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Autore: revin    30/03/2016    2 recensioni
La vita da reclusa è molto più dura di quella che Gwen avrebbe potuto immaginare, soprattutto in un penitenziario di massima sicurezza interamente dominato da uomini. Fox River è un inferno al quale sembra impossibile poter sopravvivere. Ma Gwen ha una missione da compiere... la vendetta.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Michael/Sara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incredibile che fossi sopravvissuta al mio primo turno d’aria.
Era strano come la prima sensazione che avevo provato mettendo un piede fuori nel cortile esterno di quell’immenso penitenziario, oltre alla paura, fosse stata di attesa. Mi ero sentita terrorizzata e impaziente allo stesso tempo. Non è che fossi una psicopatica incapace di rendermi conto del pericolo a cui stavo andando incontro. Ero pur sempre sola, e certamente indifesa, a dispetto di quell’ammasso di criminali che presto sarebbero diventati i miei compagni di disavventure.

Il problema era che non sapevo ancora cosa aspettarmi, non riuscivo a provare la giusta dose di paura. Seguivo gli altri detenuti mentre una guardia ci ricordava di ritornare all’interno delle nostre celle e di prepararci per il secondo turno di lavoro, ma riuscivo solo a guardarmi in giro come se fossi appena entrata in un parco divertimenti a tema.
Quella era un’esperienza totalmente nuova per me, non solo perché non avevo mai messo piede in un carcere, ma anche perché sapevo di essere la prima donna nella storia della detenzione a varcare i cancelli di un penitenziario interamente maschile. C’erano stati altri casi come il mio? Assolutamente no, e se c’erano stati, io di sicuro non ne avevo mai sentito parlare.

Mentre le guardie ci scortavano lungo un percorso lastricato di larghi mattoni di pietrisco, vidi oltre le inferriate dello spiazzo esterno, gruppi di detenuti che mi fissavano. Avevano indosso tutti la stessa identica tuta da lavoro blu e dalla mia prospettiva, anche tutti la stessa faccia.
Lasciammo il viale lastricato per immetterci lungo un corridoio percorso da una serie interminabile di cancelli e massicce porte di ferro, finché all’improvviso il secondino al mio fianco mi fece cenno di svoltare ed entrare nella prima porta a destra. Ovviamente obbedii, ma con riluttanza.
Perché ero l’unica che doveva fermarsi in quella stanza, mentre il resto del gruppo veniva ricondotto al Braccio A?
Insieme a me e alla guardia che mi aveva ordinato di entrare in quella strana stanza con solo una grossa scrivania al centro e diverse apparecchiature elettroniche sparse in giro, entrò anche un’altra guardia armata fino ai denti come il suo collega. Non mi sentivo per niente a mio agio.
 
  • Allora, vediamo che bel fenomeno da baraccone ha scelto questa volta il nostro bravo direttore.  -  esordì uno dei due uomini afferrandomi con energia la mandibola, girandola da una parte e poi dall’altra.
 
In ben altra situazione avrei reagito prontamente per fargli passare la voglia di mettermi le mani addosso, o in quel caso, in faccia, ma quello era il carcere e se volevo sopravvivere, dovevo sbrigarmi a farmelo entrare in testa.
L’uomo di fronte a me continuò a stringere le sue dita grassocce contro la mia mascella continuando a bofonchiare. Aveva capelli scuri sotto il cappello della divisa, la testa tonda e gli occhi piccoli e viscidi proprio come quelli di una lucertola. Non ci avrei messo molto ad odiarlo, me lo sentivo.
 
  • Tu non sembri affatto un ragazzino!  -  osservò alla fine lasciandomi andare.
 
Anche il collega al suo fianco si avvicinò per squadrarmi più da vicino. Avrei voluto trovare un atteggiamento un po’ più cordiale almeno nell’altro uomo, in quel suo viso quadrato o in quel corpo grasso, ma in entrambi riuscivo a scorgere solo due tipi squallidi che continuavano a osservarmi ostentatamente e sfacciatamente senza curarsi minimamente del mio disagio.
 
