un colpo secco, il suo ginocchio contro il basso ventre dell’altro. L’uomo aveva rantolato, facendo un passo indietro con sguardo sorpreso, prima di piegarsi su se stesso, mani a protezione dei genitali, prono.
John aveva provato per un secondo la sensazione di un terrore puro, azzerante.
La scia dell’altro era talmente carica di odio e dolore, che il medico aveva dovuto ricorrere a tutta la propria forza per resistere alla tentazione di accucciarsi ai suoi piedi in cerca di perdono.
Con passo incerto si era mosso verso la strada principale, accompagnato da i gemiti dell’uomo e dalla sua scia, satura di risentimento.
Alla fine, con l’ultimo residuo di volontà rimasta, aveva iniziato a correre, senza voltarsi.
 
“Credo di avere un po’ di febbre.” John si voltò verso lo sconosciuto, sbattendo un paio di volte le palpebre per riuscire a metterlo a fuoco correttamente.
“Dio.” Esalò l’altro, quando gli fu sufficientemente vicino da poter percepire il suo odore. “Non dovresti essere in strada.” L’uomo si passò una mano sulle labbra, teso.
“Lo so.” Disse il medico, con voce roca, tutta la fatica racchiusa in quelle due parole. “Ma devo arrivare in un posto. È… È importante.” Cercò di spiegare, tornando ad appoggiarsi al muro.
“Posso chiamarti un taxi.” Propose l’altro, alzando un sopracciglio. “Magari richiedo una Beta donna, che ne dici?” Azzardò.
“No.” John scosse la testa, spingendosi con più forza contro la parete, cercando di non cadere.
“Devo farlo in questo modo, o non funzionerà.” Aggiunse, portandosi una mano al viso.
“Non capisco.” Ammise l’uomo, con voce genuinamente preoccupata.
“Non ha importanza. Devo solo arrivare lì. C’è un…” John si bloccò, incapace di trovare le parole adatte. Si diede una spinta con il bacino, tentando di muovere qualche passo.
“C’è una persona. Devo andare, o rischio di perderla per sempre.” Riuscì a dire, allargando appena le braccia per mantenersi in equilibrio mentre il vicolo si piegava e storceva sotto il suo sguardo esausto.
“E devi andare a piedi.” Cercò di riassumere lo sconosciuto, confuso.
John annuì, avviandosi verso di lui, diretto alla strada principale alle sue spalle.
“Devi farlo necessariamente da solo?” Gli domandò l’altro, girando su se stesso e affiancandosi al medico.
“Mhm?” Chiese il John, senza capire.
“Devi andare lì a piedi e da solo?” Cercò di spiegarsi meglio l’uomo.
“Sì.” John fece un paio di passi, stremato, fiotti di nausea che gli risalivano lungo la gola.
“È molto lontano?” Continuò l’altro.
“Ancora una ventina di minuti.” Sussurrò il medico, alzando una mano per sorreggersi al muro del vicolo.
“Se ti accompagno per un po’, pensi potrebbe comunque funzionare?” L’uomo gli sfiorò un braccio, cercando di attirare la sua attenzione.
John si voltò a guardarlo, respiro corto e pelle in fiamme.
“Perché?” Domandò, spingendo a forza le parole oltre la barriera delle proprie labbra, secche e screpolate.
“Mia sorella è si è determinata un paio di giorni fa.” Lo sconosciuto si aprì in un sorriso dolce, accompagnato da uno sguardo triste. “È disperata. Vorrei tornare a casa e raccontarle di un Omega che ha camminato per la città diretto da un amico, nonostante la sua… condizione. Che l’ho visto farcela.”
John osservò gli occhi dell’uomo velarsi appena, prima di tornare su di lui, carichi di disponibilità.
“Fino ad un isolato prima.” Acconsentì, sperando che la sua decisione non costasse la vita a Sherlock. Ad ogni modo, da solo, non sarebbe mai riuscito a raggiungere l’indirizzo che Moriarty gli aveva fornito.
“Bene.” L’uomo gli avvolse un braccio attorno ai fianchi, sollevandolo appena.
“Tua sorella è fortunata.” Riuscì a soffiare fuori il medico, prima di spostare la sua intera attenzione – in silenzio – sui propri passi.
“Anche il tuo amico.” Gli rispose l’altro, aiutandolo ad uscire dal vicolo.
 
