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Autore: MelBlake    29/03/2016    7 recensioni
Sono passati sei anni da quando Clarke Griffin è partita per il college. Sei anni e un dolore autodistruttivo dovuto alla morte del padre di cui non è mai stato preso l’assassino.
A ventitré anni, Clarke fa ritorno a casa, ma non aveva immaginato che tornare nei luoghi della sua adolescenza avrebbe riportato di nuovo a galla tanti ricordi e tanto dolore.
Un dolore che pare esploderle dentro dopo l’incontro con l’unica persona ad averla vista nel suo momento peggiore, la notte dell’omicidio del padre.
Bellamy Blake è cambiato anche se Clarke non lo crede possibile e per questo, rimane diffidente come nei confronti di chiunque altro, tranne che degli amici più stretti.
Le cose cambiano quando, in città, arriva Lexa War: nuovo comandante di polizia e allora Clarke vede una speranza per riaprire il caso di suo padre. Ma la situazione è più complessa di quanto sembrasse all’inizio. Suo padre era morto in una rapina, o almeno così le era stato riferito.
Quanto a fondo sarà disposta a spingersi e quanto è disposta a rischiare pur di scoprire la verità? Soprattutto… quando capisce che adesso in ballo c’è anche la sua vita e ormai per tirarsi indietro è troppo tardi…
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 20: IT’S ABOUT TRUST




If I lay here
If I just lay here
Would you lie with me
And just forget the world?

Forget what we're told
Before we get too old
Show me a garden
That's bursting into life

All that I am
All that I ever was
Is here in your perfect eyes
They're all I can see

I don't know where
Confused about how as well
Just know that these things
Will never change for us at all



Se mi stendessi qui, se solo mi stendessi qui
Ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo?

Dimentica quello che ci è stato detto
Prima che diventiamo troppo vecchi
Mostrami un giardino dove esplode la vita

Tutto quello che sono
Tutto quello che sono sempre stata
È qui nei tuoi occhi perfetti,
Che sono tutto ciò che posso vedere

Non so dove
Sono confusa anche sul come
So solo che queste cose
Non cambieranno mai per tutti noi



Due giorni dopo la dimissione, Clarke si sentiva già molto meglio o forse era solo il fatto di avere Bellamy sempre intorno, non se lo sapeva ancora spiegare.

Ad ogni modo, insieme avevano ripreso le indagini a pieno ritmo, ma ancora né la polizia né nessun altro aveva idea di chi avesse potuto dare fuoco alla casa. La notizia ovviamente era arrivata anche ad Abby e la donna aveva preso il primo aereo per tornare a New York e convincere in tutti i modi la figlia a trasferirsi in Texas insieme a lei e Marcus, ma Clarke era stata irremovibile, restando ferma sulle sue decisioni.

Inoltre l’idea di non vedere più Bellamy non riusciva nemmeno a considerarla.

Il destino a volte sapeva essere davvero buffo. All’inizio si odiavano, poi l’odio si era tramutato in una civile diffidenza, che a sua volta si era evoluta in una fiducia cieca sfociata in un sentimento che nessuno dei due sapeva controllare e che entrambi avevano tentato in tutti i modi di reprimere. Fino ad arrendersi all’evidenza dei fatti e cedere a ciò che realmente provavano.

Vivere sotto lo stesso tetto adesso era… strano. Inutile dire come sua madre non l’avesse presa bene non appena aveva scoperto che si era trasferita da Bellamy e non da uno dei suoi amici come Wells o Jasper, ma Clarke non si era fatta illusioni.

Bellamy Blake non era di certo il tipo di ragazzo che sua madre avrebbe voluto per lei, perché d’altra parte… Abby non lo conosceva affatto. Credeva che fosse ancora il tipo scapestrato dei tempi del liceo, mentre in realtà era totalmente cambiato.

Ad ogni modo a Clarke non importava perché era lei a conoscerlo davvero. Era lei a sapere attraverso cosa fosse dovuto passare per arrivare fino a quel punto e questo le piaceva. E le piaceva l’idea di essere la prima alla quale Bellamy ne avesse mai parlato, era come se in quel modo la fiducia già instaurata in precedenza si fosse definitivamente consolidata.

Inoltre, non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, adorava averlo vicino, adesso che era in ferie poi erano sempre chiusi a casa, anche perché il caldo soffocante di quell’estate era inclemente e non permetteva loro di uscire a fare qualche passeggiata se non di sera quando ormai il sole era calato.

In ogni caso con le attuali condizioni della caviglia di Clarke non si mettevano certo a fare grandi camminate, anche se comunque stava meglio.

Bellamy la obbligava al riposo forzato, le aveva sistemato vicino al letto un piccolo tavolo sul quale poggiare i libri dell’università che Jasper le aveva riportato dopo che era rimasta lì la notte in cui era stata a studiare da lui. La notte prima dell’incendio.

L’incendio… e tutto ciò che comportava.

La ragazza era ben consapevole del fatto che, una qualsiasi altra persona, probabilmente avrebbe avuto una paura terribile, specialmente dopo ciò che aveva detto Murphy, ma lei invece era tranquilla e determinata più che mai a scoprire la verità sull’omicidio di suo padre. Glielo doveva.

Studiava per il test d’ingresso alla specialistica di chirurgia tutta la mattina e il pomeriggio invece la sera lei e Bellamy andavano avanti con le loro indagini, mentre il giorno anche lui si preparava per l’esame da tenente.

Erano una buona squadra dopotutto… funzionavano come una macchina ben oliata.

Purtroppo non erano ancora riusciti a scoprire un granché però… Murphy aveva detto che per risalire al computer a cui il segnale era stato inviato tramite la richiesta del certificato di morte di Jake Griffin, ci sarebbe voluta un’attrezzatura che costava svariate migliaia di dollari.

Clarke avrebbe potuto mettere insieme la somma grazie ai soldi che suo padre le aveva lasciato se solo non fossero bruciati anche quelli nell’incendio. Decisamente la fortuna non era dalla loro parte.

Come se già quella situazione non fosse sufficiente, Clarke era nuovamente tornata a fissarsi sull’argomento “Timeless”, qualsiasi cosa volesse dire. Non sapeva cosa fosse, non sapeva cosa o dove cercare, ma era certa che una volta scoperto qualcosa su quella parola, allora sarebbe cambiato tutto. Ne aveva la certezza, ma il fatto di trovarsi completamente spaesata la faceva solo innervosire. Eppure le diceva qualcosa, se lo sentiva. Qualcosa di collegato a suo padre, come se fosse avvenuto quella che a lei pareva una vita prima.

Strinse a tal punto la matita che aveva in mano che quella si spezzò con uno schiocco sordo e una delle due metà saltò via dalla sua mano atterrando sul tappeto, senza il minimo rumore.

«Si può sapere che cosa ti ha fatto quella matita?» la voce di Bellamy arrivò alle sue orecchie con una nota divertita e Clarke scosse la testa come a riscuotersi da quei pensieri.

«Io… niente, stavo pensando».

«Sì, questo lo avevo capito. Clarke… cerca di rilassarti, d’accordo? Ne verremo a capo, te lo prometto».

«Ha a che vedere con “Timeless”, ne sono sicura! Però proprio non mi viene in mente ed è così frustrante».

«Ehi» a quel punto Bellamy si sedette accanto a lei sul letto, posandole le mani sulle spalle.

«Non pensarci adesso, concentrati sullo studio per ora. Clarke… per una volta lascia che sia io ad insegnarti qualcosa ed è una cosa che ho imparato a fare dopo… dopo mia madre, quando avevo la responsabilità di Octavia sulle mie spalle ed ero ancora un idiota immaturo che aveva capito ben poco della vita. Affronta le cose un passo per volta, non lasciare che ti sommergano, datti degli obiettivi. Va bene? Solo così riuscirai ad andare avanti senza impazzire e credimi che so esattamente quello che sto dicendo. Passo dopo passo e io sarò qui al tuo fianco. Siamo arrivati insieme fino a questo punto e lo finiremo insieme».

Nel parlare, probabilmente senza rendersene conto, Bellamy le aveva preso una mano e lei la strinse di rimando, poi sorrise.

«Grazie Bellamy».

Detto ciò, fece come il ragazzo le aveva suggerito e riprese a studiare, adesso un po’ più rilassata. Fu solo verso sera che si alzò dal letto per dirigersi verso la cucina. Voleva preparare qualcosa per Bellamy dato che in quei giorni si stava occupando lui praticamente di qualsiasi cosa, dunque ne approfittò mentre il ragazzo era sotto la doccia, anche se con la sua caviglia si ritrovò a saltellare per la stanza, una volta anche rischiando di finire per terra. Avere le stampelle era fastidioso e non vedeva l’ora che quella dannata settimana passasse.

