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Autore: Lady_Marmalade    01/04/2009    4 recensioni
Ma alla fine che cos’ erano i supereroi? Una maschera, un costume che rende immediatamente irriconoscibili, superpoteri, belle ragazze, un mucchio di cattivi imbecilli da sconfiggere? Ci pensò bene. Era sicuro che non fosse tutto lì. I supereroi erano anche i buoni, quegli uomini che non hanno un prezzo, incorruttibili sempre e comunque, quelli che “non devono chiedere mai”, che non piangono mai, qualunque cosa possa succedere. Pensò che dopotutto, certi supereroi di serie b, i classici figli di un dio minore, anche in quella città fantasma continuavano a esistere, magari mascherati da panni innocenti di persone qualunque. Uno lo stava guardando proprio ora: aveva i vestiti malconci di un sedicenne castano, impegnato a fissare una stupida locandina vecchia di mesi, e a farsi menate filosofiche sulla vita.
Terza classificata al contest "Dalla musica alla prosa"
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: oneshot partecipante e terza classificata al contest “Dalla musica alla prosa” originariamente indetto da BehindInfinity e poi invece classificato da Kla81 e da Happy Pumpkin sul forum di Efp. Ringrazio i giudici per il podio e spero sinceramente che questa storia vi possa piacere. Il seguito della storia è Golden Dawn, spero che vi possa piacere anche quello ^^. Buona lettura, hope you enjoy. Commenti, critiche, recensioni et similia sempre molto gradite e apprezzate.

 

superheroes

 

Jodi camminava, avvolto dall’ umidità e dalla foschia tipiche di quella frazione di paesino sperso nello stato di Washington, Stati Uniti. Strusciava i piedi sull’ asfalto, l’ acqua delle pozzanghere che entrava nelle vecchie Converse nere, logorate dall’ uso pressochè continuo.

Quelle scarpe lo rappresentavano perfettamente: decisamente a terra, esposte alle intemperie, parecchio consumate… insomma, proprio come lui, avevano visto tempi migliori.

Jodi si strinse nella felpa rossa, cercando un po’ di tepore che puntualmente non arrivò.

Guardò il cielo grigio e coperto di nubi: a momenti avrebbe cominciato a diluviare. Imprecò a mezza bocca: era solo il dannatissimo inizio di settembre, e già il freddo preannunciava un lungo inverno.

“Summer has come and passed…” canticchiò, frugandosi nelle tasche dei jeans, alla ricerca del pacchetto di Lucky Strike. Non si sa come l’ estate (coi suoi pomeriggi lunghi e afosi, con le giornate di cazzeggio con gli amici, con le serate passate da lei ) era già finita.

E ora ricominciava tutto: i pomeriggi umidi e freddi, le giornate passate a scuola a ripetere nuovamente il secondo anno, e le serate da solo (o nella migliore delle ipotesi con un paio di amici e una birra di straforo).

“The innocence can never last” proseguì, afferrando una sigaretta e portandosela alle labbra. Prima di chiudere il pacchetto notò l’ assenza di quella sigaretta girata al contrario. “La sigaretta del destino” la chiamava lei: quella che si fuma quando si deve esprimere un desiderio. Una cosa da bambini, un gioco di innocenza. Un’ innocenza che il ragazzo aveva perduto da un pezzo: quando si cresce si finisce per essere delusi e disinteressati. Quanto avrebbe preferito rimanere piccolo. Ma l’ innocenza, come l’ infanzia, non può durare per sempre.

“Wake me up, when september ends” borbottò, la sigaretta tra le labbra, la mano sinistra che faceva da scudo contro le folate di vento gelido. Avrebbe dormito molto volentieri finchè quel mese infernale non fosse finito del tutto.

Jodi fece un tiro lungo e intenso, godendosi fino il fondo il sapore pieno della Lucky Strike: l’ ultimo attimo di piacere prima di incamminarsi verso casa. Era appena uscito dal corso per la patente, sperando di ritardare il rientro a casa: soliti vecchi litigi coi suoi, solite vecchie scenate, solite vecchie porte sbattute… il copione di una scena che si sarebbe ripetuta all’ infinito.

