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Autore: Blue Eich    31/03/2016    10 recensioni
Ero rimasta abbastanza di sasso quando la professoressa Solidad, con il tono più disinvolto del mondo, mi aveva consigliato di chiedere ripetizioni proprio a lui. Lui, Drew Ross. Ma una come me non poteva nemmeno sognarsi una cosa del genere.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Drew, Vera | Coppie: Drew/Vera
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
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Pioggia d'incanto 💘

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Ero rimasta abbastanza di sasso quando la professoressa Solidad, con il tono più disinvolto del mondo, mi aveva consigliato di chiedere ripetizioni proprio a lui. Lui, Drew Ross. Ma una come me non poteva nemmeno sognarsi una cosa del genere. Drew era bravo proprio in tutto: i suoi quaderni degli appunti erano a dir poco perfetti, senza nemmeno una sbavatura o una parola scritta male. Alzava sempre la mano alla domanda di un insegnante e, all'intervallo, mentre addentava con nonchalance la solita mela rossa, veniva accerchiato da un'orda di ragazze, anche se sembrava non farci particolarmente caso. Quando apriva l'armadietto delle scarpe, usciva fuori una montagna di letterine d'amore. Ne avevo viste tante venire liquidate con un'occhiata glaciale o un mezzo sorriso di scuse. Per questo, quando dovevo andare da lui, ero così in ansia.

Stavo lì, appoggiata allo stipite della porta, mentre le farfalle mi ballavano nello stomaco. Non lo sapevo neanche io perché mi sentivo così agitata… Era un normale essere umano, dopotutto. Stava sistemando gli ultimi libri nella cartella prima di andarsene e una ragazza si era avvicinata a lui; le tremavano le mani e aveva la voce concitata mentre gli chiedeva, balbettando, se poteva prestarle gli appunti di inglese. Il verde sorrise cordiale – forse con l'intento di tranquillizzarla, dato che sembrava potesse svenire da un momento all'altro – e le porse il quaderno in questione. Lei lo prese a fatica e, dopo essersi inchinata ripetutamente, corse via, urtandomi per sbaglio mentre usciva. Bah, manco avesse appena stretto la mano di un cantante. Sicuramente non aveva nemmeno davvero bisogno di quegli appunti, voleva solo avere tra le mani un suo oggetto.

Mi riscossi e, stringendo i pugni in segno di determinazione, mi feci avanti. Ormai aveva chiuso la cartella ed era pronto ad andarsene, quando trovò me a bloccargli il cammino.

«Se vuoi gli appunti di inglese, li ha appena presi Brianna» m'informò, in tono svogliato, quasi rassegnato. Per lui ero solo una delle tante.

«Ehm, no, veramente…» Anch'io mi stavo facendo prendere dal panico, perché non volevo essere un peso per una persona che conoscevo a malapena e sembrava così irraggiungibile. «La prof mi ha detto che se continuo così non supererò l'anno e che… Forse tu potevi aiutarmi…» Mentre lui alzava scettico un sopracciglio, arrivai al dunque: «Insomma, mi daresti ripetizioni di matematica?»

Stette in silenzio qualche istante, che a me sembrò eterno, per poi sospirare ancora più rassegnatamente di prima. «Ti farò sapere» detto ciò mi superò e uscì dall'aula, nient'altro che un ammasso di banchi vuoti. Quando fui sola, tirai anch'io un sospiro, di sollievo però.

 

La mattina dopo, al trillo della sveglia continuai a dormire e a rigirarmi beatamente tra le lenzuola. Solo quando fui abbastanza lucida da constatare che era pericolosamente tardi mi levai le coperte di dosso, allarmata.

Scesi le scale con passi pesanti e frettolosi, arrivando in cucina con il fiatone. Il mio fratellino Max, già vestito, stava bevendo dalla sua tazza con tutta la calma del mondo. «Alla buon ora» mi canzonò, lanciandomi un'occhiata di sufficienza e sistemandosi gli occhiali tondi sul naso.

Lo fulminai con lo sguardo, mentre riempivo velocemente la mia ciotola di cereali e li affogavo nel latte; essere schernita in quel modo da un bambino di sei anni era abbastanza fastidioso. Buttai giù la mia colazione a suon di cucchiaiate forsennate, finché l'ultima goccia bianca non fu prosciugata; al che lasciai la ciotola nel lavandino ancora vuoto e afferrai di corsa il mio bentō, avvolto in un grazioso fazzoletto a pois, che la mamma mi aveva preparato la sera prima.

