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Autore: indiapipitone    31/03/2016    0 recensioni
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon, Lime, Raccolta | Avvertimenti: Bondage, Contenuti forti, Tematiche delicate
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«Siamo arrivate, scendi. Ci vediamo dopo, Agnese.»

Guardo la macchina di mamma allontanarsi, fino a non vederne più la sagoma. Dovrebbe essere qui il mio nuovo liceo, penso. Chissà che gente si nasconde lì dentro. Chissà cosa succederà quest’anno. Non so come io abbia avuto il coraggio di affrontare tutto questo da sola. Spero che mi troverò bene. Mi piacerebbe fare amicizia, davvero. Non vedo l’ora. Mi auguro soltanto che nulla possa riuscire a bloccarmi, questa volta.

Continuo a camminare lungo il marciapiede, sempre dritto aveva detto mamma. Non riesco a guardare altro che le mie scarpe. E’ parecchio tempo che cammino a testa bassa. I cipressi ai lati dell’asfalto sono leggermente mossi dal vento, come se si inchinassero alla natura.Il cielo è cupo, è un lunedì mattina di marzo come tanti altri, qui a Firenze. Ed io sono una perfetta sconosciuta, incredibilmente spaesata, insicura, spaventata. Una sconosciuta che si sta dirigendo verso una nuova scuolapiena di gente che non ha mai visto.

Eccomi, ci sono. La scuola ora è di fronte a me e leggo: “Liceo Classico”.

Gli studenti sono pochi a quest’ora, è abbastanza presto.

L’edificio sembra un vecchio monastero abbandonato, dall’esterno. Due piani su cui si susseguono delle finestre di legno giganti levigate dal sole. Il muro è di un marroncino un po’ strano e il portone è spalancato. Come se aspettasse me.  

Entro.

«Buongiorno, vorreisaperedovesitrovalamiacla...»

«Oh calma cara! Non mangiamo mica. Io sono Vincenzo, il collaboratore scolastico più simpatico nella storia dei collaboratori scolastici! Potresti ripetere tutto più lentamente e ad alta voce?»

«Ehm, mi chiamo Agnese e vorrei conoscere l’ubicazione della mia classe.»

«Ah, ma sei tu! Cambiare nel bel mezzo del quadrimestre, e per di più al terzo anno di superiori, non è da tutti, sai? Sei stata molto coraggiosa! Immagino che sia un po’ difficile per te, in questo momento, sai, ambientarti in una nuova scuola può essere problematico all’inizio. Ma ti troverai bene, giusto?»

«Ehm, sì.»

«La tua aula è la prima D, in fondo al corridoio, ultima stanza a destra, cara. Passa un bel primo giorno di scuola e fai amicizia, ti raccomando! La campana suonerà tra venticinque minuti. Buona fortuna!»

Con la cartella quasi vuota, fin troppo leggera, mi dirigo verso la mia classe. Quarto ginnasio... quinto... 

Prima D.

Entro.

Non c’è nessuno.

Addirittura la luce è ancora spenta. Dalla finestra entra poca luce, si sta mettendo a piovere. 

Accendo la luce.

Scelgo il banco vicino alla finestra, in fondo all’aula. Spero che non sia di nessuno.

Prendo il cellulare, il solito. Dovrei cambiarlo. Il bianco è ormai rovinato dal tempo... e dalle numerose cadute accidentali...

«Cavolo, dove sono le cuffiette...»

Dei passi.

«Sconosciuta! Oh, una sconosciuta a contatto col mio banco, sulla mia sedia! Chi le ha concesso il permesso? Non gliel’ha detto nessuno che prima si deve chiedere al ReOh ma, sbaglio, o la signorina qui presente stava parlando da sola? Se è questo l’effetto del Re, allora posso ben compatirla. So di certo che non è facile resistere a tale bellezza.»

«Scusa, sparirò in un attimo, non era mia intenzione invadere i tuoi spazi...»

«Farebbe meglio a togliersi all’istante, signorina!»

«Mi dispiace...»

Inizia proprio male.

Prendo la cartella e mi alzo.

