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Autore: johnlockhell    03/04/2016    6 recensioni
La scoperta del segreto di Mary è l'ennesimo trauma che la vita non ha risparmiato a John Watson. Anche dopo il ritorno a Baker Street, si trascina depresso nella routine quotidiana sotto il peso della consapevolezza che tutto quello in cui spera si distruggerà. Sherlock non può più sopportare di vedere l'amico, la luce dei suoi occhi, in questo stato afflitto. Nonostante le emozioni e interazioni umane non siano il suo forte, per farlo reagire e rimettere le cose a posto è pronto a ricorrere a qualsiasi espediente. Ma Londra non lascia mai un attimo di respiro, e c'è sempre un crimine da risolvere dietro l'angolo. [Pairing: Johnlock, accenno di Warstan]
Dal Capitolo 6: “Quello che intendo dire, è che sei tu a farmi questo effetto. Sei sempre e solo tu, John.”
Dal Capitolo 8: Aveva fatto un sogno assurdo quella notte, e il vago ricordo del sogno, la sua immagine sfocata, non si cancellava dalla sua testa. Aveva sognato di baciare Sherlock.
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 7 – Lay down my heart

 

Le labbra di Sherlock erano strette fra quelle di John. Con una leggera pressione, la bocca del biondo stringeva i morbidi lembi turgidi di quella del detective, assaporandoli. Schiudendo leggermente la presa, assorbiva il respiro dell'altro, prima di tornare ad avvicinare le labbra, facendole scorrere, godendo della loro frizione. Con un istintivo accenno della punta della lingua, John inumidì le labbra di Sherlock, arrossate dal tenero e dolce sfregamento su quelle del dottore. Le bocche si afferrarono di nuovo in quel delicato incontro, chiudendosi in un'ultima morsa di passione. Poi, lentamente, rimanendo legate fino alla fine come se non volessero più dividersi, si staccarono con un impercettibile schiocco e si allontanarono di qualche centimetro, per riprendere fiato. Respirare, che noioso inconveniente, Sherlock aveva proprio ragione.

I volti si distanziarono piano, e Sherlock riaprì gli occhi per primo, cogliendo le labbra ancora divaricate di John, la sua faccia rilassata con gli occhi socchiusi. Il dottore li riaprì lentamente, sbattendo le palpebre un paio di volte, come stesse uscendo da un sogno. Aveva gli occhi arrossati, appesantiti dal sonno, ma pieni di una fiamma di luce. Sherlock, da parte sua, aveva il cuore piantato così alto in gola che non riusciva a respirare neppure adesso che il bacio si era interrotto.

Delicatamente, allentò la presa della mano sul viso di John, facendola scorrere su tutta la lunghezza della guancia, gustando appieno il raro contatto, approfittando per solleticarsi i polpastrelli contro la corta peluria e descrivere il contorno della mascella virile. Aggiustandosi sulle gambe, Sherlock portò un ginocchio completamente sopra al tavolino in modo da assicurarsi in una posizione di maggiore equilibrio e raddrizzò la schiena in una postura più stabile. Lasciando la sua mano in preda della gravità la fece cadere dolcemente sulla spalla di John, che ancora lo stava guardando in volto, con gli occhi annebbiati.

“John...” bisbigliò Sherlock, riuscendo a trovare il fiato in fondo ai polmoni, e mantenendo il contatto che così duramente era riuscito a creare, “io... ti ho sempre amato...”

Il corpo di John si abbassò di qualche millimetro sotto il tocco della mano di Sherlock. Il suo volto si stava inclinando verso sinistra, mentre continuava a sbattere le palpebre, lentamente ma frequentemente, come se cercasse di svegliarsi.

“Sherlock...” sussurrò John, sprofondando sempre più nella poltrona.

La schiena di John stava inesorabilmente scendendo e ricadendo sulla spalliera, il suo viso era sempre più inclinato, ormai completamente pendente sul collo. Lo sguardo stordito, frastornato.

“Sherlock...” riuscì a ripetere di nuovo, mentre gli occhi si assottigliavano sempre di più, e neanche sbattendole poteva impedire al macigno sulle palpebre di farle chiudere.

