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Autore: Hermione Weasley    29/03/2016    1 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 27
~

 

Antoine improvvisò qualche passo di danza quando lo vide arrivare.

“Finalmente!” Esclamò, rivolgendogli uno di quei suoi sorrisi ampi e contagiosi. “Stavamo giusto pensando di inviare una squadra di soccorso a cercarti.” Clint lo vide voltarsi verso Maria Hill, che gli stava di fianco, come in cerca di un appoggio che la donna si guardò bene dal dargli.

Si limitò a sollevare il boccale di birra verso di lui, prendendo atto della sua presenza, prima di defilarsi con una scusa qualsiasi.

“Credo sia la conversazione più piacevole che abbiamo mai scambiato,” commentò Clint, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava. Indossava gli stessi abiti civili neri come la pece che lo Scudo forniva a tutti i suoi agenti: la fantasia era poca, ma se non altro le stavano meglio del soggolo che aveva addosso quando l'aveva conosciuta.

“Ma se non vi siete detti niente,” fece notare Antoine.

“Infatti.” Il fratello adottivo sorrise e gli batté una mano sulla spalla. “Che devo fare per avere qualcosa da bere?”

“Non credo che tu lo voglia sapere,” lo prese in giro. “Vieni, da questa parte.”

Il sole era calato e il cielo si era ormai fatto scuro e terso sopra le loro teste. Il cortile interno del palazzo reale, però, non aveva mai visto tanta vitalità come quella sera. Al centro dell'enorme spiazzo erano stati accatastati relitti di carri, mobili, varie strutture in legno a cui era stato dato fuoco almeno un'ora prima. Qualcuno doveva essersi lasciato ispirare e aveva deciso di approfittare dell'enorme falò per organizzare una sorta di rinfresco.

In men che non si dica botti di vino e birra erano state trasportate dalle cantine al cortile, lunghi tavoli di legno umido e scheggiato dalle cucine insieme a sedie, panche e sgabelli. Altri si erano occupati del cibo: prosciutti, dolcetti, frutta e formaggi razziati dalle dispense di sua maestà.

Clint aveva spiato il viavai dalle finestre del secondo piano e alla fine si era deciso a scendere – seppur con una certa riluttanza – per unirsi ai festeggiamenti improvvisati. Non era stato l'unico ad aver avuto quell'idea: il cortile era gremito di facce conosciute e sconosciute in egual misura; capannelli più o meno consistenti si erano formati intorno al fuoco e alle tavolate imbandite in tutta fretta.

A dir la verità non era sicuro di aver capito cos'è che stessero festeggiando esattamente, ma non gli importava. Forse bastava essere ancora vivi per avere qualcosa da celebrare, e poi rimanere chiuso nella camera che gli era stata assegnata gli risultava ormai impossibile. L'immobilità cominciava a mettergli addosso una fastidiosa irrequietezza.

Antoine si mise seduto su una panca libera e si occupò di versargli un bicchiere di birra che non esitò a porgergli.

“Qualcuno si è ricordato di chiedere al principe se era d'accordo?” Chiese Clint, prendendo posto accanto al fratello.

“Non ce n'è stato bisogno. Ci ha pensato lui,” gli rivelò, ficcandosi in bocca un chicco d'uva ancora troppo acerba.

“E' stata una sua idea?” Lo cercò istintivamente con lo sguardo e lo trovò che era intento ad intrattenere un gruppetto di donne di diverse età, alcune vestite da cameriere, altre da nobildonne, altre ancora da agenti dello Scudo.

“Ha un modo tutto suo di affrontare il lutto,” convenne Antoine.

Un'allegria forzata e sgradevole illuminava gli occhi del principe Anthony Stark mentre gesticolava animatamente. Disse qualcosa che fece ridere le sue ospiti e allora rise anche lui, ma senza divertimento.