«Ah maddai, stavo scherzando. Sono secoli che non ho un compagno di banco, non chiedermi il perché. Insomma, il posto accanto alla finestra era mio, ma puoi tenerlo. In fondo sono stanco di vedere le ochette starnazzanti passare e guardarmi con quell’aria di “ti salterei addosso all’istante”. Come hai detto che ti chiami? Oh, rimetti a posto la cartella, dico davvero. Siediti.»

Ci sediamo entrambi.

«Io sono Agnese. Piacere.»

«Bruno. E’ così che mi chiamo. Mi chiamo come il colore dei miei capelli, fantastico, no?»

Lo guardo.

Bruno ha i capelli scuri. E gli occhi marroni. Marroni come la corteccia di un pino. O come i semi di cacao. Un marrone di quelli belli, un marrone che ti prende, ecco. Le sopracciglia leggermente curve, non troppo folte, non troppo sottili. Un ciuffo di capelli gli sfiora la fronte, come per sottolinearne la naturale simmetria. E poi ha un naso perfettamente dritto, in armonia col resto del viso, squadrato e fine. I lineamenti sembrano essere stati tracciati con la più precisa delle matite.

E ha le labbra.

Cioè, sì, ha le labbra, è ovvio, però le sue sono diverse. Non passano inosservate, no. Sono carnose, leggermente più rosate rispetto alle guancie. E hanno l’aria di essere morbide. Morbide e profumate.  

Non un pelo sul viso, né una ruga che osi levigare il suo volto, la sua fronte. Un viso, quello di Bruno, di chi è ancora nel bel mezzo di un sogno, giovane e radioso, splendente come non mai. E ha quella luce, negli occhi, che giuro, è diversa. E’ come se riflesse ci fossero tutte le cose belle del mondo, come gli arcobaleni o le onde del mare, come le nuvole, come l’erba fresca la mattina...

«Da dove vieni?»

«Che intendi?»

«Insomma, ti ho vista prima, mentre ti dirigevi qui. Camminavi lenta, come se non sapessi dove andare. Si vede che sei nuova, si capisce. Da dove vieni?»

«Abitavo in un paesino.»

«Dove?»

«In provincia di Roma.»

«E come mai sei qui? Proprio in Sicilia?»

«Mia madre si è dovuta trasferire per motivi di lavoro.»

«Oh, beh, capisco. E quando sei arrivata?»

«Giovedì.»

«Bene. Piacere di conoscerti, comunque. Sei una tipa apposto.»

Bruno prende le cuffie e inizia ad ascoltare qualcosa. Chissà che tipo di musica gli piace.

Una ragazza con gli occhiali entra. Mi lancia un’occhiata velocissima, quasi impercettibile. Si siede al primo banco, dall’altra parte dell’aula. Sembra confusa. Prende un quaderno e inizia a scrivere. Non avrà fatto i compiti.

Passa qualche minuto, entra un altro paio di ragazzi. Si siedono vicini. Anche loro mi lanciano un’occhiata fugace.  

Fuori dalla finestra alcuni ragazzi fumano, altri parlano, altri ancora hanno il cellulare in mano.

La campanella suona. Qualcuno si affretta a raggiungere la classe, qualcun altro indugia, come se volesse rimanere in giardino.

Entrano in classe parecchi ragazzi, circa una ventina. C’è chi parla a bassa voce, chi mi indica.

Arriva la professoressa. Sembra un’altezzosa, magra signora dall’aria un po’ stanca, il viso sciupato dagli anni. I capelli sono biondi e cotonati, avrà circa cinquant’anni. Porta una gonna a quadretti che mai nessuno indosserebbe e una giacca grigia. Un ciondolo blu le pende dal collo. E’ la professoressa d’italiano, quella con cui ha parlato mamma l’altro giorno.

«Bene ragazzi. Buongiorno. Tutto bene? Sicuramente qualcuno avrà notato una nuova presenza in classe.»

Tutti si voltano verso di me.

Bruno ha smesso di ascoltare musica, adesso ha gli occhi persi nel vuoto.

«Vi presento Agnese. Viene dal liceo classico di un’altra città. Spero che l’accoglierete bene. Perfetto, potete prendere il libro di letteratura.»

«Immagino che il tuo sia un libro diverso. Beh, puoi sempre aiutarti con il mio se trovi difficoltà.» mi dice Bruno.

«Grazie.»

Passano due ore e non oso parlare con nessuno, né tantomeno con Bruno. Lui sembra non accorgersi del mio sguardo. 