  • No che non sembra un ragazzino, questa è una ragazza…e se non è una ragazza, è un ragazzino molto molto carino.
 
Erano entrambi convinti che fossi un maschio, forse non erano stati informati del mio arrivo.
 
  • In effetti hai ragione… -  commentò occhi da lucertola lanciandomi un’altra occhiata, poi ad un tratto si rivolse a me minaccioso. – Chi diavolo sei?
 
Non risposi. Non mi sembrava una cattiva idea passare per un maschio, avrei di sicuro avuto molti meno problemi. Il tizio di fronte a me però non sembrava intenzionato ad aspettare i miei comodi.
 
  • Non mi piace scherzare, sia chiaro, parla o ti cavo le parole di bocca!
 
Dal tono che aveva usato, sospettavo che non si sarebbe fatto nessuno scrupolo a mantenere la parola. Non potevo fare altrimenti, dovevo vuotare il sacco anche se non ne avevo nessuna voglia.
 
  • Mi chiamo Gwyneth…e non sono un ragazzo. -  risposi in tono basso e aspro.
 
L’uomo col cappello spalancò la bocca e per un attimo mi sembrò che i suoi occhi si facessero ancora più piccoli. Non capivo perché il direttore Pope non avesse messo al corrente del mio arrivo il suo personale. Dovevo provare fin da subito a mostrarmi sicura. Non volevo in alcun modo che qualcuno, detenuto o guardia che fosse, approfittasse del fatto che ero una ragazza per schiacciarmi.
 
  • E’ una donna, Brad. -  mormorò ancora sorpreso il tizio grasso.
  • Grazie, lo vedo anch’io, ma che diavolo ci fa una donna qui?
  • Dovresti fare questa domanda a Pope, è stato lui a prendere questa decisione. -  rispose una voce alle nostre spalle.
 
Ci voltammo tutti e tre nello stesso momento. Nella stanza era appena entrata una donna, scura di carnagione e robusta di costituzione. Portava un camice bianco con una targhetta puntata sul petto che riportava la sua foto e accanto, il nome: Katie Welsh. L’avevo riconosciuta subito. Era stata lei al mio arrivo quella mattina che mi aveva sottoposto alla perquisizione più imbarazzante e mortificante della mia vita. Avevo ringraziato il cielo quando mi era stato risparmiato di essere perquisita da una delle guardie, ma avevo comunque trovato quell’interminabile check up generale molto molto umiliante.
 
  • Katie, che cazzo ci fa qui questa ragazzina? -  grugnì occhi da lucertola.
  • Te l’ho già detto, devi chiederlo a Pope. C’è il più stretto riserbo su di lei.
  • Ma è una ragazza per Dio! Questa è una follia.
  • Non posso farci niente, Brad. La dottoressa la sta aspettando. Scortatela in infermeria.
 
Occhi da lucertola - alias Brad - sbuffò lanciandomi un’occhiataccia, ma decise di non replicare e mi spinse fuori per accompagnarmi come gli era stato chiesto.
Per raggiungere l’infermeria, ci spostammo sul lato opposto della struttura. Fox River era davvero un complesso sconfinato, grazie a quel breve giro turistico però cominciavo a capire come fosse organizzato.
L’infermeria era esattamente come l’avevo immaginata, ma non altrettanto la dottoressa che trovammo nella stanza ambulatorio.
 
  • Buongiorno dottoressa Tancredi. -  fece il losco secondino con voce improvvisamente mielosa quando entrammo.
 