Con le guance ancora piene degli ultimi residui di cereali tanto che parevo un criceto, finii d'infilarmi la giacca e sbattei il cancelletto gridando come da routine: «Io vado!»

Di solito arrivavo davanti alla porta della classe esausta e, quando la facevo scorrere, spesso il professore era già alla cattedra; in tal caso cercavo di farmi più piccina mentre mi avviavo furtiva al mio posto, pregando di non ricevere un rimprovero. Quella mattina, invece, non fu così: mancavano giusto poche persone, sicuramente tutte in giro per l'edificio a scambiare le ultime chiacchiere.

Arrivando sempre così tardi, la mia migliore amica, Lucinda, non la incrociavo mai; restava fino all'ultimo secondo incollata a qualche muro, a sbaciucchiarsi con il suo fidanzato, Gary Oak. Di lui sapevo solo che frequentava l'ultimo anno, era il capitano della squadra di basket della scuola e suo nonno il direttore dell'ospedale della città. La loro relazione era un po' un tira e molla. All'inizio, lo ammetto, credevo che Lucinda stesse insieme a lui per capriccio, per potersi vantare di avere un fidanzato più grande con la sigaretta in bocca, che la accompagnava a casa in moto; ma mi ero ricreduta una sera, quando mi aveva chiamata con la voce rotta dal pianto perché aveva litigato con lui. Da quando si era fidanzata, la nostra amicizia andava man mano affievolendosi: cercavamo l'altra solo quando avevamo un problema, ci salutavamo con un cenno distratto tra i corridoi e non ci scambiavamo più di qualche banale messaggio al giorno. Da una parte ero felice per lei, ma dall'altra speravo tornasse single. Mi mancavano le cuscinate in faccia e i capelli arruffati ai pigiama party, quando ci provavamo i vestiti più stravaganti nei negozi, o semplicemente ci dondolavamo placidamente sulle altalene del parco con un cono gelato in mano. Insomma, a dire il vero mi sentivo un po' sola in quel periodo.

La prima cosa che notai, comunque, fu un'anomalia sotto al mio banco: c'era una rosa rossa a cui, grazie a un pezzetto di scotch, era attaccato un post-it con scritti un numero, una data e un indirizzo. Il mio cuore fece un tuffo e il mio sguardo si posò automaticamente su Drew, che attendeva l'inizio della lezione con aria annoiata. Quando si accorse che lo stavo fissando come a cercare una conferma, i suoi occhi intensi sembrarono darmela. Tornai a osservare quel fiore così meraviglioso, cercando di trovare una spiegazione alla sua presenza. Poi mi ricordai che una volta, assillato da tutte quelle richieste e quelle ammiratrici appiccicose come la colla, aveva tirato fuori dalla tasca una rosa esattamente uguale a quella, dicendo, mentre la lanciava dietro sé: “Ve la regalo”. E da lì era scoppiata la terza guerra mondiale: tutte che cercavano di prenderla ed erano finite col tirarsi i capelli a vicenda e darsi spintoni in mezzo alla mischia, come una lotta tra felini che si danno zampate e digrignano le fauci. Il risultato fu il fiore ridotto a un relitto, con i petali flosci e scuriti, sul pavimento freddo della classe: una triste carcassa spolpata dagli avvoltoi. Insomma, la rosa era l'ultima arma di Drew per liberarsi delle seccature. Forse, stavolta, l'aveva lasciata come una specie di firma, per farmi capire subito che il biglietto era da parte sua. Mentre il professor Harley entrava annunciando pimpante un'interrogazione a sorpresa di storia dell'arte del quale al momento poco m'importava, nascosi il dono in cartella. Decisi che, quando avesse iniziato ad appassire, l'avrei fatto seccare nelle pagine di un libro, come mi aveva insegnato mia madre: lei amava le composizioni floreali.