Il funerale di re Howard si sarebbe tenuto l'indomani: il programma prevedeva un lungo corteo che si sarebbe snodato in processione attraverso il centro della città e fino alla cattedrale dove il sovrano sarebbe stato tumulato nella cappella degli Stark. Il sacerdote che aveva dato asilo agli uomini dell'Idra era stato arrestato e prontamente sostituito con un religioso fedele alla corona.

“Forse non sa affrontarlo affatto,” mormorò Clint a mezza voce.

Non gliene faceva una colpa, ma – a giudicare da come si muoveva – il principe Anthony doveva essere sbronzo già da un pezzo. Non aveva avuto proprio nessuna intenzione di scendere a patti con la verità della morte del padre, Clint sospettava, ma solo dimenticarsene.

“Sei stato alle esecuzioni?” Il tono di Antoine era cambiato.

Clint scosse il capo senza aggiungere altro. Per tutto il giorno processi, condanne ed esecuzioni dei membri dell'Idra fatti prigionieri dall'ordine si erano susseguiti nello spiazzo antistante il palazzo reale. I nodi scorsoi delle forche dondolavano ancora nel vento, davanti all'ingresso della dimora regia, tra le macerie provocate dalle cannonate nemiche – tentò di non pensarci.

La giustizia aveva fatto il suo repentino corso così come i vertici dello Scudo avevano voluto. Clint sapeva che alcuni dei capi dell'ordine e dei funzionari di corte si erano opposti a procedimenti tanto rapidi, ma alla fine la controparte aveva avuto la meglio. Il rischio che il colpo di stato andasse a buon fine era stato concreto, elevatissimo: c'era bisogno di una risposta immediata e implacabile, affinché di tutti quei traditori fosse fatto un esempio e un monito. I sudditi necessitavano di una dimostrazione di forza rapida e schiacciante che non lasciasse alcun margine di dubbio, nessuna incertezza sulla capacità della dinastia Stark di detenere il potere.

E nonostante tutte le condanne – a morte, al carcere a vita, ai bagni penali – che erano state somministrate quel giorno, il pericolo che qualcuno decidesse d'emulare la congiura della lega dell'Idra, ritentare una seconda volta, era ancora vivo e presente.

Solo lord Pierce era stato risparmiato. Lady Carter era convinta che fosse a conoscenza di informazioni troppo importanti perché potessero giocarselo tanto imprudentemente. Per tutti gli altri, però, non c'era stato scampo.

La situazione non era piaciuta a nessuno: neanche la vendetta era riuscita ad addolcirla. Tra traditori e fedeli alla corona c'era stata una distanza troppo esigua e sottile, quasi impalpabile. Amici, fratelli, colleghi divisi su due schieramenti opposti. Forse proprio il grigiore del giorno aveva spinto il principe a mettere in piedi quel banchetto raffazzonato alla meno peggio, e gran parte dei provvisori abitanti del palazzo a non farsi pregare più di tanto per accettare l'invito: tutti avevano bisogno di dimenticare. Anche se solo per una notte.

C'era persino il capitano Rogers, seduto un paio di tavoli più in là in compagnia di lady Carter e un uomo dalla pelle scura che Clint non aveva mai visto prima. Durante l'ultima riunione indetta dal colonnello – che per quanto sembrasse odiarle, ne richiamava in continuazione – aveva appreso quanto numerosi fossero i membri dello Scudo giunti alla capitale dopo aver abbandonato le sedi dell'ordine sparse per il regno. Anche Antoine aveva raggiunto la capitale in circostanze simili.

Tutto sarebbe rientrato nella normalità dopo il funerale, dopo la breve incoronazione che ne sarebbe seguita. Breve perché così aveva voluto il principe. Girava voce che Anthony avesse espresso la volontà di tenerla a porte chiuse, ma gli alti funzionari di corte erano stati irremovibili: il popolo doveva poter assistere all'investitura del nuovo sovrano.