Quando la donna si voltò, quasi rimasi di stucco, e questo principalmente per due ragioni: primo fra tutti, perché mai e poi mai mi sarei aspettata di trovare una donna come lei in un posto come quello.
Era una donna giovane, sui 30 anni e anche molto bella. Alta, straordinariamente slanciata e apparentemente sicura di sé. Aveva i capelli color miele, gli occhi scuri orgogliosi e allo stesso tempo pieni di una grande bontà. Il labbro inferiore era un po’ sporgente, come il mento che le donava un carattere particolare e anche una sfumatura di alterigia. Decisamente non la donna che ci si sarebbe aspettati di trovare in un penitenziario. Il secondo motivo era semplice. Io conoscevo quella donna. Non direttamente, certo. L’avevo vista diverse volte sui giornali, perché Sara Tancredi era diventata un personaggio pubblico da quando suo padre, Frank Tancredi, era diventato governatore dello stato dell’Illinois.
 
  • Salve Brad, entrate pure. -  ci fece accomodare la dottoressa prima di rivolgersi direttamente a me.  -  Tu devi essere la ragazza di cui parla tutto il penitenziario da stamattina. Siediti pure sulla sedia.
  • Sara, tu che ne pensi dell’arrivo di questa ragazzina? Non credi che questa storia…
 
Notai che Brad – occhi da lucertola si era avvicinato quasi con fare intimo alla donna per parlarle sottovoce, anche se riuscivo ugualmente a sentirli. Però avevo la sensazione che fosse più una mossa strategica per fare colpo sulla bella dottoressa che per non farsi sentire. Ed evidentemente non ero l’unica ad essersene accorta.
 
  • Non so che dirti Brad, solo Pope è al corrente della situazione. Dovrai parlarne con lui. Adesso ti pregherei di farmi lavorare. -  rispose lei liquidandolo con malcelato fastidio.
 
A quanto potevo capire la donna non era ugualmente bendisposta nei confronti del viscido secondino. Un punto per la dottoressa.
Finalmente rimaste da sole, dopo che Brad si fu richiuso la porta alle spalle, la donna venne a sedersi di fronte a me, aprendo sul tavolo accanto a noi una cartelletta con su la mia foto e i miei dati.
 
  • Allora…ti chiami Gwyneth Sawyer, vivi in California, a Beverly Hills e hai 24 anni. Non mi sbagliavo, sei molto giovane. -  iniziò scrutandomi attentamente come se dalla mia espressione potesse carpire ciò che non le era stato rivelato. -  Il direttore Pope ci ha informati stamattina che sarebbe arrivato un detenuto un po’ insolito. In questo dossier ci sono informazioni molto stringate sul tuo conto, nulla su cosa facessi prima di essere arrestata, sulla tua famiglia…non c’è niente neanche sulla condanna che ti è stata imputata. Potresti aver investito un cagnolino o aver commesso un omicidio, per quanto ne sappiamo. Non hai niente da dire?
  • Che cosa devo dire? -  chiesi fingendomi ingenua.
  • Per quale reato sei stata condannata?
 
Il suo non era un modo di fare conversazione per conoscermi, glielo leggevo in faccia che era solo curiosa. Le sorrisi enigmatica ma non le risposi. Volevo divertirmi. Si dice che quando una persona ha un segreto che molti bramano di conoscere, è come se tenesse il controllo su di loro.
La donna ci riprovò formulando una nuova domanda, ma ormai avevo deciso di ignorarla e avevo iniziato a studiare ogni dettaglio di quella stanza, distrattamente.
 
  • Hai per caso problemi nella comunicazione?
 
Non la stavo guardando nemmeno.
 
  • Ma senti quello che dico?
  • Sento benissimo, grazie -  risposi ruotando gli occhi verso di lei -  è solo che non mi piace rispondere quando non ne ho voglia. Se quelle informazioni non sono sul dossier e il direttore non l’ha avvertita, un motivo ci sarà, le pare?
 
Sembrò non aspettarsi quella risposta diretta e ci impiegò un po’ad individuare le parole successive.
 
  • Come vuoi. Allora parliamo di quello che ho letto nella tua cartella medica e che, a quanto pare, è anch’esso confidenziale. Sembra che tu soffra di un disturbo di personalità antisociale e di frequenti disturbi dell’umore che arrivano addirittura a causarti crisi di panico…
 
Scrollai le spalle per minimizzare la cosa.  – Non così frequenti.
 