Adesso anche il torso cedette completamente verso sinistra, gli occhi si serrarono e il corpo di John cominciò ad accasciarsi contro il bracciolo della poltrona. La soluzione che Sherlock aveva aggiunto al suo bicchiere di scotch stava facendo effetto.

“No, John!” esclamò Sherlock, il colpo d'adrenalina l'aveva fatto uscire dalla nebbia del bacio. Con uno scatto fulmineo, scavalcò il tavolino con entrambe le gambe, e si avvicinò al suo soldato, rafforzando la presa sulla spalla per sorreggerlo, visto che ormai John aveva abbandonato tutte le forze ed era completamente gettato a peso morto sul braccio di Sherlock.

“No, John, stai sveglio! Rimani con me!” gli intimò Sherlock di nuovo, portando la mano libera al suo volto, e colpendolo delicatamente un paio di volte, a metà fra uno schiaffo e una carezza, in un tentativo disperato di ridestarlo. “Dimmi qualcosa, John” lo supplicava, “ti prego.”

John riuscì ad aprire un'ultima volta gli occhi con un incredibile sforzo, ma non poteva trovare la forza per aprire anche la bocca e dar fiato alle corde vocali per far uscire le parole che Sherlock avrebbe voluto sentire.

“Rispondimi, John,” continuava a implorare Sherlock, stringendo con più voga la morsa sulla sua spalla e scuotendolo leggermente, “dimmi qualcosa... dimmi che anche tu mi ami.”

Gli occhi di John erano completamente appannati, assenti, e non sarebbero rimasti ancora per molto.

“Dimmi che mi ami, John,” pregava Sherlock, afferrandolo adesso con entrambe le mani e scuotendolo più forte, per tenerlo sveglio, “dillo! Dillo solo una volta, per favore. Dillo almeno una volta!”

Ma gli occhi di John si erano già richiusi, e il dottore era già caduto nel sonno chimico indotto dal sedativo corretto somministratogli da Sherlock.

“Ti scongiuro, dillo,” non riusciva a smettere di supplicare Sherlock, anche se completamente invano, con i dotti lacrimali che stavano per esplodere, “dimmelo, ti prego.”

Accettando che John era ormai completamente immerso in un sonno profondò, Sherlock smise di scuoterlo, e si chetò. Con cautela, lo appoggiò contro schienale e bracciolo della poltrona, e ce lo lasciò sprofondare. Delicatamente, gli girò il volto di qualche grado in avanti, in una posizione più confortevole per il collo, indugiando ancora una volta in quel contatto.

“Perdonami, John,” gli sussurrò a denti stretti, anche se non poteva sentirlo, “mi spiace per tutte le volte che ti ho fatto del male... Ma volevo solo avere un'occasione per buttare fuori tutto. Volevo solo buttare fuori tutto...” continuava, accarezzandogli l'orecchio, “sono un terribile egoista, lo so, ma spero che potrai perdonarmi ancora una volta.”

Si mise a sedere piano sul bracciolo libero, e rimase a guardarlo dormire per qualche minuto, ammirando quanto la sua idea fosse stata fallimentare, crocifiggendosi con il senso di colpa, e sentendosi peggio di prima. La gioia e il potere di tutto quello che aveva sempre desiderato erano state nelle sue mani solo per un istante, ma era stato abbastanza per una vita intera. Eppure non poteva pensare di dover tornare a celare e abbandonare i suoi sentimenti adesso che stavano esplodendo nel suo petto. Come avrebbe fatto? John l'avrebbe ricordato l'indomani? No, se tutto andava come previsto, e Sherlock non sbagliatava mai. Cercando un modo per rimediare al suo comportamento riprovevole che non poteva trovare, decise che almeno avrebbe fatto il possibile per non far passare a John una brutta nottata, e lo avrebbe fatto dormire comodamente.