 

Alla fine mi ero fatta coraggio e avevo mandato un messaggio al numero del foglietto, dove chiedevo se allora eravamo d'accordo per quel venerdì. La risposta fu semplicemente “Sì”, che mi fece vergognare all'improvviso del fatto che, nei messaggi, io non mettessi quasi mai le maiuscole e l'accento sul sì; ma da uno studente modello come lui non c'era da aspettarsi altrimenti. Chissà, forse ero la prima ragazza spuntata dal nulla che osava spingersi così in là, perché non vedo ragioni per cui a me avesse detto di sì mentre ad altre, probabilmente meno impacciate e più carine di me, di no. L'appuntamento era appunto quel venerdì, da lui. Ecco un'altra cosa che mi terrorizzava: mettere piede in casa del “fantastico” Drew. Ma d'altronde venire da me non sarebbe stata una buona idea, con il mio fratellino ficcanaso in giro e mia madre che avrebbe di sicuro frainteso; immaginavo già il suo ghigno malizioso mentre apriva la porta della mia camera con la scusa di portarci la merenda, manco fossimo in prima elementare. Di solito le confidavo i miei problemi, era una mamma impeccabile, ma come tutte le madri se c'era di mezzo un possibile genero iniziava a volare al largo con la fantasia.

Perciò dovetti affrontare da sola l'ansia che mi tormentò, insieme all'imbarazzo di vederlo ancora i giorni successivi. Per lui non significava nulla, la sua vita scorreva normalmente; di sicuro era una di quelle persone che si dedicano anima e corpo allo studio, usandolo come distrazione. Per una vita lineare come la mia, invece, un fatto nuovo come quello era oggetto di continuo pensiero, come poteva esserlo una verifica o una visita ai parenti. Per forza: non avevo cose granché importanti a cui pensare, per cui mi appigliavo alle piccole novità che stravolgevano il quotidiano.

Finalmente venne venerdì. Dovevo andare da lui mezz'ora dopo essere uscita da scuola, con mio grande sollievo, così non mi sarei posta il problema di dover mettere a soqquadro la camera alla ricerca di qualcosa di decente da mettermi: avevo una scusa per poter tenere la divisa scolastica.

Trascorsi la giornata ad alternare lo sguardo dall'orologio, appeso nella parete sopra alla lavagna, alla finestra; il cielo era del colore della panna acida, con numerose masse di nuvole cineree che non promettevano affatto un buon tempo. Cercavo a tutti i costi di non guardare in direzione del banco di Drew, altrimenti sarei avvampata senza ragione. Non avevo mai desiderato tanto di sentire il suono stridulo della campanella dell'ultima ora e per quel giorno non ascoltai una sola parola uscita di bocca dagli insegnanti, tanto ero persa nel mio mondo di pensieri ansiosi.

 

Controllai più e più volte il nome della via e del numero civico, temendo di aver sbagliato abitazione. Ero davanti a una villa enorme, la più enorme che avessi mai visto dal vivo. A proteggerla, ai lati del cancello spalancato, c'erano due solidi pilastri, sopra cui troneggiavano due marmoree teste di leone. La casa era a tre piani, di un candido bianco, con le vetrate ampie.

Prima che avessi anche solo il tempo di avvicinarmi al citofono, vidi la figura di Drew poco distante dall'ingresso. Anche lui, come me, era ancora in tenuta da scuola.

«Ciao» mi salutò, pacato. «Entra» aggiunse poi, semplicemente, scostandosi di lato per lasciarmi passare.

Non appena varcai la soglia, la cancellata si richiuse automaticamente con un furtivo cigolio, facendomi sussultare. Era stato lasciato aperto apposta per il mio arrivo? Quello che vidi mi lasciò per un attimo incantata: per arrivare alla porta vera della casa, bisognava passare per un tunnel di archi ricoperti di piante di rosa. C'erano anche aiuole, di rose, che decoravano elegantemente gli angoli del giardino, per il resto composto da un immenso prato.

Drew, notando la mia meraviglia, sorrise, in un modo forse più spontaneo di quanto gli avessi mai visto fare. «Ti piacciono?»

Richiusi la bocca, che avevo tenuto aperta come un pesce lesso, per poi esclamare: «Sì, moltissimo!»

«E quale ti piace di più?» richiese poi lui, alzando gli occhi verso l'arco che ci apprestavamo ad attraversare, per me un sogno a occhi aperti, per lui la normalità più totale.

Ci pensai un po', cercando una rosa che si distinguesse in qualche modo dalle altre. Alla fine ne indicai una bianca e giovane, al cui centro i petali erano screziati di un tenue rosa e al contempo di un arancio sbiadito. La magia che mi aveva rapita alla realtà venne spezzata, insieme al gambo spinato di quel fiore così incantevole, che mi ricadde tra le mani.

«Te la regalo» fu la semplice spiegazione di Drew, che ancora impugnava un paio di piccole forbici – non capivo da dove spuntassero – al mio sguardo frastornato.