  • Sei bipolare. -  constatò ovvia.
  • Si.
  • E con simili problematiche credi che un penitenziario maschile sia il luogo adatto per scontare una pena detentiva?
  • Qui o in qualunque altro carcere che differenza farebbe?
  • Ne farebbe molta.
  • Io non credo.
 
La dottoressa si accigliò quasi minacciosa.  -  Parlerò personalmente con il direttore e gli spiegherò che non è una buona idea tenerti qui, ne va della tua salute, oltre che della tua sicurezza.
  • Auguri. Mi faccia sapere quando le negheranno la richiesta. -  le risposi sfrontata.
  • Perché ne sei così sicura?
  • Se sono qui è per un motivo.
  • E non me lo vuoi proprio dire questo motivo?  -  Le sorrisi.  - D’accordo. Vista la situazione voglio che tu ti faccia controllare da me almeno una volta a settimana. Avvertimi quando sopraggiungono i primi sintomi e… se dovesse servirti qualcosa o sentissi il bisogno di parlarmi di qualunque necessità…ehm…femminile, io sono qui.
 
Annuii e fui la prima ad alzarmi quando intuii che la conversazione era giunta al termine. Nonostante mi fossi presa gioco di lei, la dottoressa si era dimostrata disponibile nei miei confronti. Non me lo sarei mai aspettata. Forse perché mi sembrava impensabile poter trovare qualcuno di disponibile in un carcere.
Eppure, avevo avvertito qualcosa in quel primo incontro con la figlia del governatore, qualcosa di strano, indecifrabile. Pensavo si trattasse della solita scarsa fiducia che riservavo generalmente agli sconosciuti, ma c’era dell’altro. Il mio sesto senso mi diceva che era meglio non fidarsi troppo di quella donna.
Le porte si aprirono e la mia personale scorta si fece avanti per accompagnarmi alla prossima tappa. Immaginavo che quella fosse la penultima, prima di raggiungere quello che sarebbe stato il mio nuovo alloggio per i prossimi mesi: una cella cupa e desolata.
Venni condotta nell’ala sud del penitenziario per incontrare per la seconda volta il direttore. Quell’uomo era l’unico a conoscere la mia vera identità e il motivo per il quale ero stata condannata. Lui soltanto in tutta Fox River conosceva la mia storia. Anche questa volta le guardie mi lasciarono entrare da sola e io mi ritrovai improvvisamente in una grande stanza spaziosa, illuminata e distintamente arredata. Mi piacque subito.

Era molto ordinata. C’erano una grande scrivania, delle poltrone di pelle nera, un armadio, una cassettiera e un mobile con delle mensole cariche di libri, molti dei quali nuovi e probabilmente mai aperti. Un ufficio tutto sommato classico, ricordava quello di una persona importante, forse per la bandiera degli Stati Uniti che capeggiava a sinistra della scrivania.
 
  • Accomodati pure -  esordì l’uomo in piedi accanto alla finestra dietro la scrivania.
 
Con un gesto indicò la poltrona di fronte a lui e cominciò con l’osservarmi a lungo. Mentre facevo come mi aveva detto, cercai anch’io di studiarlo prima che avesse inizio l’interrogatorio. Henry Warden Pope era un uomo sulla sessantina, corpulento, di statura superiore alla media, con spalle larghe e spioventi che gli davano un aspetto un po’ curvo. Aveva un abito elegante e comodo e un’aria dignitosa, da signore. Il suo viso largo, con gli zigomi grossi, era abbastanza piacente con un colorito fresco e un bel paio di baffi curati. I suoi capelli, ancora molto folti, erano proprio biondi, abbondantemente brizzolati e pettinati all’indietro. I suoi occhi celesti avevano un espressione fredda, attenta e penetrante. Quando riprese a parlare, notai il suo sforzo di suonare affabile e lo apprezzai. Aveva una bella voce autorevole.
 
