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Autore: Cami1507    31/03/2016    0 recensioni
Alexia Reed non è una ragazza come le altre: lei non parla. Ha smesso di parlare dodici anni prima, quando, a sette anni, ha avuto un incidente. Da allora la sua vita è avvolta nel silenzio.
Ma è a Manhattan, città in cui i suoi genitori hanno deciso di trasferirsi per lavoro, che Alexia comincerà a capire di essere speciale, di avere un dono. Un dono che lei non vuole possedere perché l'unica cosa che vorrebbe è essere una normale ragazza dell'ultimo anno.
Invece deve fare i conti con un passato che sente non appartenerle e un destino che non vuole avere.
E non le importa se ci sono altri quattro ragazzi a condividere con lei lo stesso destino.
Genere: Avventura, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Una mano mi toccò il polso e io sobbalzai sul posto, portandomi dal lato opposto a quello da cui proveniva la mano. Andai a sbattere contro qualcosa. Alzai gli occhi dalle mie mani e vidi Jason, che mi fissava con sguardo accigliato. «Alex, mi senti?».
Sbattei più volte le palpebre e mi accorsi di essere in un auto, davanti a casa mia. «Co-cosa è successo?», chiesi guardandomi intorno spaesata.
Jason tirò un sospiro di sollievo e si rilassò un po’ sul sedile. «Meno male sei tornata in te».
«Tornata in me?», non capivo cosa intendesse.
«Sei stata in una specie di trance da quando ti abbiamo trovata nella cucina di Jordan… Davvero non ricordi nulla?».
Mi ricordavo che quel Leo aveva provato a baciarmi, ma dopo che erano accorsi loro tutti i miei ricordi erano confusi, se non addirittura assenti. Scossi la testa.
Il mio amico fece un respiro profondo e poi disse «Dobbiamo cominciare al più presto. I tuoi poteri, senza controllo, potrebbero mettere seriamente in pericolo qualcuno». Scosse la testa. «Meno male che stasera c’eravamo noi, sennò avresti fatto saltare in aria le tubature di tutto il quartiere».
Mi sentivo come se partecipassi da spettatrice, e non da protagonista. Era come se non fossi io a comandare il mio corpo: questo prendeva iniziative proprie e non rispondeva ai comandi.
«Mi dispiace», dissi tornando a guardare in basso.
«Non ti preoccupare, imparerai. Non è colpa tua…». Posò la sua mano sopra la mia — che tenevo in grembo — e la strinse. La guardai e vidi che all’anulare portava un anello d’oro bianco con in mezzo incastonato un rubino — decisamente molto vistoso a mio parere.
Posai l’indice dell’altra mano sopra l’anello. «Il tuo amuleto, vero?», chiesi.
Lui sorrise e ritrasse la mano, ma solo per strofinarsi l’anello con le dita e cominciare a giocarci.
«Già», rispose. «Quando ero più piccolo mi stava larghissimo, perciò inizialmente lo portavo appendo al collo, insieme a una catenina. Poi crescendo ho cominciato a portarlo al pollice. E così via, fino ad arrivare all’anulare… Meno male che non mi sono cresciute ancora le mani, sennò mi toccherebbe portarlo al mignolo e, detto tra noi, sarebbe ridicolo con questa grossa montatura», rise tra sé e sé.
Io sorrisi e guardai davanti a me, assorta nei miei pensieri.
«La prossima volta che verrai alla Congrega i Custodi ti lasceranno il tuo… Dovrai sempre portarlo con te», poi abbassò la voce, sussurrando come se mi stesse confidando un grandissimo segreto. «Anche se, devo ammettere, che a volte mi dimentico di mettermelo».
Allargai di più il sorriso, tanto da scoprire i denti. Quella confessione lo faceva apparire più… umano. Alla fine eravamo solo dei ragazzi, a cui era stato dato un compito da adulti, capitava che qualche volta dimenticassimo qualcosa.
«Grazie, Jass. A te e a tutti gli altri», gli dissi, stringendomi nel giubbotto, prima di scendere dalla macchina.
«Buonanotte, Alex», mi salutò lui. Aspettò che io fossi entrata nell’edificio e poi ripartì.