Era tutta una questione di apparenze, aveva realizzato Clint. La consapevolezza gli aveva scatenato in petto un moto di solidarietà per il principe rimasto invischiato in una cosa troppo più grande di lui. Certo, la sua vita era più agevole e privilegiata di tante altre, ma Clint non era sicuro che tra una vita fatta di miseria e libertà, e una di ricchezze e responsabilità schiaccianti avrebbe scelto la seconda ad occhi chiusi.

“A che pensi?” Antoine gli assestò una leggera gomitata su un fianco.

“Se cerco di star dietro a tutto quello che è successo rischio di impazzire,” confessò con finta leggerezza prima di bersi un lungo sorso di birra.

“Naaa, scommetto che stai pensando alla tua fidanzata.”

“La mia che?”

“La tua fidanzata. La rossa. Credi che non me ne sia accorto?”

“Non accorgersi di Natasha sarebbe impossibile,” si lasciò sfuggire. Si chiese come avrebbe reagito se gli avesse rivelato che Natasha altri non era che la strega di cui era stato proprio lui il primo a parlargli, tante settimane prima sul viale polveroso che conduceva a villa Coulson.

“Su questo siamo d'accordo. E... quindi?” Lo colpì di nuovo per esortarlo a parlare, per estorcergli una qualche confessione.

“Quindi niente. Non è la mia fidanzata, come ti salta in mente?” Gli venne da ridere, ma non spontaneamente come avrebbe voluto. Certo che associare la parola fidanzata a Natasha gli provocava lo stesso straniamento dell'accoppiata pesce e vestito di pizzo, tanto per dirne una.

A lei aveva pensato pure troppo in quei giorni, ma mai in termini di permanenza, sempre in quelli della precarietà e della sfuggevolezza. Dopotutto era stata proprio lei a rivelargli che se ne sarebbe andata prima del funerale. Per quel che ne sapeva poteva averlo già fatto senza neanche salutarlo, non se ne sarebbe sorpreso più di tanto.

La realizzazione gli rimestò sgradevolmente lo stomaco, ma cercò di non darlo a vedere. Si era dovuto ricredere su tante cose che la riguardavano, aveva dovuto distruggere le prime impressioni, o forse completarle con altre per dar solidità e profondità alla sua immagine. Ma l'impossibilità di fissarla in un'idea precisa non aveva fatto altro che riconfermarsi.

“Non me la dai a bere,” stabilì Antoine con teatrale determinazione.

“Dammi altra birra, piuttosto.” Lo costrinse a cambiare argomento e condì il tutto con una mezza risata, mentre l'altro gli riempiva di nuovo il bicchiere per poi mettersi a bere direttamente dalla brocca con cui l'aveva servito.

Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si erano messi a scherzare su argomenti tanto triviali e frivoli come ragazze e conquiste galanti?

Lasciarono che le chiacchiere, le risate e persino le canzoni improvvisate si preoccupassero di occupare il silenzio al posto loro. La febbre se n'era andata e il dolore alle ossa, alle giunture, alle ferite si era trasformato in un fastidioso, ininterrotto indolenzimento sparso; eppure continuava a sentirsi intontito. Forse più per colpa degli eventi che di qualsiasi altra cosa.

“Credi che lo troveranno?” Antoine era di nuovo tornato serio e Clint non ebbe bisogno di chiarimenti per capire di chi stesse parlando. Grant.

“Non lo so,” ammise. “Lo spero.”

La spedizione dello Scudo per ripulire le cripte della cattedrale era stata un buco nell'acqua: quand'erano giunti sul luogo l'avevano trovato già deserto, fatta eccezione per i cadaveri. Lord Phillip si era personalmente occupato di controllare che non ci fosse anche Grant là in mezzo.

Di Barney non aveva parlato con nessuno. Clint non aveva avuto il coraggio di chiedere al padre adottivo se avesse visto qualcuno che gli somigliasse. Si era limitato a farsi fare una descrizione dei morti rinvenuti nella chiesa da uno degli agenti che avevano partecipato all'operazione e se non ricevere una risposta affermativa non l'aveva rassicurato del tutto, era sempre meglio del contrario. Per quel che ne sapeva suo fratello era vivo, vegeto e ormai lontano dalla capitale e dal suo trambusto.