Io non ascolto nulla sul discorso riguardante Petrarca, adesso non mi interessa.

Mi chiedo se quest’anno ce la farò.

Sono certa che sarà difficile, per me, ambientarmi in un posto nuovo.

Non mi accorgo nemmeno della campanella che, per la terza volta oggi, suona.

Un professore con l’aria malaticcia si siede. Ha i capelli bianchi e una camicia rovinata dal tempo

«Ben arrivata, Agnese. Io insegno matematica.»

«Buongiorno professore.»

Guardo fuori dalla finestra. 

Piove. 

Piove da un po’, non so quanto tempo sia passato. 

Mi piace la pioggia.

Le goccioline d’acqua che picchiettano dappertutto.

«Comunque io penso che non ci sia cosa più bella del sole dopo la pioggia. E’ come una bevanda calda che ti riscalda il cuore d’inverno. Ti rassicura. Il sole, quando ha smesso di piovere, ti fa sentire meglio. Ti fa sentire come se tu potessi credere ancora in qualcosa.»

Bruno mi ha parlato. E ha detto delle parole meravigliose.

Mi chiedo se stesse frugando tra i miei pensieri mentre parlava.

«A me piace la rugiada che si forma sulle foglie.»

«Meravigliosa.»

«Già.»

«Oh, non la rugiada.»

«E cosa?»

«Lascia stare, Agnese.»

La campanella annuncia la ricreazione.

Tutti si affrettano a uscire. Bruno segue gli altri ragazzi, con le cuffie ancora nelle orecchie.

Io decido di non uscire fuori.

In classe, oltre me, rimane solo unragazzo dall’aria stanca e annoiata.

Anche lui sembra solo.

La ricreazione finisce e passano altre tre ore.

Bruno rimane concentrato, prima sulla storia, poi sul latino.

Gli occhi fissi sui libri, ma lo sguardo altrove.

Non parla.

Mi chiedo se sia felice.

E così suona l’ultima campana e tutti escono dalla classe.

Anche Bruno.

Io sono l’ultima e sto per uscire.

«Ah, dimenticavo. Ci vediamo domani, Agnese.»

E’ tornato solo per dirmi questo.

Certe cose sono inaspettate.

Ti colgono alla sprovvista, ma fanno la differenza.

 

Fuori non c’è nessuno. Mia madre ovviamente non è venuta a prendermi.

Mi siedo su una panchina.

Sono vicino alla strada, di fronte c’è un parchetto con due altalene e uno scivolo, e gli alberi.

L’aria è umida. Punge un po’. Dà fastidio, come se facesse male.

E le cose che fanno male, ma ne fanno poco, possono farti soffrire più delle cose che fanno tanto male.

Perché tanto dolore prima o poi si ferma.

Ma se viene piano, e continua, non si ferma, ti uccide dentro, non fisicamente.

Tipo come quando mamma e papà hanno divorziato.

E’ cambiato tutto.

Mamma non verrà a prendermi.

Sento freddo.

Passano i minuti.

Inizia a piovere, dal cielo. E piovono anche i miei occhi.

Non ho nessuno.

Le mie lacrime scorrono sul viso, insieme a quelle delle nuvole.

E penso a quegli occhi.

Quel marrone.

Stringo i piedi e rimango a guardare il cielo.

Il volto rigato dalle lacrime.

 

«Stai bene?»

Alzo gli occhi.

E’ Bruno.

«Non è consigliabile stare sotto la pioggia in questo modo. Potresti prendere la febbre.»

«...»

«No, davvero. Perché piangi?»

Si siede accanto a me, il cappuccio della felpa grigia sulla testa.

«Ehi, smettila.»

«...»

«Ti prego.»

Bruno.

Bruno fa una cosa meravigliosa.

Bruno mi abbraccia.

Le sue braccia mi stringono forte, come se non volessero lasciarmi.

E’ una sensazione del tutto inattesa, strana. Qualcosa che non ho mai provato prima.

Mi sento così sollevata.

Mi sento come se a qualcuno importasse di me.

Sento il ticchettio della pioggia che cade sulle nostre spalle.

E sento il suo cuore battere, vicino al mio braccio.

Gli occhi bassi, non lo guardo.

«Tremi.»

«...»