 

Raggiungimi all’Empire

Diceva il messaggio che mi era appena arrivato da parte di Caroline.
Mi alzai dalla panchina su cui mi ero fermata a pensare e mi avviai verso la base della Congrega. Stamattina avevo lasciato un messaggio ai miei dicendogli semplicemente che andavo a fare una passeggiata, avevo preso la Madison Avenue ed ero arrivata a Madison Square Park, dove mi trovavo adesso. Arrivata alla strada presi la 5th Avenue in direzione nord. Erano solo sette isolati fino all’Empire State Building, perciò non mi scomodai nemmeno a fermare un taxi.
L’aria fredda mi aiutava a pensare più lucidamente: la sera precedente stavo per far saltare in aria l’impianto idraulico di una casa, se non forse dell’intero quartiere, e non me ne ero nemmeno resa conto. Se non ci fossero stati gli altri ragazzi, soprattutto Caroline, probabilmente avrei distrutto la casa.
Mi tirai più su la sciarpa, fin sotto al naso, in modo da ridurre al minimo la pelle esposta al freddo di gennaio. Il cappellino azzurro mi arrivava appena sopra gli occhi e i lunghi capelli erano raccolti sulla spalla in una folta treccia.
Dopo una decina di minuti arrivai a destinazione e Caroline mi aspettava nell’atrio dell’Empire.
«Aaron vuole vederti», disse Caroline.
Mi girai verso di lei. «Ha saputo di ieri sera». Non era una domanda, era scontato che loro l’avessero avvisato. Car annuì. «Come è andata ieri sera, quando me ne sono andata?», chiesi.
Lei alzò le spalle. «Siamo riusciti a contenere i danni: solo il lavandino della cucina era saltato irreparabile, perciò qualcuno ubriaco potrebbe accidentalmente averlo rotto».
«E… Leo?», dissi con orrore ripensando a quanto mi fosse vicino.
«Si sarà svegliato con un occhio nero stamattina, ma era ubriaco, perciò dubito che si ricordi qualcosa».
Annuii.
Scendemmo dall’ascensore e ci avviammo in silenzio verso lo studio di Aaron. La strada mi risultò un po’ più familiare.
Quando arrivammo Car bussò alla porta, e, dopo che Aaron ci diede il permesso, la aprì. Feci un passo dentro l’ufficio e mi bloccai.
Davanti a me, seduti alla scrivania del capo della Congrega c’erano i miei genitori.
«Oh, bene, Alexia!», disse Aaron alzandosi in piedi. «Entra pure, ti stavamo aspettando».
Con la coda dell’occhio vidi Tom che si era alzato, che aveva preso una sedia e che la stava posando tra i miei genitori. Mi voltai verso Caroline, in cerca di aiuto, ma lei chiuse la porta tra noi, con un sorriso di scuse. Con movimenti rigidi mi portai verso la sedia e mi ci sedetti, stando attenta a tenere lo sguardo ben piantato per terra, così da non incrociare quello di nessuno.
«Allora, è vero?», chiese mio padre. Il suo tono non era accusatore, come mi sarei aspettata, ma dolce.
Continuai a fissarmi le mani, ma annuii. Mi sentivo come una bambina che veniva convocato dal preside per aver combinato un pasticcio a scuola.
Sentii papà sospirare e con la coda dell’occhio lo vidi piegarsi in avanti, appoggiare i gomiti alle ginocchia e nascondere il viso tra le mani.
«Ma come è possibile?», chiese la mamma.
«Non lo sappiamo, Mrs Reed. È scritto nel suo destino, la dea l’ha scelta», rispose Aaron.
«E adesso?», la domanda uscì come un gemito dalle labbra di mio padre.
«Adesso, se accetterete, ci prenderemo noi la responsabilità di istruirla e di prepararla. Io stesso la allenerò, così che possa avere pieno controllo sui propri poteri e così che non faccia più capitare piccoli… incidenti», disse Tom.
«Incidenti?», chiese papà alzando la testa. «Di che tipo di incidenti state parlando?».