“Credi che lo uccideranno?”

“Probabilmente,” scrollò le spalle, “a meno che lord Phillip non voglia intercedere per lui.”

“Lo farebbe,” asserì Antoine. Clint non poté far altro che dargli ragione. “Hai mai pensato che le cose potessero andare a finire così?”

“Neanche nei miei sogni più selvaggi.”

“Scommetto che i tuoi sogni selvaggi sono di tutt'altro genere,” lo stuzzicò per allontanare il più possibile il profilo di Grant dai propri pensieri.

“Sarebbe una scommessa ben piazzata,” convenne Antoine senza fare una piega prima di costringerlo a far cozzare il bicchiere contro la brocca in una sorta di bizzarro brindisi.

“Mi auguro non abbiate intenzione di esagerare con quella.”

La voce proveniva da un punto non meglio identificato alle loro spalle. Si voltarono entrambi per accogliere lord Phillip con un sorriso. Continuava a muoversi con circospetta lentezza, ma stava decisamente meglio rispetto ai giorni precedenti.

“Ce n'è un po' anche per me?” Si informò l'uomo, esaminando sommariamente alcuni dei contenitori disseminati sulla tavola.

Antoine si adoperò per trovargli un bicchiere pulito e un po' di vino e solo quando lord Phillip si fu accomodato tra loro tirò fuori una lettera dalla tasca interna della giamberga scura che indossava, slacciata sul davanti.

“Leopold e Jemma mi hanno scritto,” disse semplicemente, mostrando la missiva ad entrambi.

“Che dicono?” Chiese Clint.

“Stanno bene,” confermò lord Phillip mentre Antoine gli sfilava di mano il foglio ripiegato in quattro per leggerne il contenuto.

Una musica squillante proruppe in quel preciso istante dal lato opposto del falò che continuava ad ardere allegro al centro del cortile. Si dimenticarono della lettera, improvvisamente troppo presi dalla banda scalcagnata formatasi in quattro e quattr'otto e dalle coppie che erano saltate in piedi per lanciarsi in balli sfrenati e scomposti.

Fu allora che la vide, solo un'ombra proiettata sulla parete traforata da mille finestre, come occhi spalancati o sigillati sul buio della notte. Il calore delle fiamme sembrava sciogliere l'aria in un liquido denso e pastoso che deformava immagini, persone e cose. E Natasha era una di quelle macchie sconnesse che parevano risentire dei tentacoli bollenti e invisibili del fuoco.

“Torno subito,” si sentì dire, distratto, mentre abbandonava il bicchiere sul tavolo per circumnavigare il perimetro della festa e raggiungere la donna che se n'era rimasta in disparte.

La fasciatura al collo era sparita: teneva le braccia incrociate al petto come per difendersi da una situazione che non comprendeva e che la metteva a disagio, una barriera che la divideva dal gruppo di festaioli già mezzi ubriachi che avevano deciso di trascorrere la notte tra vino, bagordi e cibo più o meno prelibato.

“Stai per andartene?” La prima cosa che le chiese non appena le fu a pochi passi di distanza.

“Domani mattina, all'alba,” rispose soltanto, dritta al punto.

Vide il suo sguardo deviare oltre la sua persona, tornare sulle celebrazioni, su chi aveva cominciato a battere le mani per tenere il ritmo della musica. Si voltò anche lui per guardare il principe Anthony che coinvolgeva in un ballo improvviso una nobildonna appena sopraggiunta con un pesante plico di fogli sottobraccio. I documenti le caddero a terra per il brusco movimento, ma la donna si sforzò di mostrarsi piacevolmente sorpresa, forse un tantino irritata.

“Chi è quella?”

“La figlia dell'alto funzionario di corte,” rispose Natasha.

Continuava a risultargli assurdo il modo in cui nonostante la donna evitasse di interagire con chi la circondava, non mancava mai di sapere tutto sul conto di tutti. Come se il mondo avesse occhi ed orecchi di cui Natasha poteva servirsi per spiare chiunque avesse voluto in qualsiasi momento. Sempre.