  • Keith mi ha consigliato di lasciarle qualche secondo perché possa ambientarsi, prima di attaccare con le domande. Dice che lei è un tipetto molto particolare e che tende a diventare piuttosto vaga e irritante quando si sente minacciata.
  • Keith mi conosce bene.
  • Signorina Hudson, non so cosa significhi trovarsi di fronte ad una ragazza lei e non starò di certo qui a far finta di saperlo, né tantomeno di sentirmi onorato, perché non lo sono, anzi, cercherò di non girarci troppo attorno e di arrivare subito al punto. Continuo a non essere molto felice della sua presenza nel mio carcere. Non mi fraintenda, non ho niente contro di lei. Conosco il motivo per cui è stata condannata e so che non potrebbe essere considerata neanche lontanamente pericolosa o alla stregua del più docile dei detenuti di questo istituto detentivo.
 
Su questo, di sicuro, ci trovavamo d’accordo.
 
  • Lei è una donna e come certamente saprà non dovrebbe stare qui, -  continuò  -  ma Keith Sawyer è un buon amico. Mi ha chiesto aiuto perché crede che qui lei sarà più al sicuro, anche se personalmente io non lo credo affatto. Gli dovevo un favore, per questo e solo per questo lei si trova qui.
 
“Ah ecco” pensai ammirata, “e bravo Keith, aveva fatto leva su vecchi debiti del passato. Furbo.”
 
  • Ciò non annulla la mia preoccupazione. Questo è da considerarsi un caso senza precedenti e temo per le conseguenze che la sua presenza possano scatenare…
 
Senza attendere la fine, feci l’errore di interromperlo e come risultato mi beccai un’occhiata truce che bloccò le mie ultime sillabe in gola. Poi continuò come se il mio intervento non fosse mai avvenuto.
 
  • Keith mi ha descritto a grandi linee la sua situazione. Lei…tu…posso darti del tu? -  Annuii. -  Tu da oggi e per i prossimi tre mesi verrai considerata un detenuto come tutti gli altri. Se sbaglierai, pagherai come gli altri, se farai di testa tua, finirai per passare qui dentro più tempo del dovuto. Ti sono state spiegate le nostre regole?
 
Annuii di nuovo. All’improvviso era come se fossi passata sotto esame, sentivo nei confronti di quell’uomo una sorta di rispetto reverenziale. Quella infondo era un po’ come casa sua e io non ero altro che un ospite.
 
  • Bene. -  rispose iniziando a ripetere dettagliatamente quello che mi era stato già spiegato al mio arrivo a Fox River.
 
Mi sarebbe stato presto assegnato un lavoro con il quale avrei guadagnato dai due ai quattro dollari al mese, ma se non mi fossi presentata ad ogni turno, sarei stata spedita immediatamente in cella di rigore e ci sarei rimasta per una settimana. In caso di recidiva – mancanza al lavoro per la seconda volta – la punizione si sarebbe allungata a 30 giorni. Il rifiuto a collaborare, insieme a negligenza, atti violenti, possesso di droghe, armi e oggetti contundenti di qualunque tipo, poteva essere punito con la cella di isolamento per sei mesi.
 
  • Troverai il resto su un cartoncino appeso nella tua cella con ognuna delle principali regole scritte in stampatello ben leggibile. Domande?
 
Feci di no con la testa. Wow, credevo non me l’avrebbe mai chiesto, e cominciavo a pensare che si trattasse di una conversazione unidirezionale, come d’altronde lo era stata fino a quel momento.
 
  • Keith mi ha spiegato il motivo per cui il giudice non ha voluto concederti gli arresti domiciliari. Condivido la sua decisione se è pensata allo scopo di darti una lezione. Per esperienza so che molte persone non sempre riescono a capire quando sbagliano e ho la netta sensazione che tu non solo non lo abbia capito, ma che non ne sia neanche dispiaciuta, dico bene?
 
In tutta risposta mi strofinai il naso asciutto con l’indice e scrollai le spalle.
 