«Va tutto bene, tutto bene. Calmati. Non singhiozzare, no. Mi stai bagnando tutta la felpa. Ti prenderai un raffreddore, sai? Senti, dovevo andare a casa ma visto che sei tutta sola, sto io con te, intesi?»

Annuisco.

Non so come sia possibile, ma mi sento meglio.

Mi sento al sicuro.

«Senti, io non so che tipo di ragazza tu sia. Non lo so. E’ che oggi non ti ho vista sorridere e sto prendendo in considerazione l’idea che tu non sia felice.»

Smette di piovere.

Non piango più, adesso.

«Alza gli occhi, Agnese, devi vederlo.»

L’arcobaleno.

«La felicità non fa per me» dico.

«Ti sbagli. La felicità è adatta a tutti, non volta mai le spalle. Insomma, magari a volte potrà sembrarci tutto irrisolvibile, tremendamente triste. Vedi, non è così, sai? Guarda il cielo. C’è l’arcobaleno. Vuol dire che le cose belle prima o poi appaiono ai nostri occhi, anche se magari prima dobbiamo sopportare burrasche e temporali. La felicità è di tutti, Agnese, anche tua. E devi crederci se te lo dico io, seriamente. Non so per quale motivo tu fino a due minuti fa stessi piangendo, ma credo che le cose belle siano anche adatte a te, non trovi? E poi non considero una coincidenza, il fatto che, appena hai smesso di piangere, sia apparso l’arcobaleno. E a dirla tutta, non penso nemmeno che sia un caso se ti sto vedendo sorridere per la prima volta, oggi.»

E’ vero, sto sorridendo.

Non me ne ero accorta.

E non avevo fatto caso al braccio di Bruno, che ancora è attorno alla mia schiena.

«Sei stupenda quando sorridi.»

Un tuffo al cuore.

Continuo a guardare i colori del cielo, che sbiadiranno presto.

Un’auto azzurra si posteggia vicino al parchetto, nell’altro lato della strada. 

E’ mia madre.

«Devo andare, scusami. Mi spiace, non volevo che qualcuno mi vedesse in questo stato.»

«L’ho fatto con piacere.»

«Bene. Allora io vado.»

«Mi prometti una cosa?»

«Cosa?»

I suoi occhi fissi sui miei.

Sembra che vorrebbero urlare.

«Me lo prometti che stasera non piangi? Sorridi, piuttosto, fallo per me.»

«Ci proverò.»

Con un cenno, mi saluta.

Mi dirigo verso mia madre, lo sguardo basso.

 

«Mi dispiace, ti ho fatto aspettare tre quarti d’ora, scusami. E' che avevo da fare e non potevo lasciare tutto in tredici, capisci? Stavi piangendo?»

«Sto bene, andiamo a casa.»

«Come vuoi.»

 

Dopo circa mezz’ora arriviamo a casa.

E’ un po’ scomodo avere la scuola lontana.

Mia madre lascia la macchina fuori dal grande cancello verde scuro che precede il nostro giardino.

Apre il cancello.

Scendo dall’auto e mi dirigo verso la veranda.

Ci sono piante a destra e a sinistra. A mia madre piace il giardinaggio. Alcune piante fioriranno presto, in primavera, nel pieno della loro bellezza.

Ha portato i vasi con lei quando siamo partite, quelli più belli. 

Non poteva lasciarli da papà.

Una volta mi parlava sempre dei suoi gerani, delle sue magnolie. Adesso sta sempre zitta e se parliamo, si arrabbia.

Comunque, pur essendo piccolo, è un giardino carino.

Il pavimento è ammattonato di un rosa piuttosto pallido. Il muro della casa èbianco. E’ un’immagine alla quale non sono abituata ad assistere. Questa casanon la sento mia.

C’è un portone in legno, lo stesso legnocon cui sono fatte le finestre che si affacciano in giardino. 

Entro nel salone, ancora pieno di scatoloni e cianfrusaglie. Salgo le scale e vado in bagno.

Dopo una doccia veloce, arrivo in camera e mi butto a capofitto sul letto.

Sommersa dai pensieri, ho la testa in subbuglio.

Ancora una volta ho quel pensiero nella testa.

Gli occhi di Bruno.

Mi addormento con la sua immagine che mi tormenta.

Voglio conoscerlo.

   
 
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