Tornò ad afferrare il corpo di John, sollevandogli la schiena con una mano e passando l'altro braccio sotto la spalla, per fare da pernio e appoggio. Raccolse tutta la forza che aveva nelle braccia, e con uno scatto energico lo sollevò completamente dalla poltrona, e lo fece alzare in piedi in posizione eretta. Sorreggendolo con il proprio corpo, perché John era totalmente privo di sensi e non collaborava affatto, lo spostò dalla seduta e iniziò a trascinarlo per la stanza, verso il corridoio. Lentamente, faticando a mantenere il precario equilibrio nonostante fosse più alto e grosso di John, e stentando a sostenere il peso dell'uomo adulto completamente abbandonato sulla sua spalla ma determinato a non lasciarlo andare a costo della vita, Sherlock riuscì a mettere un passo dietro l'altro, portando se stesso e John lungo il corridoio verso la sua camera da letto. I piedi di John scorrevano inermi sul pavimento senza fornire alcun sostegno, la sua testa ricaduta sul petto sobbalzava ad ogni passo che Sherlock tracciava. Con estremo sforzo, Sherlock aprì la porta socchiusa della sua camera dandole un calcio con un piede, e giunto in prossimità del suo letto vi lasciò ricadere il corpo di John di botto, non sopportando più di sostenere il peso.

Non sarebbe mai riuscito a portare John fino alla camera al piano superiore, superare le scale in quelle condizioni era fuori discussione, doveva accontentarsi della camera più vicina. Quando John si fosse svegliato avrebbe trovato una scusa, come faceva sempre, gli sarebbe venuta in mente una spiegazione plausibile alla sua presenza nel suo letto. Ma non ora. Era troppo stremato ed emotivamente prosciugato per pensare.

Chiuse la porta della stanza. Con delicatezza, slacciò le scarpe di John e gliele sfilò. Sistemò le sue gambe e braccia nella posizione più confortevole possibile, sbottonò il colletto della camicia per evitare che stringesse sul collo, e gli inclinò la testa di lato sopra al cuscino, per fugare ogni possibilità che si strozzasse con la lingua mentre era privo di sensi. Poi afferrò la coperta e cercò di stendergliela sopra come meglio poteva, per quanto permesso dalla posizione, così che non prendesse troppo freddo durante la notte. A quel punto non aveva altro modo per redimersi e attenuare la sua colpa, quindi non gli rimase che togliersi le proprie scarpe e levarsi la giacca, per riprendere fiato. Che avrebbe fatto adesso? Non sembrava appropriato andare da nessun'altra parte. Dopo tutto, era meglio se rimaneva a controllare che le condizioni di John rimanessero stabili e che il sedativo artigianale che gli aveva somministrato non desse strani effetti collaterali. Sopprimendo con quella scusa il brivido che gli percorse la schiena per il suo comportamento così sfacciato e sconveniente, si mise a sedere a bordo del letto, e poi si stese completamente accanto a John, nello spazio lasciato libero dal compagno.

Si voltò sul fianco per fronteggiare la faccia addormentata del dottore, mettendo un braccio piegato sul cuscino sotto la testa. Sherlock si sentiva stanco morto, ma non sarebbe riuscito a dormire, non con John lì accanto. Però non era un problema: guardarlo dormire era la cosa più rilassante che conoscesse. Avvertire il minuscolo movimento del materasso al ritmo del respiro pesante di John, abbinato all'innalzamento del suo torace e alla dilatazione delle sue narici. Anche nella penombra della camera non riusciva a mettere a riposo il suo spirito analitico, che non smetteva mai di scansionare ogni dettaglio sotto i suoi occhi, e in particolare non poteva fare a meno di ispezionare il corpo di John, il suo soggetto preferito. Rimase lì a guardarlo per qualche minuto, o per qualche ora, non lo sapeva, il tempo era rimasto fuori dalla porta e non aveva più alcuna importanza.

Aveva fatto fin troppo quella notte, ma poteva permettersi un'ultima impertinenza? Ormai era passato ben oltre il limite, aggiungere una piccola carezza non avrebbe fatto differenza. Alzando la mano sotto la sua testa dal cuscino, la avvicinò al capo di John, e sfiorò delicatamente i capelli sulla sua fronte. Erano così morbidi al tatto, chissà come sarebbe stato passarci le dita nel mezzo. Ma si permise solo di carezzarglieli via dalla fronte, sperando che nel sonno fosse un tocco gradito anche a John e che potesse allietargli il riposo. Sembrava di sì, perché il respiro di John si fece più rilassato, più lento. Sembrava che stesse borbottando qualcosa sottovoce. Sherlock tese le orecchie, per cercare di capire se fossero parole nel sonno o solo il respiro.