Si sedette sulla panchina di legno (quel bel legno marcio che avrebbe avuto tanto bisogno di una sistemata, o almeno di una pietosa mano di vernice), sotto la pensilina degli autobus (con la locandina vecchia almeno di un paio di mesi, del film di Spiderman), aspettando: il suo sarebbe passato tra un’ ora.

Buttò fuori dai polmoni un cerchio perfetto di nicotina, che si disperse immediatamente nelle raffiche fredde del maestrale. Frugò ancora nelle tasche, estraendo un malconcio mp3: si chiese con un sorriso se presto anche il suo aspetto sarebbe diventato trasandato come quello dei suoi oggetti. Aprì la cartella con le canzoni degli Edguy , gettando un’ occhiata distratta al vetro della pensilina, per avere la conferma delle sue ipotesi: un ragazzo castano chiaro, con il viso semi-coperto da un cappuccio rosso ricambiava il suo sguardo. Negli occhi nocciola aveva un’ aria distrutta, un’ ombra profonda che lo divorava. L’ ombra di Jess. Lei. Un’ ombra che ogni volta minacciava di sbucar fuori dagli occhi, con lacrime amare.

Intanto gli Edguy avevano cominciato a cantare dalle cuffie dell’ mp3. Superheroes…

“Ehi bello, come stai?” Red, il suo amico storico, lo salutava dall’ altra parte della strada; affiancato da Mick e Trev, altri due della compagnia.

“Si vivacchia Red, si vivacchia” rispose, ben sapendo che raccontava solamente palle: vivacchiare era molto al di là delle sue più rosee aspettative. “Voi come ve la passate?”

“Si vivacchia Jodi, si vivacchia” gli fece il verso Trev, dal marciapiede. Fresco di scaricamento da parte di una ragazza che fino a quel momento era stata una delle ragioni della vita, era diventato ironico al limite dell’ accidia, continuando a sfotterlo per la storia di Jess. “Il primo grande amore” amava definirla quel rasta ispido e malinconico dall’altra parte della strada.

Facendolo incazzare alla grande. Perché ovviamente non era stato né il primo, né il più grande, né soprattutto amore. Era stata una storiella estiva, pronta a finire agli inizi di quel dannato settembre. Ma si sa: le piccole cittadine, la pioggia, la mancanza di qualcuno, gli amici come i suoi, i pomeriggi passati in un parco fatto di cemento e alberelli storti; ti fanno diventare malinconico.

“Vaffanculo, Trev” rise Jodi. Trev non era sempre stato così. Quel ragazzo alto e allampanato con dreadlock talmente sporchi da assomigliare a un gigantesco mocho vileda, non era sempre stato così ironico, così bastardo, così strafottente, così insensibile; e quindi odiava mandarlo a quel paese, anche solo per scherzo. Perché Trev era diventato così per non cedere alla distruzione. Un po’ come lui.

 

"E noi, non piangiamo mai per amore"

  

“Ci si vede, Jodi” salutò Mick, (il pacificatore tra lui e Trev in quel periodo di scontri) andandosene con gli altri due, diretto verso il parco (in realtà una distesa di cemento e vecchie panchine, rifugio notturno di parecchi tossici e barboni, e diurno di lui e dei suoi amici).

Avevano passato pomeriggi infiniti seduti su quelle cazzo di panchine, con una lattina di birra analcolica a testa. Sbuffò di nuovo, sputando per la rabbia e per la frustrazione, spegnendo seccamente il mozzicone di sigaretta con il piede.

Era stufo. Stufo di se stesso, stufo di tutta quella storia a cui non riusciva a mettere la parola fine. Per quella cretina di Jess (con cui ormai non parlava nemmeno più), aveva rifiutato una delle ragazze più belle, simpatiche, intelligenti, carismatiche e spiritose, della scuola. Kyra Newton sarebbe stata l’occasione perfetta per voltare pagina (e con uno stile a dir poco impeccabile), ma lui aveva semplicemente rovinato tutto: non la considerava, non le rivolgeva la parola, per lo più la ignorava. E ora giustamente, anche lei aveva gettato la spugna, correndo a fare gli occhi dolci a un altro che la meritava molto più di quanto lui avrebbe mai potuto fare.