Il moro la raggiunse mentre cercava di asciugarsi i capelli ancora umidi con un asciugamano.

«Ehi! Che stai facendo?».

«Preparo la cena, ovviamente».

«Clarke, ti avevo detto di… ».

«Senti Blake… » lo interruppe lei in tono perentorio e puntandogli contro il coltello con il quale stava affettando le verdure con aria fintamente minacciosa «… ho bisogno di fare qualcosa, non ne posso più di stare a letto e se proprio ti vuoi rendere utile… beh, puoi sempre apparecchiare la tavola».

Bellamy la squadrò con aria sorpresa.

«D’accordo Principessa, ai tuoi ordini» ma il suo sorrisetto tradiva un certo divertimento.

Quando tutto fu pronto Clarke prese posto mentre Bellamy portava il cibo in tavola.

«Pensavo che dovremmo cercare qualche informazione riguardo a quello specializzando… Jackson Sahel. Scoprire dove abita, andare a parlargli» disse Clarke nel bel mezzo della cena.

«Sì, in realtà lo avevo preso in considerazione anch’io».

«Ma…? Perché sento che sta per arrivare un ma… ».

«Ma non mi convince. E credo che la polizia non si stia dando abbastanza da fare per scoprire chi diavolo è stato ad appiccare l’incendio in casa tua. Quella Lexa non lo so… non mi convince nemmeno lei».

A quel punto la ragazza sospirò divertita.

«Dimmi un po’ signor Blake… c’è qualcosa di cui sei convinto?».

«Tu. Tu sei l’unica cosa di cui sono convinto. Tu e il fatto di volerti tenere al sicuro. È questione di fiducia Clarke e io diffido di qualunque altra cosa o persona eccetto te».

Quelle parole lasciarono Clarke interdetta per un momento e, non sapendo cosa fare, si limitò ad allungare una mano sul tavolo fino a prendere quella di Bellamy.

«Ehi… io sto bene. E sono certa del fatto che la polizia stia facendo tutto il possibile».

«Sì, stai bene perché Wells Jaha è stato tempestivo nell’avvisare il 911, altrimenti non saresti stata affatto bene. E uno di questi giorni dobbiamo andare a comprarti un cellulare nuovo».

«Non ne ho bisogno Bellamy».

«Stai scherzando spero. Clarke… lo capisci che qualcuno ha appiccato il fuoco in casa tua di proposito? Se dovesse succederti qualcos’altro?!».

Clarke capì dalla postura improvvisamente rigida del ragazzo e dal fatto che avesse alzato la voce che stava cominciando ad agitarsi.

«Bellamy, passiamo insieme ventiquattr’ore su ventiquattro, quindi a meno che tu non cerchi di soffocarmi nel sonno, e ti capirei, dubito che possa succedermi qualcosa visto che non mi hai mollata un attimo da quando sono tornata dall’ospedale… in senso buono».

Il padrone di casa mandò giù l’ultimo boccone rimasto nel piatto. Sembrava che volesse dire qualcosa, come se insieme a quell’ultimo pezzo di cena avesse ingoiato anche il suo orgoglio e Clarke ne ebbe conferma poco dopo quando lui parlò nuovamente.

«Sono morto di paura, Clarke. Ok? Quando ho realizzato che quell’indirizzo era il tuo indirizzo… ho creduto di averti persa. E ho pensato a mia madre e al fatto che avresti potuto morire come lei e ho detto “Ecco, ci siamo… l’hai persa Bellamy. L’hai persa perché non sei stato capace di proteggerla. Proprio come tua madre”».

Uno strano silenzio aleggiò nella stanza, interrotto poi dal tintinnio della forchetta che Clarke aveva lasciato cadere sul piatto prima di alzarsi dalla sedia e saltellare su un piede solo fino all’altra parte del tavolo, per poi sedersi in braccio a Bellamy, che la avvolse tra le sue braccia a livello della vita.

La bionda lo guardò intensamente prima di spostargli una ciocca ribelle di capelli che gli ricadeva davanti agli occhi.

«Non mi hai persa ed è inutile rimuginarci ancora sopra, d’accordo? E ciò che è accaduto a tua madre… è stato orribile sì, ma non è successo perché tu non sei stato capace di proteggerla. Bellamy… » voleva dirgli qualcosa di rassicurante, qualcosa che potesse aiutarlo a rendersi conto di che persona straordinaria fosse realmente, perché forse nemmeno lui lo capiva fino in fondo… ma lo era. Quel ragazzo era veramente magnifico e lei doveva proteggerlo. A qualsiasi costo.

Gli prese il volto tra le mani e lo baciò. Lo baciò sul serio, con trasporto, forse come non aveva mai fatto prima… quello era un bacio diverso dal solito, non dettato dall’impulsività o dalla carica elettrica di attrazione che, palesemente, c’era tra i due. Piuttosto, era un bacio pieno di promesse, di frasi non dette, di gesti che parlavano per loro, che facevano capire quanto realmente tenessero e significassero l’uno per l’altra.

Quando si staccarono, Clarke osservò gli occhi di Bellamy: neri come l’ossidiana, profondi come pozzi dei quali non si riusciva a scorgere la fine, tanto che per un momento ebbe l’impressione di perdervisi dentro.

Posò la sua fronte contro quella di lui e rimasero così per un minuto o due, poi fu il ragazzo a staccarsi per osservarla.

«Non voglio perderti».

«Non succederà. Te lo prometto».

Era già capitato, di rado, ma era capitato che Bellamy esternasse così apertamente i suoi sentimenti, tuttavia non in questo modo e Clarke era certa del fatto che non gli fosse costato poco. Proprio come lei per prima aveva fatto, anche Bellamy si era chiuso a riccio per via di ciò che la vita gli aveva riservato, eppure adesso aveva veramente dato un calcio al suo scudo, e forse anche al suo ego, dicendole quelle cose e lei non poté far altro che stringerlo a sé, una mano tra i suoi capelli e la testa di lui nell’incavo del suo collo.

Fu un momento perfetto, poi Clarke si rialzò.

«Ti do una mano a sistemare la cucina».

«Clarke, sei su una gamba sola, me ne occupo io. Tu potresti cominciare ad accendere il computer e cercare qualcosa su quel Jackson, che ne dici?».

A quelle parole annuì, ma d’altra parte sapeva che provare a convincerlo a farsi aiutare era una battaglia persa in partenza, dunque si avviò verso il portatile che avevano lasciato sul divano del salotto e fece ciò che Bellamy aveva suggerito.

Cercò su internet il nome del ragazzo, ma non venne fuori poi molto, nemmeno un indirizzo di riferimento, maledizione.

«Trovato qualcosa di interessante?».

«Niente di che… Jackson Sahel, nato ad Albuquerque, laureato a Stanford. Non molto altro e assolutamente niente che ci possa ricondurre a dove trovarlo adesso, sembra quasi che non voglia essere trovato».

«E magari è proprio così… ».

«Dici? Non lo so… sembra che sia tutto in regola».

«Forse devo chiamare il mio hacker per forzare un po’ le indagini… ».

A quel punto Clarke si voltò completamente verso di lui.

«Mi dirai mai l’identità di questo misterioso hacker?».

«Semplicemente non credo che saperla potrebbe aiutarti in qualche modo».

«Oh avanti, sono curiosa! Lo conosco?».

«Sei proprio testarda tu, eh?».

Clarke sfoderò il suo miglior sorriso angelico.

«Mi farai impazzire».

«Stai sviando il discorso, il che vuol dire che lo conosco».

«Dimmi un po’ Principessa… tu sei andata alla scuola di medicina o all’accademia di polizia? Perché negli interrogatori sembri piuttosto brava e anche a tuo agio, mettendo invece molto in difficoltà il malcapitato che metti sotto torchio».

Quelle parole fecero ridere la ragazza.

«Allora non sarebbe molto più facile per entrambi se me lo dicessi e basta?».

Bellamy alzò gli occhi al cielo.

«D’accordo, hai vinto» disse alzando le mani in segno di resa. «Si tratta di Murphy».

«Murphy. Aspetta… stiamo parlando di quel Murphy? John Murphy? Quello in galera per spaccio?».

«Proprio lui. Comunque è uscito di prigione e con i computer è sempre stato bravo».

«Sì, mi ricordo che ai tempi del liceo andava in aula informatica per hackerare i siti porno durante le lezioni che reputava troppo noiose per la sua attenzione… ossia quasi tutte a parte ginnastica, che immaginavo frequentasse così assiduamente per guardare le ragazze sculettare giocando a pallavolo».

A quelle parole Bellamy si mise a ridere.