“... ry...” gli sembrò di cogliere, ma la bocca di John era troppo impastata e le labbra troppo strette per distinguere il suono.

Sherlock si spostò di qualche centimetro sul cuscino per avvicinarsi e sentire meglio, continuando a carezzargli i capelli sulla fronte. John borbottò di nuovo, e purtroppo questa volta Sherlock riuscì a distinguere perfettamente la parola.

“Mary...” era quello che John aveva sospirato nel sonno.

Sherlock smise di accarezzargli i capelli. Ritirò la mano e la riportò sul cuscino. Si distanzio di un po' da John, con l'espressione vuota, spenta. Una lacrima stava crescendo all'estremità del suo occhio, ma la represse repentino, non permettendosi di farsi sopraffare dall'emotività.

“... Mary...” borbottò una terza volta John nel sonno, e Sherlock non poté più rimanere lì al suo fianco.

Si alzò di scatto in un movimento unico, troppo velocemente e scuotendo troppo il letto, ma John era così ottenebrato dal sedativo che non si sarebbe svegliato neanche se gli fosse saltato addosso. In piedi, Sherlock rimase a soppesare il profilo della stanza. Stanotte aveva un aspetto diverso, non sembrava più la camera in cui aveva dormito per tutti quegli anni. La presenza di John l'aveva resa diversa, ma adesso non sapeva dire se l'avesse resa più accogliente o più odiosa. Doveva uscire, non poteva tollerare di sentire un'altra parola che sarebbe potuta uscire incauta dalle labbra addormentate di John. Con un paio di ampie falcate raggiunse la porta, uscì, e la richiuse alle sue spalle, riemergendo nella luce artificiale del corridoio, che lo abbaglio, ma gli fece tirare anche un sospiro di sollievo.

Sconsolato, con il passo pesante, Sherlock camminò davanti alla porta del bagno e tornò nel salotto dell'appartamento, senza sentire cos'altro John aveva da dire nel sonno. Perdendosi il suo quarto, sottile sospiro. “Sherlock...”

Nel salotto, raggiunse l'interruttore e spense tutte le luci. Gli bruciavano troppo gli occhi per sopportarle. Si mise a sedere nella poltrona di John, respirando l'odore che vi era rimasto, e fronteggiando la finestra. Il buio della notte fonda penetrava gelido dal vetro, con solo qualche luce stradale a brillare nell'oscurità esterna, frammentata dai raggi dei fari delle automobili che a Londra non si fermavano mai.

Rimase lì a fissare il vetro con gli occhi vacui, cercando di spegnere anche tutte le voci contrastanti che urlavano nella sua testa pensieri discordanti. Doveva smettere di mentire a sé stesso e di alimentare false speranze. Doveva smettere di pensare a quello che il bacio poteva aver significato per John. Doveva smettere di cercare di capire se il fatto che non l'avesse apparentemente rifiutato fosse solo frutto dello stordimento del farmaco che gli aveva fatto assumere o potesse significare qualcosa di più. Perché, in ogni caso, quello che provava per John non sarebbe mai potuto diventare reale. John aveva scelto un'altra vita, aveva scelto Mary. Non pensava a lui, neppure nei suoi sogni, e l'ipotesi che ricambiasse i suoi sentimenti era così ridicola che non poteva più permettersi di contemplarla. Non avrebbe mai guardato nella sua direzione. Non poteva fargli provare qualcosa che non provava, per quanto lo desiderasse, e già poterlo avere al suo fianco come amico era un dono del cielo. Non poteva compromettere il loro rapporto e rovinare tutto.

Sherlock cercava di convincersi e di persuadersi ad abbandonare le emozioni che provava, anche se era la cosa più sbagliata e atroce che potesse concepire. Aveva tirato fuori i suoi sentimenti, ora doveva espellerli dal suo corpo e gettarli via. Non sapeva come fare, ma aveva ancora qualche ora. Avrebbe avuto fino alla mattina per sbarazzarsi di quelle inutili emozioni che gli stavano provocando solo sofferenza, e tornare ad avere delle sembianze presentabili prima che John si svegliasse. Sarebbe arrivata la mattina e avrebbe fatto quello che era giusto fare. Aveva ancora un po' di tempo per costringersi a rinunciare alla battaglia e ritirarsi.