***
 
Sherlock aprì la porta d’ingresso lentamente, cercando di farle fare meno rumore possibile mentre girava sui cardini.
L’ingresso, immerso nella penombra, era silenzioso, l’odore di John quasi del tutto assente.
Il detective rimase immobile qualche secondo, ascoltando il proprio corpo reagire al tepore presente in casa dopo ore trascorse per le strade di Londra con addosso solo la tuta.
La signora Hudson, viso teso e mano tremante, socchiuse la porta del proprio appartamento, emergendo dal buio illuminata della luce tenue proveniente dal corridoio dietro di lei.
Sherlock le lanciò un’occhiata interrogativa, inclinando la testa da un lato.
“Pensavo fosse John.” Gli disse la donna, con voce tesa, ed il detective corrugò la fronte, senza riuscire a capire.
“John non può rientrare a Baker Street, signora Hudson. Ed il motivo è semplice: non può uscirne, al momento.” Le rispose, con il tono di chi stesse esternando un’ovvietà.
L’anziana scosse la testa, rigida. “In realtà è uscito più di due ore fa, dopo avermi detto di chiudermi in casa…” Disse, portandosi due dita alle labbra, in un gesto confuso.
“Quello che sta dicendo è assurdo. Niente, mi creda, niente lo convincerebbe a…”
L’immagine di John - in piedi di fronte a lui, la scia carica di vergogna -  gli esplose davanti agli occhi, e Sherlock si bloccò, le parole ed il gesto annoiato della mano congelati dalla nascita di un pensiero.
“Dio, non può essere davvero tanto idiota!” Ringhiò, dirigendosi a passo svelto verso la porta della stanza interrata, seguito da una preoccupata signora Hudson, stretta nella propria vestaglia.
“Dov’è, dov’è, maledizione!” Sherlock diede un colpo al tavolo, spostandolo. La piastra appoggiata al vetrino del microscopio slittò di lato, rovesciandosi.
Il detective la guardò cadere con la coda dell’occhio, accovacciato sul pavimento, concentrato a rovistare tra i fogli a terra.
Dopo qualche attimo si bloccò, stringendo le dita attorno a quello che stava cercando.
Si alzò, girando il cellulare in modo da poterne vedere lo schermo.
Sei chiamate senza risposta, cinque di John ed una di Lestrade.
Sherlock sbloccò l’apparecchio e se lo portò all’orecchio, voltandosi velocemente verso la signora Hudson.
“Quanto tempo fa ha detto che è uscito?” Chiese, riattaccando con una mezza imprecazione.
“Erano circa le sei. Mi ha ordinato di chiudermi nel mio appartamento e se n’è andato.” Rispose la donna, con la voce malferma.
“Tutto qui? Non le ha detto dove stesse andando, o il motivo per il quale doveva rimanere in casa?” Domandò l’altro, facendo partire un’altra telefonata verso il numero di John.
La signora Hudson fece cenno di no col capo, nello sguardo un misto di ansia e senso di colpa.
“Ho provato a chiedere, ma-“ Iniziò, venendo interrotta dal passaggio del detective, passo veloce e testa china, diretto al piano di sopra.
“Sherlock!” Provò a chiamarlo, seguendolo fino alle scale. Lui sembrò non sentirla, e continuò a salire, quasi correndo.
Arrivato al primo piano,  svoltò a destra, inciampando nel primo gradino della rampa che portava alla stanza di John. Si rialzò in fretta, ignorando la fitta che gli aveva appena attraversato la caviglia sinistra.
Una volta in cima, trovò la porta spalancata e la stanza ingombra di un disordine concentrato principalmente attorno all’armadio e alla scrivania. Gli abiti erano quasi tutti a terra, gettati alla rinfusa nell’aria attorno alle ante. John doveva essersi inginocchiato a terra, buttandosi alle spalle quanto non gli era utile.