«Avevo dimenticato questo dettaglio. È stato lui ad avvertirmi del segnale inviato dal computer del comune non appena il nome di tuo padre è stato digitato nel browser… è stato lui a mettermi in guardia. Credo che sia davvero cambiato, o almeno… non è più tanto stronzo com’era una volta».

«Mmm… questa storia mi sembra di averla già sentita… ».

Bellamy le lanciò una strana occhiata.

«Insinui qualcosa, Principessa?».

«Chi, io? Bellamy Blake, come puoi mai dubitare di me?» disse portandosi una mano al cuore col chiaro intento di prenderlo in giro.

«Se non avessi la caviglia in quelle condizioni, probabilmente adesso ti starei rincorrendo per tutta la casa».

«Sì, anche questa è una situazione che mi pare di aver già vissuto… dopo averti buttato giù dal divano una mattina perché mi facevi troppo caldo».

«Oh, intendi quella mattina in cui ti ho intrappolata nella doccia e ho aperto l’acqua?».

«Sì, proprio quella mattina… in cui dopo che sostanzialmente non mi era rimasto molto addosso da potermi coprire è arrivato il tuo migliore amico».

L’espressione divertita e maliziosa di Bellamy scomparve all’istante, sostituita subito da uno sguardo di traverso.

«Quello non è stato divertente».

«Ma non mi dire… e io che pensavo di sì».

Di nuovo, si beccò un’occhiataccia dal padrone di casa, che in un attimo aveva già posato il computer per terra e adesso la sovrastava.

«Il mio concetto di divertente è qualcosa di molto diverso dal mio migliore amico che ti vede mezza nuda. Avrei voluto rompergli il naso per essersi presentato per l’ennesima volta a casa mia senza avvisare».

«Beh, allora tu dovresti davvero imparare a chiudere la porta, mio caro» rispose Clarke fissandolo con un misto di divertimento e sfida negli occhi.

«Griffin?».

«Sì?».

«Sta’ un po’ zitta» e detto questo si chinò a baciarla.

«Bellamy… dovremmo continuare a cercare informazioni» disse mentre lui cercava di zittirla tra un bacio e l’altro.

«Veramente adesso sono impegnato di qualcosa che preferisco decisamente di più».

«Ma… ».

«Sssh».

Alla ragazza non rimase che cedere e non vi fu mai resa più dolce. Le labbra di Bellamy sulle sue erano un incastro meraviglioso, tutto, quando lui la baciava, sembrava perfetto anche se Clarke sapeva benissimo che in quella situazione c’era ben poco di perfetto, ma se non altro, in quei brevi momenti, tutti i problemi sembravano sparire.

Furono interrotti dal sonoro squillo del telefono fisso, ma Bellamy lo ignorò, continuando a baciarla, finché quel trillo fastidioso non cessò. Purtroppo, non ebbero fortuna perché ricominciò subito dopo e lui si staccò con un verso contrariato per andare a rispondere.

Clarke lo osservò mentre si allontanava, con sguardo assorto.

«Pronto?» lo sentì dire come se fosse molto più lontano di quanto era in realtà.

Lui annuì un paio di volte per poi avvicinarsi e passarle il telefono.

«È tua madre».

La ragazza sgranò gli occhi, poi si ricordò che le avevano lasciato il numero di casa dato che il suo cellulare era bruciato insieme a… beh… praticamente insieme a tutto il resto.

Era una vera fortuna che quella notte Clarke avesse lasciato i documenti da Bellamy e i libri di studio da Jasper, se fossero bruciati anche quelli sarebbe stata persa.

I documenti per via delle indagini e i libri…beh, avrebbe perso gli ultimi sei anni della sua vita tra appunti e manuali, non poteva neanche pensarci. Per fortuna, nella disgrazia, almeno in parte le era andata bene.

«Mamma?» rispose cercando di non far trapelare il suo tono stranito e contrariato al contempo per aver chiamato proprio in quel momento.

«Clarke! Finalmente… ».

«Cosa c’è? È successo qualcosa?».

«È successo qualcosa? A parte casa nostra che è bruciata con te dentro intendi? Beh, no, a parte quello direi che volevo soltanto controllare che stessi bene dato che oltre che essere scampata alla morte per un soffio hai deciso di trasferirti a casa di un teppista!».

«Mamma!» esclamò con stizza, sperando che Bellamy, poggiato con una spalla allo stipite della porta, non avesse sentito il tono alterato di sua madre.

«Senti Clarke, perché non puoi semplicemente andare da Jasper? Lui ti vuole bene e non avrebbe certo problemi di spazio».

La ragazza si massaggiò le tempie con aria stanca, lanciando poi un’occhiata incerta a Bellamy.

«Io sto bene qui» tagliò corto e, prima che sua madre potesse aggiungere qualcosa continuò: «E adesso scusa, ma Bellamy e io abbiamo da fare. Buona serata, salutami Marcus» detto ciò, premette il pulsante di fine chiamata.

«C’è qualche problema Principessa?».

«È mia madre il problema. Pare che abbia deciso di diventare una mamma premurosa con qualche anno di ritardo. Senza contare che probabilmente è direttamente coinvolta nell’omicidio di mio padre».

Lei sbuffò sonoramente e Bellamy prese di nuovo posto al suo fianco.

«Ne verremo a capo Clarke. Te lo prometto, ok? Anzi, adesso sento Murphy e gli dico di cercare qualcosa su Sahel. Torno subito».

Così Clarke attese, la testa tra le mani e ancora la rabbia nelle vene per le parole di sua madre. Bellamy tornò qualche minuto dopo.

«Murphy si metterà al lavoro domani».

«D’accordo» rispose lei in tono piatto.

«Clarke? Se il tuo malumore è dovuto a qualcosa che tua madre ti ha detto su di me lascia stare, ok? Davvero, lei può pensare quello che vuole, a me non importa. Mi interessa soltanto di quello che pensi tu».

«Beh, importa a me! Non voglio che ti veda come un criminale».

«La mia Principessa ha tirato fuori gli artigli, eh?» disse passandole un braccio intorno alle spalle con un sorriso. «Avanti, non farne un dramma. Forse prima o poi cambierà idea».

La ragazza sospirò pesantemente.

«Ci vorrebbe un vero miracolo per farle cambiare idea. Dovresti… non lo so, compiere un gesto eroico o qualcosa di simile».

«Non me ne credi capace? Un giorno ti sorprenderò».

«Io sì, lei è il problema».

«Allora un giorno sorprenderò anche lei».

Solo a quel punto Clarke riuscì a sorridere.

«Avanti, riprendiamo a controllare quei documenti, mi mancano poche pagine da vedere ormai».

«Sissignora».

Così i due ragazzi ricominciarono da dove avevano lasciato, quando ad un tratto Clarke aggrottò la fronte, confusa.

«Ehi… trovato qualcosa?» la voce di Bellamy la distrasse.

«È… non lo so, non capisco. Ti ricordi quando ti avevo detto che probabilmente si trattava di una sperimentazione per un nuovo farmaco?».

«Sì».

«Non ne sono più tanto sicura. Ci sono parecchi dati genetici, studi del genoma, mi sembra troppo… incentrato sul DNA per essere un lavoro su un nuovo tipo di farmaco».

«Principessa… questo è il tuo campo, io ammetto la mia ignoranza in materia. Ti posso aiutare, ma non sono la persona giusta a cui chiedere conferme o meno. Forse Octavia potrebbe… ».

«Assolutamente no Bellamy. Non per Octavia, io mi fido di lei, ma non voglio coinvolgerla. Non voglio metterla in pericolo inutilmente come ho fatto con te».

«Tu non mi hai messo in pericolo».

«L’ho fatto eccome invece e tutta questa situazione lo dimostra. Bellamy, tu mi sei d’aiuto e non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto ciò che hai fatto per me, ma non puoi negare che sia pericoloso. Lo è e lo sai benissimo anche tu. Fidati, meno persone sanno di questa storia, meglio sarà per tutti».

«Sì, hai ragione, però così non so proprio come aiutarti».

La bionda si passò una mano tra i capelli.

«Nemmeno io ad essere onesti. Di genetica ne so poco, mio padre… lui era un vero genio, tutto quello che so fare io è… tagliare, riparare quello che non funziona e ricucire».

«E ti sembra poco? Tu puoi salvare vite Clarke. Non tutti possono dire di saper fare una cosa del genere».

«Tu lo fai».

«È diverso».

«No, per niente. Tu hai salvato me».

Un silenzio elettrico aleggiò nella stanza per qualche istante prima che Clarke posasse una mano sul volto di Bellamy, lanciandogli uno sguardo carico di significato.