Sherlock restò immobile sulla poltrona per tutta la notte, senza cambiare espressione, senza contrarre un singolo muscolo. Non dormì, rimase semplicemente ad aspettare il sorgere del sole, come segnale che avrebbe decretato la sua ritirata. La luce esterna passò dal buio al chiarore davanti ai suoi occhi, si fece sempre più luminosa, finché l'alba esplose nella stanza, ridonandole colore. Era il momento.

Sherlock si mise in piedi di colpo, inarcò indietro la schiena per sgranchirsi, e si allontanò dalla poltrona. Aveva la stessa confusione in testa, ma adesso aveva deciso che era finito il tempo per le emozioni. Raggiunse il tavolo principale, scostò la sedia, aprì il computer portatile e vi si sedette davanti. Si collegò ad Internet e aprì la pagina delle news, come rituale mattutino per controllare quello che stava succedendo nel mondo e tenere sott'occhio le novità. Ma quella mattina sembrava che non stesse accadendo nulla nel mondo di abbastanza interessante per fargli dimenticare i suoi pensieri. Cercava di leggere, ma nessuna delle frasi che scorreva gli rimaneva impressa nella mente. Poi a quel punto lo sentì, il fatidico scattare della maniglia della porta della sua camera che tanto stava aspettando e temendo.

John aprì piano la porta, confuso su dove si trovasse, sembrava ancora assonnato. Uscì nel corridoio, stordito, guardandosi intorno e stropicciandosi un occhio.

“... 'Giorno,” disse a Sherlock.

“Buongiorno,” rispose questo distrattamente, chino sul computer continuando a fissare lo schermo e fingendo disinteresse.

“Che... che è successo ieri notte?” chiese John, muovendo qualche altro passo incerto in avanti.

“Uhm?” grugnì Sherlock, cercando di apparire distratto e distaccato, troppo preso da quello che stava facendo, solo perché non sapeva come rispondere, e non era sicuro di riuscire a tenere in piedi la maschera.

“Non mi ricordo nulla, è tutto confuso,” continuò John, stropicciandosi anche l'altro occhio. Aveva i vestiti completamente sgualciti che gli conferivano un'aria così sbattuta e indifesa, Sherlock non poteva non notarlo anche con la sola coda dell'occhio.

“Non ti ricordi nulla?” gli chiese infine, voltandosi verso il dottore. Non che lo stupisse, era esattamente quello che si aspettava. La soluzione di sedativo modificato per dare anche una leggera amnesia a breve termine aveva funzionato perfettamente come previsto. E Sherlock non sapeva più se era una cosa di cui esser felice o meno.

“Ricordo che Mrs. Hudson ci ha portato il té,” rispose John, arrivato in prossimità del salotto e rimanendo sotto lo stipite della porta, “stavamo bevendo il tè e parlando, e poi è tutto annebbiato. Che è successo?”

“Niente,” disse Sherlock, riuscendo addirittura ad accennare un sorriso cordiale, “abbiamo brindato al caso con gli alcoli del giorno prima e hai alzato un po' il gomito.” Forse era meglio che non si ricordasse la sua scena penosa della sera prima, almeno era tutto tornato al suo posto. Macigno sul cuore compreso.

“E... perché ero nel tuo letto?” continuò a chiedere John, incerto, guardandolo perplesso. “Ho ancora addosso i vestiti di ieri quindi desumo che non abbiamo fatto niente di male,” rise ingenuamente per scherzare, anche se Sherlock non poteva trovare la battuta divertente.

Esitò un secondo a rispondere, poi disse: “Ti sei addormentato nella poltrona dopo un bicchiere, e ti ho portato nella camera più vicina.” Cercò di mantenere un tono neutro per farlo sembrare normale, naturale, casuale, niente di rilevante. “Non potevo farcela a portarti su per le scale.”

“Oh... ok,” esclamò John, improvvisamente imbarazzato al pensiero di quella che doveva esser stata la scena e la situazione di Sherlock che lo trascinava in camera, anche se non poteva averne memoria per il sedativo amnestico che offuscava le sue sinapsi, “ehm... grazie... non ricordo.”