Sherlock analizzò i vestiti, cercando qualche indizio su cosa il medico avesse potuto cercare con tanta foga. Non potevano essere inibitori, perché li aveva gettati davanti ai suoi occhi nel gabinetto la sera dell’aggressione e non aveva più avuto occasioni per procurarsene di nuovi, anche volendo.
Il detective si avvicinò alla scrivania, osservando il cassetto sotto di essa aperto con tanta forza da essere uscito dalle guide. Passò le mani tra le carte, alzandole. Con rabbia le accartocciò e buttò a terra, grattando con le unghie contro il legno del fondo.
Fu allora che vide la scatola, nascosta da una serie di lettere tenute assieme con un piccolo cordoncino marrone. La tirò fuori, rovesciandone il contenuto sulla scrivania e contando velocemente, affannato.
Lasciò cadere il cartone vuoto a terra, contando ancora una volta.  Un caricatore da quindici cartucce pieno, più cinque proiettili sfusi.
Si chinò a terra, recuperando la scatola, finita su una pila di carte ammucchiate. Se la rigirò tra le mani, con foga, fino a trovare ciò che gli occorreva: “SIG Sauer P226 X-Five – 9x21 – 35C”.
Venti proiettili erano di fronte a lui. Altri quindici - un intero caricatore - era sparito, assieme alla pistola.
“Dannazione!” Ringhiò, aggrappandosi al bordo della scrivania con le mani, tanto forte da farsi sbiancare le nocche.
Chiuse gli occhi, cercando di valutare le varie possibilità.
John non era scappato da lui, non aveva alcun senso farlo con un’arma caricata con quindici proiettili. Doveva essersi sentito minacciato, o aver percepito un possibile pericolo per qualcuno. Aveva preso qualcosa dall’armadio, poi la pistola, ed era uscito, provando comunque a contattarlo più volte.
Sherlock si portò le mani alle tempie, cercando di concentrarsi. L’immagine di John, da solo all’esterno, continuava a presentarsi alla sua mente, distraendolo.
Perché lo aveva chiamato? Perché era in ginocchio davanti all’armadio?
Lo focalizzò in piedi, davanti a sé, ancora con pantaloncini e canottiera.
“Vorresti venire a cena?” Gli chiese il medico, con un sorriso.
“Non puoi uscire così. Ti attaccherebbero.” Sherlock allungò una mano verso di lui, cercando di sfiorarlo.
“Sono un militare Sherlock. Pensi davvero che uscirei così?” Gli rispose l’altro, improvvisamente a terra, seduto di fronte al proprio armadio, completamente vestito.
Il detective spalancò gli occhi, schiudendo la bocca.
Si era coperto. Il più possibile. Poi aveva preso la pistola.
Sherlock recuperò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e fece partire una chiamata, dirigendosi velocemente verso la porta, il telefono premuto contro l’orecchio.
“Fratello caro.” Lo salutò Mycroft, dopo un paio di squilli.
“Ho bisogno dei tuoi occhi, Mycroft.” Il detective scese le scale correndo, tenendosi con la mano libera alla parete. “John è uscito, devi dirmi dov’è.” Ansò appena, entrando in salotto.
Riattaccò e gettò il telefono sul divano, diretto con passo rapido in camera sua.
“La pistola, la pistola.” Cantilenò, le parole che uscivano dalle labbra socchiuse insieme al suo respiro affannoso.
Lanciò uno sguardo al letto, pronto a sollevare il materasso per recuperare l’arma, nascosta tra la rete e l’imbottitura.
La presenza del pacchetto, una macchia rosso sangue sulle lenzuola bianche, lo costrinse a fermarsi, già piegato in avanti, pronto a far leva con le braccia per sollevare tutto.
Lo osservò per qualche secondo, socchiudendo gli occhi.
Poi lo afferrò, scartandolo con gesti rapidi, violenti.
Aggrottò la fronte, rigirandosi il contenuto tra le mani, spaesato.
Un libro.
Ne osservò la copertina consunta, passandoci le dita sopra, attento.
Lo aprì, trovando una dedica scritta con grafia elegante.
 