«Allora Clarke… cosa facciamo adesso? Hai un’idea di cosa potesse essere se non lo studio di un farmaco?».

«Beh… i dati provengono senza alcun dubbio da DNA umano. Forse una mutazione, ma non lo posso dire con certezza. Avrei dovuto stare più attenta durante le lezioni di genetica» disse con uno sbuffo.

«Attenta a non farti scoppiare il cervello però, eh Principessa?».

«Al momento il mio cervello è totalmente inutile».

«Clarke? Piantala. E poi… » ma il ragazzo venne interrotto da una palla di pelo bianco che sfrecciò tra di loro con un sonoro miagolio.

«Dannazione. È tornato ad essere uno psicopatico adesso, un giorno o l’altro finirà o con me che morirò d’infarto o con lui nel mio forno».

A quelle parole Clarke si mise a ridere, accarezzando con leggerezza il pelo di Yeti.

«Non dargli dello psicopatico, altrimenti si offende».

Bellamy la guardò come se improvvisamente fosse impazzita e forse lo era anche. Sentiva come se quella situazione la stesse davvero per portare alla follia e per un momento si rabbuiò, ma non voleva farlo capire al ragazzo che le stava accanto, dunque si stampò in fretta un sorriso in faccia e fece finta di niente.

«È tutto a posto Principessa?».

«Tutto bene sì» come al solito Bellamy si era accorto però che qualcosa non andava. «È solo… frustrante. Insomma, non riesco a capirne il senso, non ho le informazioni che mi servono! E ora che ho capito che si tratta di qualcosa più a livello genetico piuttosto che farmacologico avrei potuto consultare i libri di mio padre… se solo non fossero andati distrutti insieme a tutto il resto. Vorrei semplicemente parlare con qualcuno che ne sa più di me» la ragazza emise uno sbuffo, sul volto un sorriso triste. «Vorrei parlare con mio padre».

Bellamy le prese una mano.

«Lo so Clarke. Credimi, anch’io penso tutti i giorni a mia madre e penso che vorrei vederla almeno un’ultima volta, avere l’occasione di salutarla, di dirle quanto fosse importante per me, ma purtroppo la vita è così e per quanto ci piaccia credere il contrario, non ne avremo mai il pieno controllo. È tutto un insieme di avvenimenti, di momenti che non solo vengono definiti da noi, ma anche dagli altri. Persone che magari non conosciamo nemmeno, ma che in un momento possono ribaltare il corso della nostra vita. È una spirale e noi siamo presi dentro, possiamo controllare la direzione forse, però se succede un incidente… non c’è poi molto che si possa fare a parte contenere il danno, se possibile. Non dico di lasciarsi trasportare dalla corrente per inerzia, ma… essere dei maniaci del controllo di certo non aiuta e non serve a niente».

«Bellamy Blake… da quando sei diventato un filosofo?» chiese Clarke dopo un momento di silenzio e lui si aprì in un sorriso rilassato.

«Oh sai… ogni tanto capita anche a me di dire qualcosa di sensato».

Ora sorrise anche lei, poi si alzò.

«Direi che per stasera non faremo più molto, non prima di avere le informazioni da Murphy… che ne dici di andare al pub?».

Bellamy la guardò sorpreso.

«Davvero? Vuoi andare al pub? Ma la tua caviglia… ».

«Bellamy, sto bene! Non è neanche rotta, è soltanto una distorsione che in un paio di giorni passerà e poi ho le stampelle. Non ho proposto di andare a fare una scalata in montagna. È da quando sono stata dimessa che praticamente non esco di casa e mi annoio a morte, insomma… tra lo studio e le indagini non faccio altro praticamente. Ho solo bisogno di distrarmi un po’».

A quelle parole lui le sorrise. «D’accordo allora. Vai a prepararti Principessa, io metto via qui e andiamo».

«Perfetto!».

Clarke si diresse il più velocemente che poteva verso la stanza di Bellamy per cambiarsi. A dire il vero avrebbe anche dovuto andare a comprare dei vestiti nuovi dal momento che quelli che aveva adesso erano di Monroe, ma per ora andavano bene.

Bellamy le aveva promesso un pomeriggio di shopping non appena si fosse rimessa del tutto.

Così indossò una camicetta a quadri con le mezze maniche e un paio di shorts prima di tornare in salotto dove lui la stava aspettando e dopo un minuto erano già in macchina diretti al pub.

Il locale era affollato come sempre e i due dovettero sgomitare un po’ prima di arrivare al bancone. Bellamy le cingeva la vita con un braccio e un tipo solitario seduto a bere una birra, dopo aver lanciato uno sguardo alle sue stampelle, le lasciò lo sgabello sul quale era seduto. Clarke gli sorrise e Bellamy gli rivolse un cenno di ringraziamento con il capo mentre quello spariva tra la folla.

«Ogni tanto qualcuno di gentile si trova ancora a quanto pare» disse Clarke prendendo posto.

«Già, ancora capita».

«Mi dispiace che tu sia rimasto in piedi però».

«Non è un problema, non ti preoccupare per me».

«Ciao ragazzi!» una voce alle loro spalle richiamò la loro attenzione.

«Raven!».

Bellamy andò ad abbracciare l’amica mentre Clarke le rivolse un sorriso cortese. Kyle era poco dietro di lei e li salutò riuscendo a sovrastare il fragore della musica.

Lei adorava quel pub, ma davvero se avessero tenuto il volume un po’ più basso non sarebbe stato affatto male.

I quattro ragazzi ordinarono da bere e Clarke rimase stupita nel vedere quanto fosse bella e sincera l’amicizia che legava Bellamy e Raven. I due continuavano a insultarsi e mandare frecciatine velenose l’uno all’altra, ma lo facevano in modo così disarmante che non potevi fare altro che guardarli e sorridere.

Era felice del fatto che Bellamy avesse avuto qualcuno di esterno alla sua famiglia in tutti quegli anni. Certo, c’era stato anche Atom, ma per qualche ragione era convinta del fatto che con Raven fosse diverso.

Sapeva che anche lei non aveva avuto una vita facile, sebbene non conoscesse i dettagli, poi c’era stato Finn che sì, l’aveva amata, ma poi l’aveva anche tradita. Aveva tradito entrambe, ferendole e dileguandosi.

Non erano state molte le volte in cui aveva visto Raven sorridere, ma adesso stava sorridendo davvero, insieme a Bellamy e vederli le scaldò il cuore. Aveva provato una fitta di gelosia nei confronti della ragazza, quella sera quando si erano messi a giocare al gioco della bottiglia nel magazzino del pub, ma adesso aveva capito che non c’era nulla di cui essere gelosi. Il loro sentimento era forte, era vero, ma non andava oltre l’amicizia e questo lo capiva.

Fece due chiacchiere con Kyle e scoprì che anche lui, proprio come Raven, era un ingegnere. Era molto intelligente e simpatico e parlargli fu davvero piacevole.

I quattro si salutarono verso mezzanotte, tornando ognuno sulla propria strada.

«Scusa se ti ho un po’ trascurata stasera, ma era davvero un pezzo che non passavo una serata con Raven, spero che… ».

«Ehi, è tutto a posto» lo interruppe Clarke. «Non devi giustificarti con me e capisco cosa voglia dire non vedere i tuoi più vecchi amici da tempo. Per me è stato così quando sono tornata da Harvard, quindi davvero… tranquillo».

Lui le sorrise, prendendole una mano e stringendola anche nonostante dovesse cambiare le marce dell’auto. Le teneva la mano sulla leva del cambio, un gesto spontaneo per lui, ma che la stupì. O più che altro fu la naturalezza con cui lo fece che la sorprese.

La ragazza si lasciò andare più rilassata contro il sedile e dopo un po’ arrivarono a casa.

La stanchezza adesso cominciava a sentirsi e Clarke andò direttamente in bagno per prepararsi per andare a dormire.

Quando arrivò in camera, Bellamy era sdraiato a letto, a petto nudo e con un paio di pantaloni larghi che gli arrivavano al ginocchio.

Clarke deglutì, nonostante tutto il suo corpo continuava a farle quell’effetto.

«Non essere timida Principessa e comunque dovresti ringraziarmi, di solito dormo in boxer, ho messo i pantaloni solo per decenza nei tuoi confronti».

A quelle parole la ragazza sentì il viso andarle a fuoco e si maledisse.

«Io non ho detto niente Blake».

«Beh… diciamo che la tua faccia parla da sé».

Lei lo fulminò.

Bellamy aveva dormito sul divano nelle ultime due sere, da quando lei era stata dimessa dall’ospedale, ma si era sentita troppo in colpa per continuare, dunque lo aveva praticamente minacciato che se non fosse tornato a dormire a letto si sarebbe trasferita da Jasper, cosa che Bellamy non aveva preso affatto bene.

