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Autore: Lost In Donbass    06/04/2016    3 recensioni
Tom è un traduttore di romanzi, squattrinato, disordinato, con la memoria particolarmente corta e la mania di cacciarsi in casini molto più grandi di lui.
Bill è un giornalista, geniale, psicologicamente instabile, dotato di una memoria elefantiaca e affetto da nevrosi acuta.
Si sono visti e rivisti, questi due ragazzi, ma solo ora si decideranno a parlarsi, a riconoscersi, a entrare in un contatto che di sano non ha proprio niente. E in una Berlino misteriosa, tra amici inconcludenti, grunge degli anni 90, ricordi che vengono a galla, crisi di nervi e perle filosofiche di periferia, riuscirà Tom a salvare Bill da se stesso? O lo perderà di nuovo, forse per l'ultima volta?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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CAPITOLO TRE: E’ TUTTO NELLA MIA TESTA

Tom si ritrovò quindi seduto per terra nel corridoio del primo piano del Flugel, guardando dal basso la fiumana di gente che andava e veniva e che non li degnava di uno sguardo, al fianco dell’affascinante biondino che come se nulla fosse continuava a battere a computer il suo pacco di fogli. Tom si schiarì la voce, incrociando le gambe e passandosi una mano sul viso
-Comunque, io mi chiamo Tom. Piacere di conoscerti.
Gli tese la mano, con un sorriso il più accattivante possibile sul viso, sentendola presto accarezzata da una mano pallida e scheletrica, le dita sottili ridonanti anelli di ogni foggia e dimensione, le unghie lunghe e smaltate di un improbabile rosso ciliegia venato di bianco.
-Io sono Bill. E ti conosco da tanto, tanto tempo.
Tom annuì, evitando di insistere come aveva fatto la notte prima, lasciando semplicemente il suo sguardo vagare per il profilo perfetto di Bill, studiando gli anelli che gli ciondolavano dalle orecchie. Bill, che razza di nome stupido, lo stesso che lo accompagnava passo passo nel suo subconscio più nascosto e indecifrabile.
-Cosa stai ascoltando?- chiese, per interrompere quel fastidioso silenzio che era calato tra loro due, reietti della società, abbandonati per terra a guardare tutti gli altri conquistarsi un posto di rilievo nella vita.
-I Soundgarden.- rispose atono Bill, alzando un po’ il volume di You Tube. – Mi è sempre piaciuta la musica grunge.
 -E’ indubbiamente interessante.- commentò Tom, riallacciandosi ai suoi vecchi e confusi ricordi di musica grunge a cui non riusciva comunque a dare un volto e una storia. Solo un’accozzaglia di suoni senza padrone e immagini talmente sgranate da risultare indecifrabili. – E si può sapere come mai sei qui? Non hai un ufficio tuo?
Bill lo guardò, sfarfallando i grandi occhi scuri elegantemente truccati. Era molto più sobrio rispetto alla notte precedente, pensò Tom. Ora sembrava solo eccentrico, non sembrava una battona da angiporto.
-Certo che ho un ufficio mio.- rise, gettando indietro la testa, e Tom si trattenne dal non sbavare a vedere quel meraviglioso collo da cigno. Una briciola di contegno ce l’aveva anche lui, in fondo al cuore. Ma proprio in fondo, eh. – Però non lo uso.
Bill si scompigliò i capelli, continuando diligentemente a scrivere, le lunghe dita aggraziate che scivolavano con una delicatezza unica sulla tastiera del computer, senza fare il minimo suono, nemmeno stessero danzando silenziosamente sull’acqua. C’era lo spirito di un balletto da Lago dei Cigni nella sua grazia principesca nello scrivere quello che stava scrivendo.
-Sai, Tom, mi fa paura. L’ufficio, intendo.
-Come fa a farti paura un ufficio?- Tom spalancò gli occhi, per poi tapparsi la bocca subito dopo. Era sempre troppo, dannatamente impulsivo.
-C’è una vetrata che dà sul retro della strada, vagamente sullo stile newyorchese. Beh, a me fanno paura i vetri troppo grandi. Non ci metterei niente a volare.- Bill mimò con le mani un paio d’ali – Ma io non voglio ancora volare, Tom.
-Un uomo non può volare, Bill. È impossibile.- Tom rise, anche se qualcosa dentro di lui gli suggeriva di non prendere tanto alla leggera quel discorso. Qualcosa di fastidioso, di pressante, che cercava di metterlo in guardia da quel ragazzo e dalla sua voce cantilenante e melodiosa.