“Sempre a disposizione,” sorrise Sherlock, tornando a girarsi verso al computer, soddisfatto di come era riuscito a gestire la situazione, nonostante tutto.

“Mi spiace di aver occupato la tua camera...” continuò a giustificarsi John, “hai dormito?”

“Non preoccuparti,” replicò Sherlock, cercando di continuare ad apparire gioviale, ma non riuscendo più a sostenere il sorriso, che si stava lentamente trasformando in un ghigno deforme sulla sua faccia.

John sbadigliò. “Ho fatto un sogno assurdo...” accennò, portandosi una mano al viso e stropicciandosi le guance per smaltire la sonnolenza. “Uh,” esclamò incontrando il pizzicore del filo di barba sulla sua mascella. “Devo proprio radermi,” annunciò, “... altrimenti poi non vi piaccio più,” ridacchio riferendosi alle preferenze di Sherlock e Mary riguardo alla sua barba, ma pentendosi subito di aver detto una cosa del genere. Assunse per un attimo un'espressione perplessa, domandandosi perché l'avesse detto, poi, con un momento di indecisione e un tentennio del braccio che doveva essere il segnale di congedo della sua uscita di scena, si girò indietro verso il corridoio ed entrò nel bagno.

Sherlock poté finalmente lasciar cadere le guance e rilassare in viso nell'espressione neutra e abbattuta che aveva dalla sera prima. Poteva farcela, doveva solo comportarsi normalmente. Doveva abbandonare le sue emozioni. Era quello che gli aveva sempre insegnato suo fratello, e mai come ora aveva ragione su quanto non fossero un vantaggio. Non c'era spazio per quel tipo di sentimenti nella sua vita, e a quanto pare purtroppo non ci sarebbe mai stato.

Sherlock tirò un sospiro profondo, e riprese fiato. Ma solo per un secondo.

Un veloce scalpitio su per le scale e un rapido colpo alla porta annunciò l'ingresso dell'ispettore Lestrade, affannato e arrancante, seguito a breve distanza da Mrs. Hudson, che dietro di lui ancora sulle scale aveva un'espressione preoccupata e mortificata per non aver potuto evitare l'arrivo dell'uomo.

“Sherlock,” tuonò Lestrade sulla porta, tenendo ancora nel pugno della mano la maniglia e respirando pesantemente.

“Lestrade?” lo accolse Sherlock perplesso, serrando le sopracciglia e girandosi sulla sedia.

“Lestrade?” gli fece eco John dal fondo del corridoio, sporgendo la testa fuori dalla porta del bagno per rivelare metà faccia insaponata con la schiuma da barba.

Greg si voltò verso di lui un attimo. “Oh, John... sei anche tu qui,” gli disse confuso, non aspettandosi di trovarlo nel suo vecchio appartamento con Sherlock, e non riuscendo a tenere a mente le loro contorte dinamiche relazionali con e senza Mary. “Buongiorno,” lo salutò, prima di tornare a guardare Sherlock.

“Qual buon vento ti porta qua di prima mattina?” gli chiese Sherlock, per spronarlo a spiegare il suo arrivo.

“Ne è successo... un altro, un altro caso per cui mi serve la tua consulenza,” disse Lestrade, riprendendo fiato. “Spero vi siate ripresi dall'avventura di ieri, perché c'è di nuovo bisogno di voi.”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: Non sono solo i demoni a perseguitarci, ma anche i sogni possono essere un tormento.

 

***

 

Note dell'autore: Per la scrittura del capitolo mi è stata di grande ispirazione la tristissima e bellissima canzone “Can't make you love me”, che vi consiglio come colonna sonora per la lettura se siete masochisti. Spero non mi odierete troppo dopo questo capitolo e di non avervi rattristato troppo, ma un po' di drama fa bene allo spirito ;) Grazie mille come sempre per il grandissimo supporto e gentilezza che dimostrate nei confronti della storia. Un bacio grade di ringraziamento ad adlerlock, CreepyDoll, ilovehismusic, emerenziano, mikimac e Hotaru_Tomoe per le loro recensioni carinissime come sempre che mi motivano davvero tanto nella scrittura. Grazie grazie grazie a tutti, al prossimo capitolo, con l'inizio di un nuovo caso misterioso! :D

  
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