Ad ogni modo ormai era fatta e non avrebbe più potuto tirarsi indietro.

Prese un profondo respiro e si avvicinò, scostando il lenzuolo e distendendosi sul materasso.

Anche da quella distanza riusciva a sentire il calore del corpo di Bellamy. Che diavolo, non era la prima volta che dormivano insieme, era successo anche quando lui si era presentato a casa sua febbricitante, o la sera in cui avevano dormito entrambi sul divano, eppure adesso aveva la tachicardia.

Si distese su un fianco e osservò il ragazzo dritto negli occhi.

«C’è qualcosa che mi vuoi dire Principessa?».

«Smettila di chiamarmi “principessa”» disse con un’occhiataccia.

«Mai».

Clarke sbuffò, mettendosi a pancia in su con aria seccata.

«Sei proprio un idiota».

«Ehi!».

Bellamy si vendicò dandole un pizzicotto su un fianco e facendola saltare.

«Dannazione!».

La sua esclamazione stizzita lo fece scoppiare a ridere.

«È ora di dormire adesso».

«Bellamy, non ho due anni».

«Ma i medici hanno detto che devi riposare se vuoi recuperare più in fretta, quindi… niente storie e dormi».

Lei sbuffò nel momento in cui il ragazzo spense la luce.

Il silenzio aleggiò per qualche momento e Clarke deglutì di nuovo a vuoto. Sentiva Bellamy accanto a sé e la sua presenza era così reale da travolgerla con la potenza di un treno. Se ne stupiva continuamente, ma lui era lì per lei e nonostante tutto lo scombussolamento che gli aveva portato nella vita, non sembrava volersene andare.

La ragazza fece l’unica cosa che le venne in mente in quel momento: cercò la sua mano e la strinse. Nel buio, sentì la testa di Bellamy voltarsi verso di lei.

«È tutto a posto Clarke. Ci sono qui io».

Lei annuì.

«Lo so».

Clarke sentì il materasso cedere sotto il peso del corpo di Bellamy che si sporgeva verso di lei, poi una delle sue mani trovò il suo mento e lo sollevò leggermente, finché le loro labbra si sfiorarono.

Il contatto, dapprima lieve, si fece ben presto più intenso finché il corpo di Bellamy quasi non si ritrovò completamente sopra il suo e una mano di lui s’insinuò sotto la sua canottiera.

Clarke lo strinse a sé con forza, continuando a baciarlo con passione e, si rese conto, non erano mai stati così vicini e così svestiti prima di allora. Affondò una mano tra i capelli del ragazzo, tirandolo maggiormente a sé e lui si arpionò ai suoi fianchi; Clarke riusciva a sentire quanto si stesse trattenendo, infatti, poco dopo, il ragazzo si staccò quasi con violenza.

«Dio… Clarke, è davvero meglio che mi fermi prima che non risponda più delle mie azioni».

Lei, ancora scombussolata e ansante, si tirò un po’ più su sul letto.

«Forse è meglio che ci dorma io sul divano».

«No. Senti, posso trattenermi, non preoccuparti di questo. Devo solo… non baciarti».

La ragazza emise una mezza risata sommessa.

«Non posso garantire io però di riuscire a non baciare te».

«Principessa… » e qui Clarke riuscì a sentire tutta la malizia nella sua voce. «… pensavo di essere io il depravato nella coppia».

Un momento… coppia? Quella parola era veramente uscita dalle sue labbra?

Anche Bellamy parve rendersene conto con un attimo di ritardo perché Clarke lo sentì irrigidirsi al suo fianco.

«Io… ».

«Bellamy… » i due cominciarono contemporaneamente, interrompendosi poi con un sorriso, finché non fu lui a riprendere parola.

«Possiamo essere quello che vogliamo Clarke, non è necessario che definiamo cosa essere in modo che sia ufficiale, passami il termine, non so se stai capendo quello che voglio dire. La cosa che conta, almeno per me, è ciò che provo, per il resto… beh, quando saremo pronti con il tempo verrà. Io so cosa sento e questo basta».

Nel buio Clarke sorrise e si avvicinò maggiormente al ragazzo, posando la testa contro il suo petto. Era perfetto, così distesa al suo fianco, nonostante tutto, sembrava che i suoi problemi fossero svaniti.

Lui la circondò poco dopo con le sue braccia e Clarke si lasciò andare, sprofondando in una dimensione che non aveva tempo, fluttuando nel vuoto.

Quella notte si addormentò così: la mente sgombra da qualsiasi pensiero e il battito del cuore di Bellamy nelle orecchie.



Never opened myself this way
Life is ours, we live it our way
All these words I don't just say
And nothing else matters

Trust I seek and I find in you
Every day for us something new
Open mind for a different view
And nothing else matters



Non mi sono mai aperto in questo modo
La vita è nostra, la viviamo a modo nostro
Non è solo per dire tutte queste parole
E non importa nient'altro

Fidati, io cerco e trovo in te
Ogni giorno per noi è qualcosa di nuovo
Mente aperta per un modo diverso di vedere le cose
E non importa nient'altro



La mattina dopo, quando Bellamy riaprì gli occhi, Clarke era ancora stretta a lui, nella stessa posizione in cui si era addormentata e le sue braccia le cingevano ancora il corpo. Quella notte non aveva avuto alcun incubo, altrimenti lui se ne sarebbe accorto.

Sorrise, sospirando tra i suoi capelli e accarezzandoli lievemente, poi, per non svegliarla, si sfilò silenzioso e agile come un gatto, lanciando uno sguardo alla radiosveglia: le nove passate da pochi minuti. I negozi dovevano già essere aperti a quell’ora e un’idea balenò nella sua mente.

Il ragazzo non perse tempo e si vestì in fretta, infilò il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni e si diresse rapidamente verso l’ingresso, chiudendo la porta dietro di sé. Non voleva stare via molto e soprattutto voleva tornare prima che Clarke si svegliasse.

Percorse a passo svelto un paio di isolati fino ad arrivare di fronte ad un negozio che vendeva articoli da cartoleria e da disegno e comprò un blocco immacolato e carboncini per Clarke.

Dato che la sera prima la ragazza aveva detto che non riusciva a fare qualcosa che le piacesse dal momento in cui era totalmente assorbita dallo studio e dalle indagini, in quel modo avrebbe almeno potuto distrarsi un po’ facendo qualcosa che amava.

Pagò tutto e tornò sui suoi passi, dirigendosi nuovamente verso casa. Una volta arrivato, constatò che Clarke stava dormendo; nonostante tutto doveva essere ancora stanca sebbene cercasse di nasconderlo.

Lasciò gli acquisti sul cuscino accanto a quello della ragazza e scarabocchiò velocemente un biglietto: “Per quando avrai voglia di dimenticarti del mondo”, dopodiché uscì dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.

Aveva fame, ma voleva aspettare che Clarke si svegliasse prima di fare colazione, non che avesse problemi a farla due volte, ma nel frattempo decise che era meglio usare il tempo per studiare e prepararsi all’esame. Gli sembrava di avere la testa piena di informazioni, ma al contempo di non sapere abbastanza. Dio, il periodo di preparazione all’accademia non gli era mancato affatto, odiava gli esami. Come diavolo aveva fatto Clarke a sopportare sei anni di stress universitario? Lui non ci sarebbe mai riuscito.

Da una parte studiare gli piaceva, anzi, la cosa era diversa: gli piaceva imparare sempre di più riguardo al suo lavoro, quello che detestava era l’ansia da esami. Che diavolo di senso aveva? Si era sempre ritenuto bravo nel suo mestiere, non aveva mai fatto casini, ma capiva che per diventare tenente questo non sarebbe bastato. Avrebbe avuto la responsabilità di una squadra e non poteva permettersi il minimo errore.

Rimase concentrato con la testa china sul libro finché non venne distratto da qualcosa di morbido sul suo collo. Clarke. O meglio… le sue labbra.

Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia.

«Buongiorno» mormorò la ragazza sulla sua pelle.

«A te Principessa» rispose lui con un sorriso idiota stampato in volto. «Ti è piaciuto il mio regalo? Non è molto, ma è qualcosa».

«Lo adoro, non dovevi disturbarti».

«Nessun disturbo. Che ne dici di fare colazione? Io sto morendo di fame e se non metto qualcosa nello stomaco potrei finire col mangiare te».

Clarke gli lanciò uno sguardo che non seppe come decifrare.

«Chissà… potrebbe anche essere divertente» rispose facendogli l’occhiolino e lui sgranò gli occhi, colto alla sprovvista.

«Clarke… non mi provocare».