Il ragazzo sapeva di essere un coglione senza speranze: gliel’ avevano ribadito i suoi amici in tutte le salse e in svariate occasioni (e Trev ovviamente più a lungo e frequentemente di tutti).

Ma non ci poteva fare nulla: ogni volta che vedeva Jess, il suo cuore era percorso dai crampi, e riaffioravano tutti i pochi ricordi felici del periodo insieme (caratterizzato più che altro da numerosi litigi).

Non c’ era una ragione precisa del suo attaccamento a quella ragazza. Lei era una qualunque, come se ne trovano a palate in giro per il mondo. Il problema stava nella natura stessa del ragazzo: era un dannatissimo, maledetto nostalgico. Come tutti lì del resto.

Quelli che lo guardavano allibiti perché aveva rifiutato Kyra Newton erano della stessa, identica pasta. Malinconici sedicenni, persi in un’ utopia fatta di sigarette, birre analcoliche e giornate che se ne andavano tutte uguali, rimpiangendo tempi che probabilmente non avevano nemmeno vissuto. Perché la nostalgia confonde il confine tra realtà e sogno.

 

"Siamo supereroi"

 

 

 Tornò a concentrarsi sul vetro della pensilina, fissando la vecchia locandina del film.

L’attore che impersonava l’ Uomo Ragno, avvinghiato a Kirsten Dunst, nei panni di Mary Jane; lo fissava beffardo dal cartellone, il viso coperto dalla maschera rossa.

“There is a new superhero in the city” recitava la scritta sopra la foto. Un nuovo supereroe in città. A Jodi venne quasi da ridere: come se ce ne fossero di vecchi da rimpiazzare, di supereroi. In quella cittadina non se ne contava nemmeno mezzo. Sì, oltre alla crisi economica c’era anche un netto crollo sul lato supereroi. Avrebbero dovuto cominciare a mettere gli annunci… AAA cercasi supereroe prestante, atletico, in grado di salvare il mondo. Il ragazzo rise amaro, delle sue stesse scempiaggini: di sicuro a quegli annunci non avrebbe risposto un cane di nessuno.

Ma alla fine che cos’ erano i supereroi? Una maschera, un costume che rende immediatamente irriconoscibili, superpoteri, belle ragazze, un mucchio di cattivi imbecilli da sconfiggere? Ci pensò bene. Era sicuro che non fosse tutto lì.

I supereroi erano anche i buoni, quegli uomini che non hanno un prezzo, incorruttibili sempre e comunque, quelli che “non devono chiedere mai”, che non piangono mai, qualunque cosa possa succedere.

Pensò che dopotutto, certi supereroi di serie b, i classici figli di un dio minore, anche in quella città fantasma continuavano a esistere, magari mascherati da panni innocenti di persone qualunque. Uno lo stava guardando proprio ora: aveva i vestiti malconci di un sedicenne castano, impegnato a fissare una stupida locandina vecchia di mesi, e a farsi menate filosofiche sulla vita.

“Ma dopotutto perché no?” si chiese. Sinceramente, (e cercando di evitare le manie di grandezza) sentiva che lui, come del resto tutti i suoi amici erano qualcosa di più. Quelli che aveva appena salutato e poteva ancora vedere diretti verso lo stesso parco muffito erano ,in fondo, molto altro che semplici nostalgici utopisti.

Erano persone che avevano delle priorità nella vita (e non solo le priorità tipiche dell’adolescente medio americano: soldi, potere, ragazze facili a pacchi), che difendevano i propri diritti; che avevano un prezzo un po’ più alto di una semplice stecca di sigarette o di una cassa di buona birra; che erano troppo orgogliosi o troppo stupidi, per chiedere qualcosa che non riuscissero a procurarsi da soli. Forse troppo insensibili per piangere.