Il capo della Congrega aprii la bocca, ma fu mia madre a parlare. «Peter», lo chiamò. Lui si girò verso di lei. «Lo sai», disse lei.
Alzai la testa e mi girai verso di lei, incredula.
«Dentro di noi l’abbiamo sempre saputo che avevi qualcosa di…», ci pensò su. «Speciale».
«Speciale», dissi sprezzante, con un filo di voce. «Dì piuttosto strano».
La mamma spostò lo sguardo verso papà, poi lo riportò su di me. «Tesoro, diverso non vuol dire per forza strano», posò una mano sulla mia guancia. «Vedevamo che ti capitavano cose inspiegabili quando eri molto arrabbiata, ma pensavamo che quando sarebbe arrivato il momento giusto ce ne avresti parlato di tua spontanea volontà».
Serrai la mascella. Lo sapevano ma non avevano mai fatto o detto nulla. «Beh, sbagliavate!», sbottai. «Per tutto questo tempo cercavo di nascondere tutto questo, per paura della vostra reazione. Ero spaventata per quello che mi stava succedendo, ma lo ero ancora di più al pensiero di quello che avreste potuto pensare di me, se solo aveste saputo…», mi morsi il labbro. Abbassai di nuovo lo sguardo sulle mie mani, per qualche istante, poi chiusi gli occhi e feci un respiro profondo. «Io ho ucciso Hope», dissi. «Mi ero arrabbiata con lei ed ho fatto prendere fuoco alla casa», la mia voce era poco più di un sussurro. «Per tutti questi anni mi sono sentita così in colpa per quello che le ho fatto e per quello che ho fatto a voi. Pensavo che non meritavo tutto quello che facevate per me, tutte le vostre premure. Per questo ho smesso di parlare».
«Tesoro, ma non è stata colpa tua», disse papà.
«Si invece», dissi senza guardarlo.
Lui si alzò e si mise davanti a me, piegandosi sulle ginocchia in modo da avere la testa all’altezza della mia faccia. «Non lo devi dire nemmeno per scherzo. Eri una bambina, e non potevi sapere che cosa ti stesse succedendo, non controllavi questa cosa, perciò non è colpa tua».
«Vorrei non essere così», confessai con voce tremante.
La mamma comparve accanto a papà. «Oh, Lexie! Tu sei nostra figlia e noi ti amiamo così come sei».
Gettai le braccia al collo a entrambi — cosa che non facevo da molto, troppo tempo — e li abbracciai. «Vi voglio bene», confessai tra le lacrime.
«Anche noi piccola», sussurrò papà, dandomi un bacio sulla testa.
«Cosa hai deciso di fare, allora?», chiese mamma quando ci staccammo.
«Rispetteremo la tua scelta, qualunque essa sia», mi rassicurò papà.
Guardai Aaron e Tom. «Voglio allenarmi», annunciai. «Voglio imparare a gestire i miei poteri e usarli in modo corretto».
Aaron annuì, sorridendo, mentre Tom disse: «Cominceremo l’allenamento lunedì. Un auto verrà a prenderti a scuola e ti allenerai con me e i ragazzi nel Liberty State Park».
Quando uscimmo dall’ufficio di Aaron mi ritrovai davanti i miei amici, che mi aspettavano. Caroline appena mi vide saltò in piedi e mi venne ad abbracciare.
«Come è andata?», mi chiese. Dietro di lei anche gli altri si alzarono. 
«Bene», risposi, non solo a lei, ma a tutti. Vidi Jason che mi sorrise, poi distolse lo sguardo e si portò una mano dietro la testa.
Quando sciolsi l’abbraccio con Car vidi mamma e papà scambiarsi uno sguardo d’intesa, poi papà disse: «Vedi Lexie, noi stasera abbiamo una cena di lavoro e probabilmente faremo tardi… Perché non inviti i tuoi amici a dormire?».
Sgranai gli occhi: non era da papà comportarsi in questo modo. «Beh… Non lo so… Loro…», blaterai.
«Ci farebbe molto piacere, Mr Reed», intervenne Car.

   
 
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