Lei gli rivolse un’occhiata così penetrante che lo stomaco di Bellamy sprofondò in basso, aggrovigliandosi.

«Come vuoi signor Futuro Tenente».

«Senti signora Futuro Chirurgo… io sto cercando di comportarmi bene. Non mi rendere il lavoro difficile».

Il sorriso che si aprì sul volto di Clarke stavolta era genuino e la ragazza gli porse una mano.

«Allora andiamo a fare colazione».

Bellamy l’afferrò e la seguì in cucina. La ragazza zoppicava ancora, ma lui non disse niente, era preoccupato, ma non voleva nemmeno risultare pressante. Sapeva quanto Clarke tenesse alla sua indipendenza e capiva che quella situazione per lei doveva essere frustrante, soprattutto se aggiunta ai pochi risultati che stavano avendo sulle indagini. Riguardo a questo poi erano molto simili… anche lui detestava farsi male e detestava la gente che di conseguenza gli stava troppo addosso.

In cucina mangiarono chiacchierando con leggerezza e una volta tanto fu bello dimenticarsi di tutta quella situazione. La cosa cambiò quando il ragazzo udì il suo cellulare squillare. Era Murphy.

«Pronto?».

«L’unica cosa che sono riuscito a trovare è stato l’indirizzo di Jackson Sahel di quasi sette anni fa, ora so per certo che non abita più lì» disse senza prendersi nemmeno il disturbo di salutare.

Bellamy fece mente locale per un secondo… quasi sette anni prima coincideva più o meno con il periodo della morte di Jake e quello se non altro era pur sempre un tentativo invece che restarsene con le mani in mano. Per quel giorno avrebbe rimandato lo studio.

«Aspettami, sto arrivando» e detto questo riagganciò.

«Era Murphy?» chiese subito Clarke.

«Sì. Andiamo a vestirci Principessa, ha un indirizzo. È un po’ vecchio, ma è l’ultimo in cui sa per certo che abbia vissuto».

La ragazza annuì e si alzò dalla sedia.

Dopo dieci minuti erano già in macchina pronti a partire.

«Speriamo che non sia l’ennesimo buco nell’acqua» disse Clarke lasciandosi andare contro lo schienale del sedile.

Bellamy posò una mano sulla sua, senza dire nulla, poi mise in moto la macchina e partì silenziosamente.

La casa di Murphy era ancora fatiscente e apparentemente abbandonata come sembrava l’ultima volta, a quanto pareva il padrone non sembrava molto interessato a renderla un po’ più accogliente, ma Bellamy non se ne curò.

Attese che Clarke scendesse dall’auto e si incamminarono insieme verso l’ingresso, la porta era già aperta e il ragazzo non se ne stupì. Di certo a nessuno sano di mente sarebbe passato per la testa di andare a rubare in un posto del genere.

«Murphy?» chiamò entrando.

«Accomodati pure» disse lui con il suo solito sogghigno spuntando da una stanza sulla sinistra. «E guarda un po’… la principessa in persona!».

Bellamy serrò i pugni. Se solo l’avesse guardata in un modo che a lui non piaceva, gli avrebbe tirato un destro dritto nell’occhio.

Lanciò uno sguardo fugace a Clarke, che non sembrava particolarmente colpita da Murphy o dalla sua frase e dentro di sé Bellamy sorrise, consapevole del fatto che ci sarebbe voluto qualcosa di più per scalfirla.

«Ce l’hai o no qualcosa per noi?» con sua sorpresa, era stata proprio la bionda a parlare.

«Caspita… a te non piace proprio perdere tempo, eh? Mi ero dimenticato di questo lato del tuo carattere».

Bellamy serrò la mascella. Sì, lo avrebbe volentieri preso a pugni.

«Murphy… dacci quel dannato indirizzo».

L’altro gli lanciò uno strano sguardo di traverso, a metà tra l’irritato e il divertito, poi gli passò un biglietto con un indirizzo scarabocchiato sopra.

«È a Manhattan, su di lui non ho trovato nient’altro e inoltre ho come l’impressione che non voglia essere trovato. Non so cosa abbiate in mente di fare voi due, ma se fossi nei vostri panni non tirerei troppo la corda».

Quell’avvertimento lasciato in sospeso provocò uno strano brivido lungo la schiena di Bellamy.

«Grazie per il consiglio, lo terrò a mente» disse in tono sarcastico.

Per qualche istante aleggiò il silenzio prima che Murphy riprendesse parola.

«Cos’è allora? Voi due state insieme adesso?».

«Limitati a farti gli affari tuoi».

«Oh avanti! Sono curioso, davvero. L’ultima volta che ci siamo visti voi due riuscivate a malapena a stare nella stessa stanza senza saltarvi alla gola e adesso giocate a fare i piccoli detective? È un bel passo avanti».

Bellamy sbuffò rumorosamente, scuotendo la testa, poi voltò le spalle all’altro e fece cenno a Clarke di seguirlo.

«Ci sentiamo Murphy».

«Ehi! Mi aspettavo almeno un grazie!» gli urlò dietro lui, ma il tono era divertito.

Bellamy si affrettò ad uscire da lì, la testa immersa nei suoi pensieri e solo quando udì il passo vacillante di Clarke alle sue spalle si fermò di colpo, rischiando di farla sbattere contro la sua schiena.

«Scusami. Murphy possiede l’innato dono di farmi saltare i nervi dopo due secondi che stiamo nella stessa stanza».

«Mmm… più o meno come facevo io una volta. Non è che tra qualche anno mi dirai che hai cambiato sponda?».

A quelle parole, il moro le lanciò un’occhiata fulminante.

«Per questo faremo i conti quando torneremo a casa. Ora monta in macchina… si va a Manhattan».

Il viaggio fino a Manhattan fu tranquillo, impiegarono un paio d’ore per arrivare fino all’indirizzo segnato sul biglietto che Murphy gli aveva consegnato e fu solo quando Bellamy spense il motore che iniziò a pensare a come affrontare la cosa. Insomma… adesso probabilmente ci viveva qualcun altro lì; sarebbero semplicemente piombati in casa facendo domande sul precedente inquilino?

Si passò una mano tra i capelli, andando ad aprire la portiera di Clarke.

«Andiamo Principessa».

«Vuoi piantarla?!».

«No, dal momento in cui tu metti in dubbio la mia sessualità».

Quelle parole fecero scappare a Clarke una risata divertita, che Bellamy non apprezzò, poi si incamminarono verso il portone d’ingresso.

L’edificio era alto e ben tenuto, il parquet dell’ingresso tirato a lucido e la carta da parati che ricopriva le pareti contribuiva ad illuminare l’ambiente circostante, già immerso nella luce esterna che passava dalle vetrate.

Murphy aveva segnato anche il numero dell’appartamento, che facendo un paio di calcoli doveva trovarsi circa a metà dell’edificio, che aveva dodici piani in tutto.

I due ragazzi si diressero verso l’ascensore e Clarke schiacciò il pulsante con il numero 6 mentre un uomo sui trent’anni dall’aria distinta in un completo elegante bloccava le porte con la valigetta che teneva in una mano per entrare.

«Scusate» disse rivolgendo un sorriso a Clarke e, di riflesso, Bellamy le posò una mano sulla spalla.

L’uomo premette il pulsante con il numero 12 e posò momentaneamente a terra la sua valigetta, si sfilò la giacca nera e arrotolò fino al gomito le maniche della camicia che portava sotto, accaldato.

Bellamy si chiese come diavolo facesse a non essersi già sciolto con un caldo infernale come quello; lui era con una maglietta a mezze maniche e già sudava. Se non altro almeno nell’edificio c’erano i climatizzatori accesi.

L’ascensore emise un suono come di un campanello e lanciando una veloce occhiata al piccolo monitor che stava sopra la tastiera con i pulsanti dei piani, vide che erano arrivati a destinazione, dunque rivolse un breve cenno del capo all’uomo elegante e, circondando le spalle di Clarke con un braccio, fece qualche passo fino a trovarsi sul pianerottolo, ma, dopo averlo percorso sia a destra sia a sinistra, constatò che erano al livello sbagliato. Dovevano nuovamente scendere, probabilmente un piano sarebbe bastato.

Dovettero aspettare che l’ascensore arrivasse fino al dodicesimo piano prima di poterlo nuovamente chiamare; Bellamy non avrebbe avuto problemi a fare un piano di scale a piedi, ma la caviglia di Clarke non era dello stesso avviso. Quel giorno la ragazza aveva avuto la malaugurata idea di uscire senza stampelle visto che ormai era passata quasi una settimana da quando si era fatta male e lui non era riuscito a convincerla del contrario.