“E' lei che si è occupata del funerale di re Howard. Tecnicamente è il padre a ricoprire la carica, ma in pratica è lei a fare... bè, quasi tutto.”

Clint tornò su di lei, abbozzando un vago sorriso in sua direzione. Era da un po' che non le sentiva mettere così tante parole una dietro l'altra, il che gli fece pensare che era nervosa e che ogni scusa era buona per rimandare qualunque fosse lo scopo della sua apparizione.

“Perché non vieni a bere qualcosa?” Le propose con falsa indifferenza, come se non gli importasse.

“Non posso,” scosse il capo. La risposta se l'era aspettata.

“Va bene.” Annuì, ma non aveva intenzione di lasciare che la loro ultima sera si concludesse così, nell'angolo più buio e silenzioso del cortile. “Possiamo andare da qualche altra parte, se non vuoi stare qui.”

Sostenne lo sguardo curioso e perplesso di Natasha senza batter ciglio. La guardò raggrumare le labbra e poi forse trattenere una qualche reazione, passare rapidamente in rassegna le opzioni che le si presentavano, calcolare i pro e i contro di ciascuna, le possibili conseguenze.

“Non voglio portarti via dalla tua famiglia,” disse allora, alludendo con un cenno del capo al gruppetto formato da lord Phillip, Antoine e lady Melinda, da poco unitasi ai festeggiamenti. Persino il colonnello Fury aveva fatto la sua comparsa, fermo ed immobile sotto l'arcata d'ingresso, le mani unite dietro la schiena e l'occhio sano che abbracciava l'intero spiazzo con aria di supervisore.

“Avrò tempo per stare con la mia famiglia,” la rassicurò con una leggera scrollata di spalle. Tornò a guardarla e la sorprese di nuovo a fissarlo con curiosità e sospetto.

“Va bene,” concluse infine, come arrendendosi alla sua proposta. Eppure non gli era sfuggito il fatto che aveva ceduto molto prima di quant'era solita fare; e poi che cosa era venuta a cercare alla festa? Era impossibile che si fosse avventurata nel cortile senza immaginarsi cosa l'aspettava.

“Va bene,” le fece eco. “Aspetta un momento. Non ti muovere.”

Si assicurò che gli desse retta e poi sparì per tornare indietro ai tavoli, alla ricerca di una brocca ancora piena. Ne trovò una di vino, ma non si curò di recuperare anche una coppia di bicchieri.

“Possiamo andare,” annunciò dopo averla nuovamente raggiunta.

Natasha annuì e si affrettò a precederlo fino al piccolo ingresso secondario della servitù che li riportò all'interno del palazzo. Il silenzio li accompagnò durante la loro ascesa al primo e poi al secondo piano e infine nell'ala est.

“Ecco perché non ti ho vista in giro in questi giorni,” commentò mentre si addentravano nella zona del palazzo lasciata praticamente disabitata per volere dello Scudo.

“Sono stata occupata,” lo contraddisse.

“Con cosa?” Le porte scivolavano loro di fianco, senza sosta.

“Pierce. Fury ha voluto che l'interrogassi,” rivelò, continuando a dargli le spalle.

L'informazione non lo sorprese più di tanto: si era accorto dell'intesa che era venuta a crearsi con naturalezza tra Natasha e il colonnello. I loro pensieri sembravano muoversi su un medesimo ordine di idee, una complicità diversa rispetto a quella che Clint sentiva di condividere con lei.

“Sei anche un'esperta di interrogatori?”

“Sono soprattutto un'esperta di interrogatori,” lo corresse.

Si fermarono di fronte ad una porta singola che Natasha non esitò ad aprire. Ma Clint non fece in tempo a seguirla oltre la soglia perché la donna si era bloccata sul posto, sbarrando il passaggio. I gemiti distorti che provenivano dalle ombre scure che si muovevano in sincrono sul letto gli solleticarono l'orecchio ancora funzionante solo in quel momento.