 

“E non piangiamo mai per dolore”

 

La pioggia che aveva previsto mezz’ ora prima cominciò a scendere lenta, da quella coltre plumbea del cielo. Nuvole color dell’ acciaio che lasciavano cadere gocce grosse, pesanti, simili a freddi proiettili dritti al cuore. Proiettili che facevano male. Perché dipingevano la prospettiva di una vita che sarebbe stata sempre la stessa: giorno dopo giorno, senza speranze di cambiamento. Una vita spesa a cercare di sopravvivere.

Forse il non piangere faceva parte dello spirito di conservazione. Perché da piccolo ti insegnano fin troppo bene che le lacrime non portano a nulla, se non ad altre lacrime che rendono ancora tutto più doloroso.

Jodi sentì gli angoli degli occhi marroni farsi pungenti, ma strinse le palpebre ricacciando indietro quel groppo che gli bloccava la gola.

Lui e tutti gli altri avevano imparato a portarsi dentro il dolore, devastandosi la vita a furia di soffocare quell’energia bloccata da qualche parte dentro di loro. Un’ energia che li portava a fare uno sbaglio dopo l’ altro, costringendoli a  lastricarsi con le proprie mani la strada verso il loro inferno personale.  Un’ energia che presto probabilmente sarebbe esplosa, distruggendoli tutti.

Ma finchè fosse stato possibile, sapeva che avrebbero continuato a camminare a testa alta, facendosi del male, ma con la soddisfazione stupida e immatura di poter dire di avere lottato, e di non essersi comportati come sciocchi bambini piagnucolosi.

Jodi scosse la testa, incredulo. Perché oltre all’ ovvia autocommiserazione, provava anche un forte orgoglio. Perché forse il non piangere oltre a significare una grossa immaturità, era simbolo anche di un coraggio folle.

Quello stesso coraggio folle che caratterizza i veri supereroi. Quello che possedevano lui e i suoi amici, cresciuti a suon di delusioni, sogni infranti, cuori spezzati e pomeriggi che gli avevano donata una rigida corazza di cinismo e disincanto, e li avevano portati a considerarsi nei giorni buoni, gente che in fondo se la sapeva cavare; e nei giorni cattivi  dei poco di buono che non sapevano che cosa avrebbe fatto della loro vita.

Era parecchio che non capitavano giorni buoni da quelle parti.

Ma adesso una piccola scintilla di speranza infantile era tornata ad accendersi. La certezza di essere speciali, unici: di essere supereroi.

 

“Siamo supereroi”

 

Uno stridio acuto di freni e il rumore dell’ acqua che schizza ovunque, costrinsero il ragazzo a sollevare il capo: l’autobus  era arrivato, coi suoi soliti cinque minuti di ritardo a causa del maltempo, frenando bruscamente davanti a lui.

Si alzò dalla panchina (che cominciava a impregnarsi dell’ umidità circostante) salendo sul pullman, mentre le pioggia si stava trasformando in un temporale coi fiocchi.

Le porte si chiusero, lasciando intravvedere decisamente poco del paesaggio circostante. Jodi lanciò un’ ultima occhiata verso la locandina, offuscata dalle gocce di pioggia sul vetro dell’autobus. La frase però tornò a colpirlo con la stessa intensità di poco prima.  “There is a new superhero in the city”...

Le note della canzone degli Edguy stavano finendo, portando con sé il ricordo di un pomeriggio particolarmente felice coi suoi amici. Quando lui si sentiva ancora innocente, quando Trev era ancora il vecchio Trev, quando non c’ erano ancora Jess pronte a rovinarlo, quando settembre non era ancora arrivato. Ma sentiva che nonostante tutto, la loro natura anche adesso era rimasta la stessa. Lui e loro: dei pazzi coraggiosi, pronti a tutto.

“E adesso chi è il vero supereroe, stronzo?” pensò, rivolto all’ innocente viso dell’ Uomo Ragno, l’ ombra di un sorriso che si diluiva nella pioggia incessante.

 

 

 

 

 

 

  
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