Ti aspetto a casa.
 
Si portò il volume al viso, annusando la carta e l’inchiostro. Il libro era vecchio, consumato, ma la dedica no, quella aveva ancora l’odore tipico della china fresca.
Sherlock chiuse nuovamente il romanzo, per osservarne meglio l’immagine stampata sulla copertina.
Un uomo, in abiti eleganti, teneva davanti al viso una mano, in gesto di protezione. Poco sotto di lui, una donna dall’aria spaventata, si allontanava atterrita da una statuina bronzea, rilucente.
Perché gli sembrava così familiare? [1]
Sherlock si concentrò sul titolo, tentando di richiamare alla mente l’immagine che sentiva premere in qualche angolo nascosto dei propri ricordi.
“Ten little niggers.” Sussurrò, continuando a fissare l’immagine.
C’era qualcosa, qualcosa che non riusciva ad afferrare.
Dita conosciute, strette attorno a quei visi disegnati.
Chi era… Dove?
Quando?
 
“Cosa leggi?”
“Un libro giallo. Dovresti leggerlo, ti piacerebbe.”
 
Il ricordo esplose sotto ai suoi occhi, carico di ogni dettaglio dimenticato, creduto perso, cancellato dal Soma.
“Non ho tempo per questo, Victor.” Ringhiò, lanciando con rabbia il volume contro l’armadio, guardandolo poi cadere ed aprirsi, le pagine sollevate verso il soffitto in un urlo di carta e inchiostro.
Il detective tornò a voltarsi verso il letto, sollevando il materasso e spingendolo di lato fino a scoprire la pistola.
Si allungò sulla rete, ginocchia contro il metallo e dita della mano sinistra strette attorno alle sue maglie, la destra sollevata sopra l’arma.
L’afferrò e tornò in posizione eretta, controllando con un movimento veloce che fosse carica.
Si avvicinò alla porta, dando un’ultima occhiata al volume.
Come era finito sul suo letto? Victor era tornato a cercarlo, durante il pomeriggio? Poteva avere un collegamento con John e con la sua scelta?
Scostò con un piede le pagine sollevate, schiacciandole tra la suola ed il pavimento.
Qualcosa, appena sopra la punta della sua scarpa, attirò la sua attenzione, e si chinò per poter leggere meglio.
 “Cosa…” Riuscì a dire, sollevando il romanzo per un margine.
Rilesse più volte lo stesso punto, confuso.
Scorse all’indietro, arrivando fino alla prima pagina, dedicata alla presentazione dei personaggi principali.
Spalancò gli occhi, schiudendo le labbra in un’espressione sbigottita.
Uno dopo l’altro, nomi conosciuti si susseguivano, vicini come li aveva immaginati qualche giorno prima, durante una passeggiata nel suo Mind Palace.
Donne, uomini, di qualunque età e ceto.
Li ricordava perfettamente, uno ad uno.
Li conosceva.
L’ultimo, Henry Blore, era stato ripescato da una vasca dello zoo di Londra solo il giorno prima. [2]
“Cosa…” Boccheggiò nuovamente, continuando a muovere gli occhi sulla pagina ingiallita.
Nessun altro punto di contatto - a giudicare dalla loro descrizione - oltre al nome, tra le vittime ed i personaggi del romanzo, ad eccezione di “Lawrence John Wargrave”, giudice anche nell’opera. [3]
Il suono del suo cellulare, dal salotto, lo riportò in sé, e Sherlock si lasciò scivolare il libro tra le dita, correndo fuori dalla stanza.
“Dove.” Chiese, la voce ridotta ad un ringhio sordo.
“L’ultima immagine in nostro possesso lo colloca nei pressi della Church of the Immaculate Conception, Farm Street, circa quaranta minuti fa. Era insieme ad un uomo, e-“ Rispose Mycroft, con voce calma, venendo interrotto bruscamente da un sibilo di Sherlock, carico d’ira.
“Victor?!” Ringhiò il detective, cercando con gli occhi il cappotto. Non era possibile ancorare la pistola ai pantaloni della tuta, e aveva bisogno di tasche larghe dove riporla, durante la corsa che si stava preparando mentalmente a fare.
“Victor?” Ripeté il maggiore, un vago momento di incertezza nella voce.
“ERA VICTOR TREVOR L’UOMO CON LUI?!” Ruggì Sherlock, chiudendosi con gesti spezzati nel cappotto.
“Se è del tuo diletto compagno di giochi dell’adolescenza che parli, no, non era con lui.” Rispose l’altro, gelido. “Almeno che non sia divenuto più alto di circa venti centimetri negli untimi diciotto anni.” Aggiunse, con voce tagliente. “Sarebbe troppo chiedere cos-“
Sherlock chiuse la telefonata, lasciando il telefono cadere a terra.
Occhi neri e respiro pesante, uscì da la stanza.
Church of the Immaculate Conception distava solo poche centinaia di metri da Waverton Street, la strada dove aveva trascorso un mese intero lontano da casa, un’estate di molti anni prima.
John poteva essere con uno dei Beta di Victor, poteva…
Sherlock strinse le dita attorno all’impugnatura della pistola, impedendosi di concludere il pensiero, ed uscì da Baker Street senza voltarsi, lasciando la porta spalancata.
La signora Hudson, ancora in attesa ai piedi delle scale, lo vide passarle davanti senza riuscire a fermarlo. Lo seguì in strada, stringendosi con le dita la vestaglia attorno al collo, tentando di richiamarlo, terrorizzata, ma il detective era già lontano, impegnato in una corsa disperata.
 