“Li conosci?” Gli venne da ridere: qualcuno si era impossessato del letto di Natasha per trascorrere la serata in attività ricreative tutt'altro che innocenti.

“No, direi di no,” Natasha confermò i suoi sospetti, reclinando il capo di lato per capire come diavolo erano messi.

“Vino?” Le suggerì offrendole la brocca, quasi si trovassero nella platea di un teatro popolare ad assistere ad uno spettacolo particolarmente interessante.

La donna gli scoccò un'occhiataccia prima di entrare nella camera, recuperare qualcosa di abbandonato dietro le tende che oscuravano la finestra e tornare indietro richiudendo la porta. Capì che era il suo bagaglio, la stessa bisaccia di tela che si era portata dietro per tutto il viaggio e che qualcuno allo Scudo doveva averle fatto riavere.

“Andiamo nella tua,” decise lei per entrambi, esortandolo a farle strada.

“Dio, Natasha, non ti facevo così sfacciata.” L'appunto gli guadagnò una gomitata che lo fece prontamente zittire.

Ci misero più del previsto a ritrovare la strada per l'ala ovest: il palazzo reale rischiava di tramutarsi in un vero e proprio labirinto per chi non ne conosceva la suddivisione a menadito.

“Ti hanno messo nella stanza dei bambini?” Gli chiese quando si soffermarono di fronte alla camera di Clint, finalmente vittoriosi.

“Qualcosa del genere. Credi che Stark bambino abbia dormito qua dentro?” Aprì la porta e la invitò ad entrare, seguendola subito dopo.

Natasha abbandonò le sue cose sul pavimento e andò ad affacciarsi alla finestra aperta; il vento smuoveva a malapena il pesante tendaggio polveroso che lasciava filtrare la luce pallida della luna e delle stelle che li occhieggiavano dal cielo.

“Sembra troppo normale per essere la camera del principe,” asserì a mezza voce.

Clint la studiò distrattamente mentre si sfilava gli stivali e appoggiava la brocca sul comodino, accanto a quella dell'acqua. Si arrampicò sul materasso altissimo e troppo morbido e ci sprofondò nel mezzo come aveva fatto in quegli ultimi giorni. L'avvallamento centrale si accentuò ancora di più quando Natasha lo raggiunse mettendosi seduta sopra i vari strati di coperte e lenzuola, con la schiena contro i cuscini.

Si riappropriò del vino e ne bevve un sorso prima di passarglielo. La brocca si alternò tra le mani dell'una e dell'altro per un paio di volte senza che nessuno dei due aprisse bocca. Clint appoggiò il capo ai cuscini ammassati contro la testiera del letto e osservò il baldacchino stracciato attraverso cui si intravedevano gli affreschi scrostati del soffitto.

Il silenzio con lei era confortevole. Lo era stato fin dall'inizio, ma adesso la sensazione era ancora più netta e piacevole. Non c'era l'ansia di doverlo riempire con parole inopportune o superflue, ma il tacito accordo a godere della reciproca presenza senza troppi annessi e connessi.

Toccò a Clint infrangerlo quando un pensiero gli trafisse il cervello con straordinaria vividezza: “Tornerai al monastero, non è vero?”

Non ebbe bisogno di guardarla per sentirla irrigidirsi in modo a malapena percepibile, quasi spostando l'aria che li separava per darle una forma diversa. Solo a quel punto si decise a voltarsi verso di lei, la guancia schiacciata sull'angolo del cuscino ruvido.

“Devo,” rispose dopo un lunghissimo attimo d'incertezza.

Avrebbe voluto convincerla a non farlo: in fin dei conti i vertici della Stanza Rossa si erano già adoperati affinché Natasha venisse tolta di mezzo. Tornare nella fossa dei leoni avrebbe significato correre un rischio... inutile.