  • Immagino tu sappia esprimerti anche a monosillabi oltre che con gesti paralinguistici.
  • Si signore. -  risposi finalmente, dato che mi aveva invitata indirettamente a farlo.
  • Ottimo. Adesso voglio elencarti quali disposizioni ho deciso di apportare per la tua sicurezza.
  • Non voglio delle disposizioni diverse rispetto agli altri detenuti.
  • Non credo che tu sia nella posizione di chiedere cosa volere o non volere. -  mi rimproverò con tono autoritario. -  E comunque sono delle disposizioni necessarie. Sei una ragazza diamine, e non voglio rischiare di buttare al vento quarant’anni di carriera solo per farmi massacrare dai media e condannare pubblicamente per aver accettato di accogliere una ventenne nella mia struttura. O credi che qui capiti tutti i giorni di invitare ragazzine per far divertire i detenuti?
  • Certo che no.
 
L’uomo sospirò passandosi una mano tra i capelli. Si vedeva lontano un miglio che quella situazione lo metteva a disagio, procurandogli non pochi grattacapi.
 
  • Qui dentro sono rinchiusi uomini pericolosi, alcuni dei quali condannati a scontare diversi ergastoli, uomini che non vedono una donna da anni. Se credi che tre mesi qui a Fox River siano paragonabili ad una piacevole passeggiata in campagna, credo che tu ti sia fatta un opinione sbagliata. E se il mio vecchio amico Keith è così stupido da credere che un penitenziario maschile sia un posto sicuro dove nascondere la sua pupilla, allora credo di aver conosciuto un uomo molto più sveglio.
  • Signore, io non credo che…
  • Sarò chiaro fin da subito con te Gwyneth, così come lo sono stato con Keith quando al telefono mi ha fatto questa richiesta assurda. Non voglio alcuna responsabilità su quello che accadrà durante il tuo periodo di detenzione. Farò tutto il possibile per evitare che si presentino condizioni favorevoli ad abusi e violenze, ma capirai che non posso garantirti una protezione a 360° e non voglio neanche che tu me lo chieda.
  • Non ho intenzione di farlo. Non pretendo nulla, so già a cosa sto andando incontro, so che la mia incolumità dipende da me stessa.
 
Il volto del direttore sembrò rilassarsi, ma solo per un millesimo di secondo. Avrei potuto giurare che in quel momento stesse maledicendo il mio patrigno per avergli scaricato sulle spalle quella responsabilità.
 
  • Detto questo, ecco le disposizioni di cui ti ho appena accennato: ti verrà assegnata una cella singola. Solitamente i detenuti vengono assegnati alle celle per coppie, ma vista la particolarità del tuo caso ho ritenuto opportuno fare in modo che tu non abbia rapporti troppo ravvicinati con i detenuti. Gli orari di accesso alle docce ovviamente sono prestabiliti. Tu avrai orari diversi. La mattina entrerai dopo che tutti gli altri avranno finito e la sera, prima che comincino ad entrare i primi gruppi. Per l’assegnazione dei lavori, per gli orari di accesso alla mensa e per tutto il resto non posso fare niente, dovrai adeguarti a mescolarti ai tuoi compagni di disgrazie.
  • D’accordo.
  • Un’ultima cosa. -  puntualizzò prima che potessi anche solo sperare che la conversazione fosse conclusa. -  Voglio ribadire qualche altro punto fondamentale che credo implicito, ma che per correttezza voglio sia chiaro. Punto primo: niente relazioni con i detenuti. Non approvo alcun tipo di rapporto nel mio carcere, né con i detenuti, né con le guardie, né con il resto del personale. Sappi che alla minima avvisaglia verrai trasferita ancor prima che te ne renda conto.
  • Posso farcela. -  risposi ammiccando. Mi sembrava a dir poco inverosimile l’idea di poter fare amicizia lì dentro, figuriamoci pensare ad altro.
  • Punto secondo: niente favoritismi. A parte le poche disposizioni di cui ti ho parlato, non ho alcuna intenzione di trattarti in modo diverso solo perché sei una ragazza o perché sei la figlia acquisita del mio amico. Tu per me sei un detenuto come tutti gli altri, quindi non ti aspettare di poter venire qui e chiedere un trattamento diverso, perché non lo avrai.
  • Ok, ho capito.
  • Punto terzo e più importante della lista…
 
“Oddio, c’è anche un punto terzo”.
 