«Oh…» mi lasciai sfuggire, un po' delusa. «Ti ringrazio, ma non avresti dovuto.»

Si fece improvvisamente più serio in volto. «Già… È sempre triste tagliarle» commentò, pensieroso. «Ma sono certo che tu saprai conservarla.»

Arrossii inconsciamente, perché non mi aspettavo che fosse così carino e gentile con me.

«Andiamo, da questa parte.» Mi superò, come aveva fatto quel giorno in aula, per farmi da guida attraverso quella galleria ombreggiata.

 

Se l'esterno faceva bella figura, l'interno non era da meno. Probabilmente, anche un oggetto all'apparenza insulso come un vaso o un soprammobile veniva da qualche luogo esotico. C'erano così tanti corridoi che, se non avessi avuto davanti Drew, mi sarei persa entro poco. Osservavo i quadri che di tanto in tanto decoravano i muri, dando un'aria di raffinatezza, così come i tappeti sul quale camminavamo. Non m'intendevo molto d'arte – il professor Harley aveva il quattro facile, perciò non me la faceva esattamente piacere – però rimasi affascinata da quelle esplosioni di colori, ognuna diversa dall'altra.

Speravo ardentemente di poter visitare la sua camera, per scoprire qualcosa in più su di lui: il poster di qualche personaggio famoso, fotografie risalenti all'infanzia, libri non scolastici…

Purtroppo, però, dovetti accontentarmi del salotto. Il lampadario di cristallo troneggiava sopra le nostre teste come un'incudine; un'ampia vetrata lasciava vedere una buona parte del giardino e del cielo, ancora d'un pallido grigio.

C'eravamo soltanto noi, il ticchettio ansiogeno dell'orologio a pendolo all'apparenza antico ma ben conservato, il libro di matematica e, al centro del tavolo, un bicchiere d'acqua di rubinetto ove giaceva la rosa di prima.

«Cosa non hai capito?» chiese lui, con un pugno affondato nella guancia, mentre sfogliava le prime pagine dove spiegavano le nozioni più elementari e intanto mi guardava di sottecchi.

«Ehm… Tutto

«Come sarebbe a dire tutto?»

«… Sarebbe a dire che io non so nemmeno le tabelline, Drew.»

Nella stanza aleggiò un silenzio pesante, rotto soltanto dal muoversi costante delle lancette.

«Ma sei seria? In prima superiore?»

Distolsi lo sguardo, rossa sulle gote. «Beh, sì…»

Al che, Drew esplose in una risata cristallina e fragorosa, che mi fece vergognare ancora di più. Ero rimasta oltretutto di sasso nel vedere Drew Il Magnifico con le lacrime agli occhi dal ridere.

«Mi stai dicendo che dovremmo passare le prossime ore a ripetere la tabellina del due?»

«Quella del due la so» borbottai, stringendo nervosamente l'orlo della gonna. Avrei davvero voluto eclissarmi dalla faccia della terra e sparire per sempre, tanto era grande la vergogna che provavo.

Drew tossicchiò e la sua espressione beffarda sparì, in segno che si era ricomposto un minimo. «E quella del tre?»

Voltai il capo dalla parte opposta, sentendomi offesa. Lo sapevo fin da subito che sarebbe stata una pessima idea.

«Seriamente, dimmela. Non ti prenderò in giro, lo giuro.»

Vedendo i suoi occhi innocenti decisi di fidarmi, ma se fosse scoppiato a ridere anche solo un'altra volta mi sarei alzata e avrei minacciato di andarmene. «Tre… Sei… Nove… Dodici…» Mi bloccai, mentre la mia mente galleggiava nel vuoto, cercando di ricordarsi qualcosa che non c'era.

«Quindici, diciotto, ventuno, ventiquattro, ventisette, trenta» completò lui per me. «Avanti, ripeti.»

«Mi sento una stupida» ammisi, tastandomi la fronte.

Drew richiuse di scatto il libro, perché evidentemente per quel giorno non ne avremmo avuto bisogno. «Finché non la saprai a memoria, non uscirai da questa stanza.»

«Eh?!» squittii, interdetta.

«Hai capito bene. Forza: tre, sei…?»

Cacciai un sospiro esasperato. «Nove, dodici, quindici…»

 

 

Ormai avevo superato l'imbarazzo, perché Drew sembrava prendermi sul serio: i suoi occhi non tradivano più ironia e mi sembrava quasi un miraggio averlo accanto ed essere lì.