Forse era solo la necessità di tornare all'inizio adesso che sentivano d'aver raggiunto una fine. Di cosa, però, Clint non avrebbe saputo dirlo con sicurezza. La fine delle insicurezze, magari, dei compromessi e delle false identità che avevano assunto nel corso della loro vita, talvolta coscientemente, altre senza realmente accorgersene.

E poi, se ci pensava, non era così diverso dal suo ritorno a villa Coulson, là dove tutto era cominciato e dove tutto doveva concludersi. Il viaggio non era ancora terminato: solo ritornare all'origine e avere la conferma che le cose – anche quelle familiari – erano cambiate davvero, che loro erano cambiati davvero... solo quello avrebbe potuto mettere la parola fine al marasma che avevano rincorso e da cui erano stati rincorsi in quelle ultime settimane.

Natasha non disse più niente e lui neanche. Si limitò a guardarla mentre appoggiava le labbra sul bordo della brocca e la inclinava per bere; mentre gliela restituiva asciugandosi la bocca col dorso della mano; mentre gli occhi le si facevano sempre un po' più lucidi per l'ebbrezza data dall'alcool; mentre si abbandonava progressivamente contro i cuscini.

Clint sentì le palpebre farglisi pesanti, uno stato di pace talmente reale da farsi cosa concreta. Si costrinse a tenere lo sguardo fisso su Natasha che si assopiva al suo fianco, a non cedere al sonno prima di lei, perché la voleva guardare e perché sapeva – se lo sentiva fin in fondo allo stomaco – che quando avrebbe riaperto gli occhi lei non sarebbe stata lì. Che se ne sarebbe andata senza salutarlo, perché detestava gli addii; non gliel'aveva mai confessato, ma non ce n'era bisogno.

Ebbe a malapena la prontezza di appoggiare la brocca ormai vuota sul comodino prima di tornare a disegnare con gli occhi il profilo di Natasha, così morbido e al tempo stesso letale.

Insisté finché le linee non si confusero con il contorno dei cuscini, del letto, dei capelli.

Finché il sonno non arrivò a reclamare il suo dominio anche su di lui.

 

*

 

Sognò le dita di Natasha che si muovevano sul suo viso con improbabile delicatezza, affondando nella barba sfatta ormai da diversi giorni, tracciando coi polpastrelli i confini del mento e della mascella.

Sognò il tocco lento e impalpabile delle sue labbra sugli occhi, sul naso, sulla fronte, sulle labbra.

Sognò se stesso, le proprie mani che l'attiravano a sé per i fianchi, che andavano a cercare la pelle morbida al di sotto della stoffa scura che l'avvolgeva come in una nube soffice e cupa.

Sognò di poter sentire sotto le dita le cicatrici che le solcavano la schiena, tratti gonfi e in evidenza sulla superficie altrimenti liscia e morbida della sua pelle pallida.

Sognò di poter tracciare la mappa di quei rilievi come un cartografo minuzioso e preciso, senza lasciare neppure un centimetro inesplorato, senza permetterle di mantenere alcun segreto per se stessa.

Sognò il respiro di Natasha che si mescolava col suo e il calore della sua lingua sulla propria.

Sognò l'eccitazione che gli faceva pizzicare la pelle, scorrere il sangue più rapido e caldo nelle vene, che minacciava di strapparlo a quel torpore tanto piacevole.

Sognò e gli sembrò quasi di vederla, bianca e pallidissima, segnata dalle lotte, dal dolore e dalla fatica, a malapena illuminata dal bagliore rosato dell'alba.

Sognò di avere il suo peso confortevole addosso, proprio come sul pendio erboso dove erano stati sorpresi dai saltimbanchi in un giorno ormai lontanissimo.

Sognò di sentire l'odore che emanava il suo corpo, il sudore che lo ricopriva... o forse era il proprio e non riusciva più a distinguere i confini, come gli succedeva quando rimaneva imprigionato tra il sonno e la veglia senza poter varcare la soglia in nessuna delle due direzioni.

Sognò di accarezzarle il viso su cui gli pareva di indovinare – come un ricordo distante – le tracce impressevi dal cuscino.