Fu Clarke a bussare quando arrivarono davanti alla porta giusta e attesero una decina di secondi prima di sentire dei passi avvicinarsi.

«Ciao».

Gradi occhi verdi, capelli ricci di un rosso mogano e corpo decisamente prosperoso, la ragazza che aprì doveva essere più o meno coetanea di Bellamy, forse pochi anni più grande e lui non mancò di notare l’occhiata interessata che gli lanciò non appena lo vide, cosa che parve infastidire Clarke, che si irrigidì al suo fianco.

«Ciao» ricambiò lui, scegliendo di usare lo stesso tono informale. «Ehm… stiamo cercando un certo Jackson Sahel, è un mio vecchio amico del college e questo è l’ultimo suo indirizzo a cui sono riuscito a risalire, ma… a quanto pare non vive più qui».

«Direi di no, io ormai vivo in questo posto da più di sei anni. Quando mi sono trasferita ho trovato qualcosa del vecchio affittuario, ma ai tempi consegnai tutto al proprietario dell’appartamento. Lo trovi al dodicesimo piano, interno 317, forse ti saprà dire qualcosa di più».

«Grazie per l’aiuto».

«Quando vuoi» disse facendogli l’occhiolino, lo sguardo lascivo.

Per qualche istante aleggiò il silenzio prima che la voce di Clarke lo interrompesse.

«Altri due minuti e ti avrebbe invitato a entrare».

Il suo tono, notò Bellamy, era gelido.

«Cosa c’è Clarke? Sei gelosa?».

«No» la risposta arrivò secca.

«Sicura?».

«Sì».

«Allora perché non mi dai un bacio?».

«Bussa di nuovo e fattelo dare da quella stronza tettona, sono convinta che ne sarebbe più che felice».

A quelle parole il ragazzo scoppiò a ridere.

«Vedo che non sei gelosa, proprio per niente» disse con un lieve ghigno che ancora gli increspava le labbra, cingendo la vita di Clarke e avvicinandosi per darle un bacio. Dapprima lei voltò la testa con aria offesa, poi Bellamy le prese il mento tra le dita per tenerla ferma e a quel punto la ragazza non ebbe più via di scampo, rilassandosi contro il petto di lui e ricambiando il bacio ad occhi chiusi. «E comunque ci sono due cose che dovresti sapere: innanzitutto le rosse non sono il mio tipo… e in secondo luogo, dici che lei è una tettona ma direi decisamente che tu non ti puoi certo lamentare» aggiunse poi.

In tutta risposta, lei lo colpì alla spalla con un pugno.

«Taci Blake… e andiamo al dodicesimo piano».

Il ragazzo preferì non ribattere e con un sorriso ancora divertito si incamminò nuovamente verso l’ascensore con un’imbronciata Clarke al suo fianco.

Non appena giunsero davanti l’appartamento 317 bussarono e, con loro sorpresa, fu l’uomo dell’ascensore ad aprire la porta, ma adesso era gocciolante e aveva un asciugamano legato in vita.

Di nuovo, l’individuo guardò Clarke con una strana intensità che a Bellamy non piacque e il ragazzo le si piazzò alle spalle con il chiaro intento di far intendere all’uomo che era già off limits.

«Posso aiutarvi?» chiese lui, che sembrava altrettanto stupito.

«Ehm… stiamo cercando un certo Jackson Sahel, viveva qui più o meno sei anni fa e un’inquilina del quinto piano ha detto che lei è il proprietario dell’appartamento» spiegò brevemente Clarke.

«Dovete chiedere a mio padre, abita nell’appartamento 319. Scusate, si confondono tutti».

«No… ci scusi lei per il disturbo».

«Nessun disturbo» disse lui con un ultimo sguardo carico di significato, prima che Bellamy trascinasse via Clarke senza un’altra parola.

«Ehi, chi è il geloso adesso?».

«Proprio nessuno» disse lui in tono gelido e, con la coda dell’occhio, vide Clarke reprimere a stento un sorriso. Probabilmente in quel momento stava pensando “così impari”, ma lui si sforzò di scacciare quel pensiero.

Di nuovo, bussarono alla porta, e stavolta fu un signore abbastanza avanti con gli anni ad aprire. Brevemente, gli spiegarono la situazione e lui rispose che sì, ricordava Jackson, dicendo poi di aspettare e che sarebbe andato a recuperare le scatole con i suoi effetti personali portate dall’attuale inquilina.

«Era un bravo ragazzo. Uno studente di medicina se non sbaglio, sempre educato e puntuale con l’affitto, non creava problemi. E poi da un giorno all’altro mi ha detto che se ne andava. Era il 19 novembre. Me lo ricordo perché quel giorno è il compleanno di mia figlia. Da allora non ne ho più saputo niente, non mi ha detto dove sarebbe andato».

Bellamy lanciò una veloce occhiata a Clarke e riuscì a capire dal suo sguardo che le stava frullando in testa qualcosa.

I due ragazzi ringraziarono l’uomo e tornarono verso l’ascensore, Bellamy reggendo tra le braccia i due scatoloni.

«A che pensi Principessa?».

«Alla data… il 19 novembre è due giorni dopo la morte di mio padre. A quanto pare se l’è filata via alla svelta».

«Credi che sia coinvolto?».

«Beh, di certo deve aver avuto una parte… era in sala operatoria quella notte e due giorni dopo lascia l’appartamento e sparisce? No, c’è sotto qualcosa».

Bellamy sospirò.

«Allora direi di portare questa roba in macchina e andare a casa. Magari tra queste cose potremo trovare un indizio che ci dica dove sia andato».

Clarke annuì.

«D’accordo».

Il caldo asfissiante dell’esterno li soffocò non appena uscirono dall’edificio e Bellamy boccheggiò, sarebbe volentieri tornato dentro.

Caricò le due scatole nel bagagliaio dell’auto e prese posto alla guida. Lanciò una rapida occhiata all’orologio, ormai erano quasi le due di pomeriggio e il suo stomaco reclamava.

«Ci fermiamo a mangiare qualcosa?».

«Muoio di fame» rispose lei con un sorriso.

«Sai di cosa ho voglia?».

«Qualunque cosa sia commestibile?» lo canzonò lei e a quelle parole il ragazzo le lanciò uno sguardo di traverso.

«Spiritosa. No, veramente ho voglia di sushi».

Gli occhi di Clarke si illuminarono.

«È una vita che non lo mangio!».

Vedendola in quel modo Bellamy si mise a ridere.

«E allora vada per il sushi».

Un quarto d’ora dopo lasciò l’auto davanti ad un locale orientale di cui Clarke aveva trovato l’indirizzo su internet durante il tragitto. Nessuno dei due conosceva molto bene la zona di Manhattan, dunque impiegarono un po’ per arrivare.

Non appena mise piede all’interno del ristorante, Bellamy si sentì subito rinfrancato dal fresco proveniente dai climatizzatori e respirò a fondo. Inoltre, il profumo proveniente dalla cucina lo investì, provocandogli una contrazione allo stomaco, stava davvero morendo di fame.

Clarke, al suo fianco, cercò la sua mano quasi sovrappensiero e lui la strinse automaticamente, tirandola un po’ più vicino a sé.

Il locale era pieno nonostante l’ora tarda e i due vennero accolti da una sorridente ragazza asiatica che si presentò, ma di cui Bellamy non capì il nome e li accompagnò verso un tavolo appartato, lasciando subito due listini da consultare.

«Questo posto è fantastico» disse Clarke guardandosi intorno con aria assorta e in effetti lui non poteva certo darle torto.

Il grande salone era in pieno stile orientale, dal mobilio ai quadri appesi alle pareti che ritraevano palazzi in piena architettura giapponese e scorci di paesaggi davvero suggestivi.

Ordinarono poco dopo e, aspettando, si ritrovarono a parlare di quella strana giornata.

«Pensi che troveremo qualcosa di utile tra le cose di Jackson?».

«Onestamente? Non lo so Clarke. Sarebbe troppo facile e poi non credo che quel tizio abbia lasciato qualcosa che possa farci capire dove potrebbe essere adesso, soprattutto dal momento in cui sembra proprio che non voglia essere rintracciato», vedendo l’espressione scoraggiata della ragazza però aggiunse: «Ma non fasciamoci la testa prima di romperla, ok? Finché non diamo un’occhiata non possiamo saperne nulla e ad ogni modo… non pensarci adesso. Siamo qui, è una splendida giornata… goditi il posto, il cibo e il piacere della mia compagnia!».

Non riuscì a capire se lo sguardo che Clarke gli lanciò era più divertito, rassegnato o esasperato, ad ogni modo le rivolse un occhiolino e si mise a ridere, facendo ridere anche lei.