  • …non cacciarti nei guai e cosa ancora più importante, non mettere me nei guai. E’ tutto. Una guardia ti scorterà nella tua cella…GUARDIA!!
 
Due secondi dopo, un uomo di colore dal portamento militaresco, diverso dai due secondini che l’avevano preceduto, entrò nella stanza del direttore, mi sistemò le manette ai polsi e mi spinse delicatamente fuori.
Ripercorremmo nuovamente la strada a ritroso finché ad un certo punto l’uomo, serio e professionale proprio come doveva essere una guardia, mi fece cenno di svoltare verso est.
Era arrivato il momento di tornare nel Braccio A. Adesso si che cominciavo a sentirmi veramente a disagio. Da quel momento in avanti sarei stata a contatto con i detenuti, mi sarei mescolata a loro com’era successo quella mattina in cortile. Da quel momento sarei stata una di loro.

Appena varcammo l’ultima porta massicciamente blindata, una valanga di voci, urla e schiamazzi ci travolse in pieno. Vidi alcune guardie sbattere contro le sbarre delle celle i loro manganelli per intimare agli uomini chiusi all’interno di fare silenzio, mentre sentivo pervadermi ad ogni passo da un’inquietante tremarella.
Ero appena scesa nel primo girone dell’inferno.

Avevo la sensazione di essere improvvisamente piombata sul set cinematografico di Alcatraz, l’antica prigione che dopo la chiusura venne trasformata nella suggestiva location per diversi film sulle evasioni impossibili. Il blocco era strutturato su tre piani sia sul lato destro che su quello sinistro, e su ogni piano si alternavano file di celle accostate l’una accanto alle altre. I vari piani si potevano raggiungere attraverso delle rampe di scale situate una all’entrata e una all’uscita. Tutti i detenuti in quel momento erano nelle loro celle, ma sembrava che la mia entrata in scena avesse appena scatenato l’apocalisse. Era come trovarsi in uno zoo pieno di scimmie selvatiche in gabbia che hanno appena visto entrare una banana. La banana, in quel caso, ero io.
 
  • Ehi, la bambina è caduta nel girone dei cattivi. Ora si che ci sarà da divertirsi! -  sentii gridare dall’alto, mentre fischi e risate si susseguivano.
  • Mettetela nella mia cella, vi prego! -  fece un altro.
  • Vieni qui bambolina, facciamo amicizia!
 
A testa bassa percorsi l’intero corridoio. La mia cella era quella accanto alla stanza di controllo delle guardie dalla quale venivano gestite l’apertura e chiusura delle celle.
 
  • Apri la 93! -  gridò la guardia al mio fianco senza voltarsi.
 
La porta della cella di fronte a noi si aprì e io entrai nel mio nuovo alloggio, una stanza 6 metri per 3 che odorava di disinfettante e umidità. Ecco a cosa avrei dovuto abituarmi da quel giorno in avanti: un letto a castello con un materasso sottile e all’apparenza neanche tanto comodo, un lavabo accanto ad un water e una vista mozzafiato sulle celle di balordi e criminali della peggior specie.
Prima che le sbarre si chiudessero alle mie spalle, una voce dall’alto, probabilmente quella di un detenuto, gridò:
  • Benvenuta a Fox River, dolcezza!
 
Più tardi, recandomi a mensa con gli altri detenuti per la cena, ripensai a quel primo giorno che credevo ormai giunto al termine. Avevo conosciuto uno dei peggiori assassini della storia e addirittura il fratello di Burrows, avevo fatto “amicizia” con la figlia del governatore dell’Illinois e scatenato fantasie perverse nella mente di un intero blocco di galeotti. Adesso avrei dovuto escogitare un piano per trovare il condannato a morte, ottenere la sua fiducia e spingerlo a raccontarmi ciò che sapeva. Nel frattempo avrei fatto amicizia col fratellino. Chissà che anche lui non potesse tornarmi utile. Insomma, proprio un lavoretto da niente.
 
