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Autore: serClizia    02/04/2016    5 recensioni
Mental institution!AU in cui l'ospedale è un po' un purgatorio, un po' l'inferno.
Entrambi saranno costretti a fare i conti con i demoni nella propria testa.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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9.

I wanna heal
I wanna feel like I’m close to something real
I wanna find something I wanted all along
Somewhere I belong

           



L’ora del martedì era la più facile di tutte, per Meg.
Dei pazienti che si susseguivano giorno dopo giorno alla sua scrivania, vomitandole addosso lacrime da coccodrillo e insulti, Castiel era il suo preferito. Veniva ogni settimana in perfetto orario, si sedeva al suo posto, si metteva in quella che lui probabilmente riteneva una posizione comoda, e fine. Non parlava. Non proferiva parola. A niente erano serviti i suoi tentativi di fargli dire anche solo ‘Buongiorno’ quando entrava dalla porta. Sembrava un automa, il soldato perfetto, come diceva la sua cartella clinica. Col passare dei mesi ci aveva dato su, e quando arrivava il loro appuntamento, si accomodava felicemente coi piedi sulla scrivania e si dedicava a fare quello che non riusciva a fare durante le altre sue ore come Dottoressa Masters, per poi accompagnarlo alla porta e rimettere su le sue vesti ufficiali alla fine dell’ora. Non si aspettava niente di più, da lui, se non completo ed inesorabile silenzio. Castiel aveva anche assistito ad innumerevoli telefonate con quello stronzo dell’avvocato di Crowley (e con l’ex marito in persona, in un paio di occasioni, e Meg doveva ammettere di aver urlato almeno una di quelle volte) ma lui niente, non batteva mai ciglio e rimaneva imperterrito a fissare il vuoto.
Quel martedì, però, qualcosa la turbava. Forse era il fatto che Castiel fosse in ritardo di 10 minuti e non era mai successo, o forse era quello che le aveva detto il Dottor Milton: Castiel gli aveva parlato.
Meg aveva fatto di tutto per rimanere impassibile davanti alla notizia, ma si era fatta ripetere parola per parola quello che si erano detti. Per motivi terapeutici, chiaro, non perché fosse curiosa come una gatta. Fece una smorfia, doveva smetterla di fare così. Non vedeva l’ora che arrivasse il momento in cui le frasi di Crowley (“Sempre curiosa come una gatta, eh?”) le scivolassero via dall’inconscio. Avesse potuto, le avrebbe spellate via lei stessa.
Al rintocco del dodicesimo minuto, la porta si aprì su di un Castiel scompigliato, con le spalle cadenti, la faccia livida dalle occhiaie. Meg lo fissò con sorpresa senza riuscire a proferire parola lei stessa.
Lo osservò richiudersi la porta alle spalle e sedersi al suo posto, stavolta scomposto, con il gomito sul bracciolo e il mento sul palmo, pensieroso. Preoccupato.
Aveva a che fare con quel Winchester? Dopo la conversazione con Milton era andata a spulciarsi la sua cartella clinica. Un caso da manuale di schizofrenia paranoide, quello. E chiaramente il suo muto con PTSD doveva collidere con una personalità del genere. Un classico, il salvatore e il salvato che non vuole essere salvato. Non avrebbero mai dovuto farli incontrare, due così.
La curiosità professionale le solleticò un po’ la gola. Avrebbe volentieri ceduto il mutismo per la schizofrenia, doveva chiedere a Milton di fare a cambio.
“Castiel,” esordì. Visto che sembrava fuori dalla sua membrana, doveva provare a fare breccia pure lei.
Il paziente si voltò a guardarla con uno sguardo di confusa disperazione. Almeno era qualcosa.
“C’è qualcosa di cui vorrebbe parlarmi, per caso?”
E incrociò le dita. Era una ‘fredda stronza malefica’ (con perfetto accento British di Crowley a risuonarle in testa) ma ciò non voleva dire che non le piacesse fare il suo lavoro. Voleva, doveva far parlare il suo paziente e rispedirlo più o meno funzionante in società, a metter su una famiglia e fare danni anche in quella, creando un’altra generazione di pazienti e via dicendo. Ok, forse era davvero una fredda stronza malefica.
Castiel sembrò accogliere la domanda con gioia. Sì, c’era qualcosa di cui voleva parlare. Con estremo fastidio di Meg, si scoprì che non voleva affatto parlare di se stesso e della propria terapia.