Sognò di scendere con le mani sul suo corpo nudo, di stringere la presa sui suoi seni, di chinarsi a baciarli con la bocca ancora impastata dal sonno, di succhiare i capezzoli scuri e duri e strapparle un gemito, un'eco lontana che non poteva che appartenere alle sue più fervide fantasie.

Sognò di sentirla fremere tra le sue braccia, di sentirla mentre lo schiacciava contro la barriera dei cuscini, mentre lo guidava con intorpidita impazienza dentro di sé, muovendosi in un mondo come rallentato e sospeso tra la realtà e l'immaginazione.

Sognò di sprofondare dentro di lei, di trovarla umida e calda e così maledettamente invitante da farlo impazzire, da fargli dimenticare chi era e come si chiamava, di azzerare tutte le sue percezioni, di ridurre il mondo a quell'unico punto in cui i loro corpi si incontravano e sconfinavano l'uno nell'altro senza soluzione di continuità.

Sognò di chiamarla per nome dieci, cento, mille volte, di baciarla a lungo tutte le volte che gli sembrava di non poter respirare.

Sognò di imparare a memoria il sapore della sua bocca, il contrarsi dei suoi muscoli sotto le dita che continuavano ad esplorarla, il contorcersi del suo corpo sul suo man mano che i movimenti si facevano più convulsi e frettolosi.

Sognò che erano avvinghiati l'uno all'altra come un nodo impossibile da districare, due nastri accaldati e sudati che si davano calore, respiro e piacere a vicenda.

Sognò di aver aperto gli occhi e di averla vista nel proprio sguardo offuscato ed opaco, le guance rosse, le labbra gonfie e la perdizione più totale nello sguardo.

Sognò che era stata proprio quell'immagine, così assolutamente perfetta, a togliergli il respiro, a farlo sentire come se un'inondazione bollente gli si fosse riversata in corpo, un fulmine che aveva risvegliato ogni sua singola terminazione nervosa per ricordarle che era ancora viva, che era ancora presente, che il fastidioso dolore che non l'aveva lasciato per un attimo non era altro che un dato come un altro, che se ne sarebbe andato. Presto.

Sognò di averla sentita chiamare il suo nome, di averla baciata ancora una volta mentre si scioglieva su di lui.

Sognò... sognò...

 

*

 

Riaprì gli occhi sull'uomo dell'affresco che lo stava fissando con aria impertinente. Ci mise un po' ad abituarsi alla luce del giorno che filtrava accecante dalle finestre aperte.

Il letto era freddo accanto a lui, disfatto come se un intero esercito ci avesse marciato sopra.

Lui era nudo come un verme – i vestiti chissà dove – incastrato tra le lenzuola in modo talmente complicato da fargli supporre che l'incastro fosse frutto della mente di un ingegnere particolarmente brillante.

Natasha non c'era, però gli era rimasto addosso il suo odore. O forse se l'era solo immaginato.

Si ritrovò a richiudere gli occhi, a stringerli con foga come nella speranza di essere ritrasportato nel sogno, così vivido e reale e piacevole. Ma non ne fu capace.

Il meccanismo si era inceppato: la realtà si era frapposta tra lui e i deliri del sonno, separando nettamente i due mondi, rendendoli di nuovo incomunicabili. La coscienza l'aveva sospinto a forza oltre la soglia del dormiveglia e adesso non c'era più modo di tornare indietro, non prima della notte successiva.

Si lasciò sfuggire un sospiro disarticolato e poi qualcuno bussò alla porta.








Note: direi che le scelte dei nostri si stanno finalmente delineando e... mi sembrava un ottimo modo per farli salutare ù_ù I prossimi due saranno capitoli individuali (uno per Natasha, uno per Clint) dopodiché ci sarà la conclusione. Poi basta davvero, giuro :P
Ancora grazie a chi legge, commenta, e a chi lo fa in anteprima (sì, Eli, parlo con te!) :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
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