Dopo che ebbi finito di ripetere un'ennesima volta la tabellina del sei, con un po' d'esitazione verso l'inizio – non ricordavo mai cosa c'era dopo il ventiquattro – lui mi rivolse un sorriso lieve.

«Penso che per oggi possa bastare» dichiarò.

Io annuii, iniziando a infilare con calma astuccio e quaderno nella borsa, che era rimasta fedelmente ai miei piedi per tutto quel tempo. L'orologio, ormai, segnava le cinque e quaranta.

Drew nel frattempo si alzò, andando alla finestra, con aria assorta. Da più di un quarto d'ora, a farci compagnia oltre il ticchettio delle lancette ci si era messo anche quello battente della pioggia, che aveva iniziato a cadere copiosa bagnando con violenza quell'immensa distesa d'erba.

Quando ebbi raccolto tutte le mie cose, mi alzai, tenendo la borsa tra le mani, un po' esitante.

A quel punto, Drew si voltò verso di me. «Ti accompagno a casa.»

Quella dichiarazione, così improvvisa e soprattutto fuori programma, mi fece sgranare gli occhi e per poco la cartella non mi scivolò goffamente dalle mani. Stetti qualche istante a guardarlo, ancora incredula che tutto quello stesse succedendo, poi mi limitai ad annuire ancora, frenetica. Lanciai un'occhiata alla rosa nel bicchiere: avrei dovuto metterla via in qualche modo, se volevo evitare che si bagnasse e i suoi stupendi petali perdessero la loro bellezza.

 

Pochi minuti dopo, per quanto surreale ancora mi sembrasse, Drew mi stava tenendo per mano. Non sapevo cosa lo avesse mosso a compiere un simile gesto, ma ero troppo agitata e felice, per pensarci. Avevo il terrore che la mia stretta fosse troppo forte, o che lui l'avrebbe mollata perché mi sudavano le mani dall'agitazione. In quella libera tenevo un ombrello di un tenue giallo che mi aveva prestato poco prima di uscire, un po' più piccolo in confronto al suo. L'aria era umida e le gocce cadevano senza sosta ovunque attorno a noi, senza però sfiorarci. Procedevamo con passo abbastanza veloce e lui non si girò mai a guardarmi.

Più rapidamente di quanto credessi, ci ritrovammo davanti al cancelletto che avevo oltrepassato in fretta e furia proprio quella mattina. Era stato lui a guidarmi, dopo avergli accennato solo l'indirizzo mentre camminavamo sotto al varco di fiori, che per fortuna il temporale non scalfiva – al contrario di quelli che circondavano la casa, che si stavano brutalmente annacquando, da quanto avevamo potuto vedere al nostro fugace passaggio. Comunque sia, il romantico giro sotto la pioggia era giunto al termine; me ne resi conto soltanto quando quella calda stretta inusuale mi abbandonò.

Mi voltai verso Drew. Il sottofondo dell'acqua che cadeva incessantemente riempiva il silenzio un po' imbarazzato tra noi. Perché lo notai solo allora: aveva lo sguardo rivolto al basso e sembrava a disagio. Ciò mi rincuorò, dandomi un po' di coraggio.

Strascicai la scarpa sul suolo bagnato con fare distratto, per poi domandare, un po' timorosa: «Ci vediamo venerdì prossimo…?»

Lui alzò subito lo sguardo su di me, sorpreso. Poi le sue labbra si distesero in un sorriso dolce. «Non mancare.»

Detto così si voltò, riprendendo a camminare in modo più lento di prima, con l'ombrello a coprirgli la testa. Il ticchettio delle stille sull'asfalto non accennava a cessare.

Stetti a guardarlo, incantata, finché non sparì svoltando l'angolo. Poi un sorriso si fece strada anche sulle mie labbra e arrossii leggermente. “Non vedo l'ora che sia venerdì.

 


 

Angolo Autrice
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Salve, gente!
Questa Contest era progettata per avere due capitoli, ma alla fine ho trovato una soluzione per ridurre in mancanza di idee, dato che l'unico scopo era basarsi sull'immagine iniziale. Spero che a voi sia piaciuta: personalmente mi sono divertita nell'immaginarli in un contesto scolastico, narrando dal punto di vista della mia Vera :) che non prenderete in giro per la cosa delle tabelline, dal momento che io ho avevo il suo stesso problema. Crediti all'artista per l'immagine che ho preso in prestito!

Alla prossima!
-H.H.-
 
   
 
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