La prima volta che Castiel parlò, fu di un’altra persona. Parlò di Dean Winchester. Prevedibile, certo, ma comunque una sorpresa. Si sporse in avanti, incrociò le dita tra le ginocchia e le piantò addosso uno sguardo blu e tormentato.
“John Winchester è tornato,” asserì, come se questo significasse qualcosa. Come se per tutti dovesse avere lo stesso peso che gliene dava lui.
“È imparentato con il suo amico Dean?”, tentò Meg. Castiel annuì, ancora rigido. Sembrava deciso a parlare ma contemporaneamente a mantenersi placido, come un’esplosione che si rifiuta di accadere. La sua tranquillità era disarmante, così scoordinata dal suo aspetto e dal subbuglio che doveva avere dentro.
“Si è avvicinato al nostro tavolo come se niente fosse. Come se non fosse una bomba appena caduta in un campo profughi.”
Meg annotò mentalmente l’analogia militare.
“E la faccia di Dean. Lui era… completamente perso. Non l’avevo mai visto così, con l’espressione di un bambino sperduto.”
Sospirò. Meg non avrebbe voluto niente per paura di fermare il miracolo, ma non si trattenne.
“Era la prima volta che questo parente veniva a trovarlo, quindi.”
Castiel sembrò quasi stupito che lei non sapesse di chi stessero parlando. “Padre. È suo padre.”
Problemi col padre, un classico.
“No, non era mai venuto. Non si faceva vivo da quasi un anno.”
Paura dell’abbandono, chiaro.
“Ha detto il motivo del suo ritorno al suo amico?”
Castiel chiuse brevemente gli occhi, prese un altro lungo sospiro. “Sì. È nel programma degli alcolisti anonimi.”
Quindi i 12 passi, chiedere scusa. Niente di nuovo. Meg era sempre più intrigata, soprattutto dal perché la cosa avesse spinto Castiel a rompere quel lungo silenzio, a sconvolgerlo così tanto.
“Penso sia un passo importante per Dean,” azzardò. “Sarà stato un momento topico, per lui. Rivedere il padre, ricevere le sue scuse. Magari riuscire a perdonarlo.”
Si allungò contro la sedia, pensieroso. “Sì. Sì, lo è stato. Dean era… molto sorpreso. E credo che John… sì, John gli ha fatto capire molte cose.”
Forse stavano andando da qualche parte.
“Cosa pensa gli abbia fatto capire?”
“Che non era colpa sua. Che niente di tutto quello che gli aveva fatto credere era vero. Che non è pazzo.”
Meg intrecciò le gambe sotto la scrivania, pendendo dalle sue labbra. “Pensa che possa succedere anche a lei? Che qualcuno entri qua dentro a dirle quello che vorrebbe sentirsi dire?”
Castiel scosse piano la testa, sembrava in un luogo lontano, come se l’ascoltasse solo in parte. “No, non è… A me non succederà.”
“Ne è così sicuro? Potrebbe ricevere questa certezza anche da qualcuno che non si aspetta. Qualcuno al di fuori della sua famiglia.”
Il ragazzo la incenerì con lo sguardo. “Non è della mia famiglia che sto parlando. E non ho bisogno che mi dicano che non sono pazzo, per saperlo.”
“Quindi crede che Dean non fosse in grado di saperlo da solo?”
“Dean… è diverso.”
Non aggiunse altro, non addusse spiegazioni. Meg cominciava a dubitare che qualunque cosa stessero dicendo, gli sarebbe stata utile per aiutarlo nella terapia.
“Quindi si sono parlati, chiariti. Lei cosa ha fatto?”
“John ha parlato. Ha porto le sue scuse. Dean ha ascoltato e poi…”
“E poi?”, lo incalzò.
“E poi me ne sono andato,” ammise, sempre più affranto.
“Perché?”
“Perché ho visto il sollievo sul suo volto. Perché Dean starà meglio.”
“Bene. È un bene per il suo amico, no?”
Castiel annuì, lentamente. “Per lui, sì.”
“E per lei no?”
Finalmente il bandolo della matassa stava arrivando al termine.
“Non proprio, no.”
“E perché?”
“Perché tutto questo vuol dire che Dean… se ne andrà.”
Si schiacciò contro la sedia, come sconfitto di fronte a quell’improvvisa realizzazione.
“Certo, e questo è un po’ il punto, non crede? È anche il nostro obiettivo.”
Ma Castiel aveva smesso completamente di ascoltarla. Si era raccolto nella sua posizione standard da appuntamento del martedì, e aveva ripreso a fissare il vuoto di fronte a sé.
Meg provò a richiamarlo al qui e ora, ad attirarlo con domande su questo Dean Winchester, a sventolargli sotto il naso interpretazioni sulle analogie tra la sua situazione e quella del suo amico, ma niente. Castiel era tornato il suo muto paziente di sempre.
Lo osservò per i rimanenti dieci minuti mentre si limava le unghie, pensando e ripensando alle cose che le aveva detto, a come utilizzarle per elaborare una strategia di successo.
Allo scoccare della fine dell’ora, si alzò come un automa e si diresse verso la porta. Meg gliela aprì e lo lasciò uscire, come da prassi. Si richiuse dentro a pensare nei 10 minuti di tempo prima del prossimo paziente. L’unica soluzione che le venisse in mente, era quella di provare a parlare con questo Dean Winchester.



Note dell'autrice:
Capitolo corto, ma necessario. Scusate per le lunghe pause, sono una necessità dettata dalla mia nuova abitazione DOVE NON PRENDE INTERNET MA TE PARE CHE SIAMO NEL 2016 ED ESISTONO ANCORA POSTI DOVE NON PRENDE INTERNET ok mi calmo. Anyway... lancio la campagna #saveCas perché è un cutie pie e... ecco. Buonanotte.
solito link alla mia pagina Autrice: cliccate
qui
  
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