Ti aspetto a casa”, aveva scritto Victor.
E lui aveva iniziato a correre, sperando di arrivare in tempo.
 
 
Note:
 
[1] Per chi si stesse chiedendo come sia possibile che Sherlock non ricordi ogni più piccolo particolare… Avete ragione, solitamente lo fa. Ma ho scritto più volte che tutto ciò che era legato a Victor era stato relegato in uno spazio isolato della sua mente, volutamente “intaccato” dall’assunzione del Soma proprio con l’intenzione di far affievolire il ricordo. È poi altrettanto vero che Sherlock non tenga nota di ogni cosa, soprattutto se da lui giudicata “inutile”. Si presume che un volume che quasi vent’anni prima aveva visto tra le mani di qualcuno che, oltretutto, sta tentando in tutti i modi di dimenticare, non sia tra le cose “vitali” da tenere a mente per il nostro detective.
[2] Gli omicidi sono stati rimaneggiati, ma seguono sempre la linea “generale” del romanzo di Agatha Christie (“Dieci piccoli indiani”, nella versione italiana.) Mi piacerebbe tantissimo analizzarli nello specifico uno ad uno con voi, ma sarebbe davvero complicato.
Quindi, a mero intento esplicativo, userò l’ultimo cadavere, Henry Blore: nel romanzo William Henry Blore (ex agente di polizia che ha intrapreso la carriera di investigatore privato) viene trovato con il cranio fracassato da un grande orologio a forma di orso.
Ci sarebbe poi da analizzare come un romanzo esistente possa essere inserito in un contesto AU come questo. Non avrebbe dovuto parlare, a sua volta, di Omega, Beta e Alpha? E se sì, come? Ho deciso di bypassare la questione, in modo piuttosto semplice: se noi scriviamo di loro, immagino che qualcuno (una fantomatica “Christie Alpha Plus”), possa immaginare di un mondo senza classi e scie, in modo da creare un romanzo dove non si riesca a capire chi sia il colpevole seguendone semplicemente l’odore “in giro per la villa.”
[3] Richiamandoci a quanto detto al punto due, diventa ora chiaro perché Jim dica al giudice:
“Non è niente di personale nei tuoi confronti. Semplicemente, tu sei il migliore che ho trovato. Anzi, lasciatelo dire: rasenti quasi la perfezione.”
 
Angolo dell’autrice:
 
Capitolo di passaggio, relativamente corto.
Mi premeva per prima cosa non abbandonare il ritmo di pubblicazione, quasi sempre attestatosi su i due capitoli la settimana.
Secondo poi, volevo che Sherlock (e noi con lui) arrivasse ad una prima (enorme) conclusione prima di giungere al cospetto di “Jim Moriarty”, così come mi premeva che fosse chiaro che nessuno lo aveva rapito.
Perché, almeno per me, uno Sherlock rapito è davvero l’ultima cosa che può accadere, e per farlo succedere deve esserci un contesto che lo consenta senza divenire assurdo.
Di base, nessuno rapisce Sherlock, nella serie. Mai. Magari viene un po’ strapazzato (e ringraziamo per questo “La Donna”), messo alle strette, ma mai reso inoffensivo e caricato di peso da qualche parte contro il proprio volere (se si esclude John che lo riporta a casa post Adler).
È sempre lui, in caso, ad infilarsi a piedi uniti nel pericolo.
Così lo vedo, così è stato rappresentato.
Un’ultima parola su Victor/Jim: mi sono permessa questo azzardo per due motivi: di Victor, anche nel canone, si dice molto poco, e quel poco è legato ad un passato lontano nel tempo di Sherlock. Cosa gli sia accaduto successivamente non è dato sapere. Di contro, di Jim Moriarty (nella serie, perché nei libri ha un background lievemente più definito) non sappiamo nulla del suo passato, della sua infanzia, della sua adolescenza, di cosa l’abbia reso ciò che è.
Ho quindi deciso di unire le due cose, dando a Jim “un motivo in più” (lo vedremo poi) e a Victor una valenza che vada oltre all’espediente letterario per far ingelosire John e spingerlo tra le braccia di Sherlock.
 
Come sempre grazie a tutti per aver letto fin qui, e per gli eventuali commenti.
Due capitoli alla fine. Siamo davvero vicini!
 
Un abbraccio,
B.
 
 
PS: vi aggiungo la copertina del romanzo nella versione da me usata per la storia. ^_^



PPS: Buona Pasqua! :D
   
 
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