«Bellamy Blake… certo che se non esistessi avrebbero dovuto inventarti».

«Non sarebbero riusciti a creare qualcosa di così perfetto in ogni caso».

La ragazza si coprì il volto con le mani.

«Evviva la modestia insomma».

«Hai qualcosa da ridire, Principessa?».

«Meglio se non mi esprimo».

«Attenta a come parli signorina!» esclamò lui in tono stizzito.

In quel momento il suo cellulare squillò. Era Atom.

«Ehi!» rispose allegro.

«Ciao fratello! Allora sei ancora vivo!».

«Non dovrei?» chiese lui, costernato.

«È tutto il giorno che provo a chiamarti a casa, ma non risponde nessuno. Cos’è? Hai passato tutto il giorno a letto con la tua bella?».

«Tu se non mi fai incazzare almeno una volta al giorno non sei contento, vero?» ma riusciva a stento a trattenere un sorriso. «Comunque no, siamo a Manhattan».

«E che diavolo ci fate a Manhattan?».

«I turisti» improvvisò con la prima scusa che gli venne in mente. «E adesso siamo in un ristorante giapponese che promette davvero bene».

«Allora sei proprio un bastardo. Sono mesi che voglio andare a mangiare sushi!».

A quelle parole Bellamy non riuscì a trattenere una risata.

«D’accordo, allora ti prometto che ci andremo anche noi, adesso non cominciare a fare l’offeso».

«Sei comunque un bastardo».

«Sì beh… detto da te non mi tocca particolarmente».

All’altro capo del telefono, sentì il suo migliore amico sbuffare.

«Bene, allora ti lascio con la principessa. Buon pomeriggio e non divertitevi troppo voi due».

«Lo vedremo».

La sua attenzione fu distratta da Clarke che gesticolava seduta di fronte a lui.

«Salutamelo!» bisbigliò.

«Clarke ti saluta» riferì.

«Ricambia!» rispose in tono allegro.

«Ci sentiamo allora, magari una di queste sere andiamo a prenderci una birra al pub».

«Ci conto!».

«Ciao Atom» e detto questo riagganciò.

Lui e Clarke ripresero a parlare fino a quando un cameriere arrivò con i loro piatti e a quel punto furono troppo impegnati dal cibo per continuare la conversazione. Era tutto davvero ottimo, Bellamy avrebbe dovuto ricordarsi quel posto.

Mangiò con la sua solita voracità, fermandosi solo quando davvero fu sul punto di scoppiare.

«Beh… adesso sono davvero sazio».

Clarke lo guardò con tanto d’occhi.

«Non credevo possibile per un essere umano ingurgitare una tale quantità di cibo. Bellamy, sei un tritarifiuti».

Avrebbe riso se solo non avesse avuto paura di vomitare tutto ciò che aveva appena mangiato.

«Andiamo Principessa. Sono le quattro di pomeriggio e abbiamo un paio d’ore di strada prima di arrivare a casa. Anzi… visto che ci siamo, tornando verso Fort Hill ci fermiamo a comprarti un cellulare».

«Bellamy ti ho detto che… ».

«E io ti ho detto come la penso, quindi lascia stare perché perdi in partenza».

Clarke alzò le mani in segno di resa.

«Vada per il cellulare».

Lui le rivolse un sorriso soddisfatto, poi si alzò dal tavolo, convinto di essere ingrassato di almeno due chili.

Si avvicinarono al bancone per pagare, anche Clarke tirò fuori il portamonete, ma nonostante l’occhiataccia che le lanciò, la ragazza non volle sentire ragioni, così divisero il conto.

«Avevo visto un negozio di elettronica venendo qui, non è distante, ti va di andare a piedi? Come va la caviglia?».

«Bene, non ti preoccupare».

Non persero molto tempo, Clarke aveva le idee molto chiare e non era una di quelle persone che passavano pomeriggi interi in un negozio per decidere cosa comprare, un quarto d’ora dopo erano di nuovo in macchina.

«Metti la scheda e salvati subito il mio numero».

«Bellamy, non essere paranoico. E poi adesso è completamente scarico».

Il ragazzo sbuffò, ma non disse nulla.

Accese la radio, non a volume troppo alto e si concentrò sulla strada. Fu dopo un’ora circa che si accorse che Clarke si era addormentata e le lanciò una rapida occhiata: i capelli biondi le ricadevano mossi sulla schiena e sul viso, la testa era leggermente reclinata verso il finestrino e lui moriva dalla voglia di baciarla, ma dal momento in cui stava guidando non era proprio il caso.

Si costrinse a resistere alla tentazione e tornò a concentrarsi, guardando fisso davanti a sé, anche perché era decisamente meglio distogliere l’attenzione da Clarke. Ogni volta che la osservava, qualcosa in lui scattava. Un brivido gli attraversava la schiena e lui era quasi schiacciato dal desiderio di averla tra le braccia, stringerla, baciarla.

Deglutì a vuoto e alzò leggermente il volume. Dio, era certo del fatto che le reazioni che gli provocava non potevano essere normali, non si era mai sentito così prima di allora.

Guidò fino a che non si ritrovò davanti casa propria e fu quando l’auto si fermò che la ragazza al suo fianco riaprì gli occhi.

«Ben svegliata» la salutò con un sorriso.

«Scusami… non volevo addormentarmi».

«Tranquilla Principessa. E poi con il pranzo di oggi sarebbe stato strano se non ti addormentassi. Tieni le chiavi, comincia ad entrare. Io prendo la roba di Jackson e arrivo».

Clarke annuì e smontò dall’auto, avviandosi verso la porta principale. Lui la raggiunse poco dopo, lasciando le scatole sul pavimento del salotto. Si misero seduti sul parquet tirato a lucido e ognuno prese una scatola.

Bellamy frugò per qualche minuto e stava quasi per gettare la spugna quando, proprio sul fondo, trovò una foto. Ritraeva Jackson in camice insieme ad un altro gruppo di medici ed, esaminandola con calma, un dettaglio gli saltò all’occhio.

«Clarke, ma questa non è… » cominciò porgendole la foto.

«Mia madre» concluse lei.

La ragazza voltò l’oggetto e sul retro vide scritta una data. Risaliva all’anno prima della morte del dottor Griffin.

«Quindi non solo Jackson Sahel si trovava in sala operatoria la notte in cui morì mio padre, ma conosceva anche mia madre? Che guarda caso, è in qualche modo coinvolta?».

Bellamy annuì pesantemente. Quella situazione non aveva senso, ma non riuscì a soffermarsi più di tanto, perché poco dopo furono interrotti dal campanello della porta d’ingresso. Erano ormai le otto di sera, chi poteva essere?

Il ragazzo si alzò ed andò ad aprire e ciò, o meglio, chi si ritrovò davanti non gli fece presagire nulla di buono.

«Comandante… ».

Gli occhi gelidi di Lexa War lo trapassarono da parte a parte. E ora che diavolo era successo?




NOTE:


Non è un miraggio, dopo più di due mesi sono tornata davvero! Perdonate, come sempre, l’immane ritardo, ma tra studio, esami e l’aver finalmente trovato un lavoro che devo ammettere, mi tiene davvero impegnata, trovo il tempo che trovo (per non parlare di tutte le serie tv arretrate, ma quello è un altro discorso).

Ebbene, adesso sono qui e spero che il capitolo vi sia piaciuto! Confesso che sì, a un certo punto mi ero anche un po’ bloccata ed è stato da poco che l’ho ripreso in mano, ma l’importante è questo, no?

Comunque eccoci qui; Bellamy e Clarke sono tornati nel pieno delle loro indagini e, come dicevo anche alla fine del capitolo precedente, da qui sarà il caos. Succederanno tante cose, preparatevi psicologicamente ve lo dico già. Decisioni sulle sorti di questa storia le ho prese da un pezzo, tutto stava solo su come arrivarci e adesso sono sulla strada giusta. Decisioni che ho preso non a cuor leggero, ma che saranno necessarie per lo svolgimento, quindi spero che arrivati ad un certo punto non mi odierete e in caso doveste farlo, lo capirei, ad ogni modo non vi anticipo nulla e, di nuovo, mi auguro che intanto questo capitolo possa esservi piaciuto.

Detto ciò vi lascio, sempre in trepidante attesa delle vostre opinioni/consigli/quant’altro.

Alla prossima, vi abbraccio tutti e come sempre ringrazio chiunque legga/segua/abbia inserito tra le preferite e le sante anime che dedicano un po’ del loro tempo a recensire.

Come al solito, vi lascio i link dei due brani di questo capitolo.



Chasing Cars – Snow Patrol. Clarke

Nothing else matters – Metallica. Bellamy



A presto!

Mel

   
 
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