“Un passo alla volta Gwen.”
 
Per il momento dovevo solo preoccuparmi di superare incolume l’ora di cena.
Già, una parola.
Riuscii a stento a riempire il vassoio con tovagliolo, posate, panino sigillato, una bottiglietta d’acqua e una ciotola con dentro una strana poltiglia verde che non avevo la benché minima idea di cosa potesse essere, quando all’improvviso un tipo con il berretto blu in testa finse di imbattersi in me accidentalmente, spingendomi a terra.
 
  • E sta attenta, idiota! -  imprecò per giunta disturbato.
 
Inutile descrivere la fine miserevole che fece il mio vassoio. Volò tutto in terra. L’abominio verde nel mio piatto era finito tutto sui miei pantaloni e il panino sigillato dentro una bustina trasparente era scivolato, sempre accidentalmente, sotto il piede del beota che aveva posizionato il piede perché io cadessi dopo che il suo complice mi aveva spinta. Incredibile ma vero, non solo la mia rovinosa caduta era riuscita a scatenare le chiassose risate dell’intera sala, ma era riuscita ad attirare anche l’attenzione delle guardie, infastidite che avessi creato scompiglio e sporcato il pavimento.
 
  • Alzati forza! -  “Oh, riecco occhi da lucertola.” -  Cos’è, sei per caso stupida? -  mi rimproverò guardandomi come se fossi stata un verme.
  • Ma io veramente…
  • Alza quel culo da terra! -  abbaiò con un misto di odio e repulsione.
 
Non mi sembrò il caso di farmelo ripetere.
 
  • Allora, ti ha spinta qualcuno o sei solo troppo stupida per percorrere un rettilineo senza inciampare sui tuoi stessi piedi?
 
Mi chiesi che diavolo di problema avesse quel tipo contro di me. Non lo conoscevo neanche e già lo odiavo. Avrei voluto afferrare il vassoio e scaraventarglielo in testa, anche solo per avere la soddisfazione di togliergli dalla faccia quell’espressione disgustata. Invece dovevo controllare la mia furia omicida. Di dire come erano andate realmente le cose non se ne parlava neanche. Non solo ero certa che quel celebroleso di un secondino non mi avrebbe creduta, ma avrei anche contribuito ad allungare ulteriormente la lista di nemici che non potevo permettermi là dentro.
 
  • Allora, hai qualcosa da dire?
  • No, sono solo inciampata.
  • Fallo un’altra volta e ti ritroverai a pulire quello che arriva sul pavimento con la lingua, mi sono spiegato bene ragazzina? -  sbottò minaccioso strattonandomi per un braccio perché mi togliessi dai piedi.
 
Dovetti andare a cercarmi un posto, ma naturalmente non potei recuperare né vassoio, né cena. La politica del carcere era chiara: se non eri in grado di apprezzare il cibo che ti veniva offerto, saresti rimasto a digiuno. Se la tua porzione finiva a terra, dovevi aspettare la prossima. Mentre camminavo tra le fila di tavoli a testa bassa alla ricerca di un posto isolato e libero, incrociai lo sguardo viscido di T-Bag, che insieme al suo gruppo mi stava fissando con un’espressione che sembrava voler dire “non hai ancora visto niente”.
Lo ignorai e finalmente trovai un posto sull’ultima fila. Il mio stomaco gorgogliava rumoroso, non mangiavo niente da quella mattina e avevo fame. Dovevo solo tenere duro per altri 89 giorni, pensai amareggiata. Tenere duro non era un problema, era tenersi fuori dai guai il difficile.
Potevo impegnarmi quanto volevo, ma i guai sarebbero stati una costante della mia vita.
   
 
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