-Sono d’accordo, Tom. Un uomo non può volare. Ma io posso.- Bill gli fece un largo sorriso, continuando a scrivere. – E comunque, stare in corridoio è più divertente. Vedi, puoi guardare la gente senza che lei ti veda. Puoi studiarla, fissarla, discernerla da tutti gli altri. Si imparano tante cose dagli altri, soprattutto quando agiscono ignari di essere osservati. Loro non mi vedono, perché sono talmente diverso dai loro canoni razionali da non poter nemmeno essere percepito.
Tom annuì di nuovo, guardando incantato il viso di Bill, cercando di ricordare la minima traccia del suo viso, senza giungere però a nessuna conclusione. Si sentiva strano, perché Bill non era normale, era palese. Aveva la follia negli occhi, nella voce, nel suo comportamento, Tom la avvertiva chiara eppure per qualche motivo non ne aveva paura. Lui, che era sempre stato messo in soggezione dalle persone considerate “pazze”, che era sempre stato inquietato dai racconti dei matti in manicomio, non riusciva a vedere nel biondo il minimo pericolo. Era una pazzia che in qualche modo Tom capiva, quasi razionale nella sua irrazionalità, umana nella sua diversità evidente. Come trovarsi davanti a un congegno del futuro per noi impossibile da capire ma che riconosciamo in qualche modo come nostro, un qualcosa che deve ancora avvenire per tutti, una prima illuminazione di un futuro incerto e bruciante. C’era una lucina, in fondo a quelle pupille nere come ossidiana che illuminava a giorno la mente nervosa e confusionaria di Tom.
-Cosa stai scrivendo, Bill?- chiese, allungando il collo verso il computer.
-Un articolo di denuncia alla periferia di Berlino. Condizioni sociali, igiene, roba così. Tutto quello che una denuncia fatta come si deve comporta.- Bill gli allungò i fogli scritti a mano, carichi di svolazzi a disegnini in mezzo alle parole.
-Ma … aspetta un attimo!- esclamò Tom, osservando una firma fatta sul lato di uno dei protocolli – Non vorresti farmi credere che il giornalista che si nasconde dietro lo pseudonimo di Dafne Skuld sei tu!
Tom fece tanto d’occhi. Spesso e volentieri Julia portava a casa il Flugel, ed era inevitabile che alla fine si mettessero entrambi a leggerlo, a scorrere tra i suoi articoli che di giornale normale non avevano proprio niente. Quelli che Tom preferiva, alla faccia di tutti, erano i lunghissimi articoli scapestrati e fuori dalle righe di quella giornalista, tale Dafne Skuld. Che era la stessa firma che veniva riportata in ogni protocollo che Bill gli stava consegnando a mano a mano che copiava.
-Sì, Tom, sono io.- Bill gli sorrise dolcemente – Non mi è mai piaciuto firmarmi col mio vero nome. Quindi uso uno pseudonimo.
-Wow. Cioè, io stimo un sacco i tuoi articoli, davvero, io … - Tom scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli, ormai dimentico dell’essere seduto per terra in attesa che gli dessero il pacco del signor Levi. – Ma posso sapere perché proprio questo nome?
-E’ semplice.- rispose Bill, scuotendo i bracciali – Dafne era una ninfa delle mitologia greca che si mutò in alloro per sfuggire alla pressante corte di Apollo; d’allora l’alloro divenne il simbolo dei poeti. Skuld invece era una delle tre Norne norrene, per precisione quella che viene assimilata all’Atropo greca. La norna della fine.
-Certo che ne sai di cose, eh Bill?- Tom guardò il suo viso perfetto che sorrideva.
-Io c’ero Tom. Ci sono sempre stato. È tutto nella mia testa, tutti i ricordi.- Bill si diede un pugnetto sulla tempia – Io mi ricordo tutto.
Tom stava per ribattere, quando la porta dietro di loro si spalancò di scatto e un grasso ometto sudato si catapultò fuori.
-Dov’è quello scocciatore di prima?!- abbaiò nel corridoio, guardandosi attorno.
-Sono io, signore.- Tom balzò in piedi – Posso prendermi il mio pacco?
-Mi chiedo perché Levi abbia mandato te, razza di volgarissimo ragazzotto di provincia!- il capo redattore si grattò il panciotto – Prendi quel dannato pacco e vedi di sparire, barbone!
Tom alzò gli occhi al cielo ma tacque, entrando nell’ufficio alla ricerca del suo pacco. In quel momento fu anche grato al capo redattore di averlo cacciato di malo modo. Gli aveva dato il tempo di fare la conoscenza di quella meraviglia della Natura che era Bill, di parlarci, di confrontarsi con quel sorriso infantile ma disarmante.
Da fuori, sentì i latrati strozzati del ciccione e le risposte placide di Bill.
-Ho finito, signore. Qui c’è l’articolo e la sua appendice.
-Non hai tagliato un fico secco come al solito, eh?
-Perché avrei dovuto?
-Vattene a casa, Bill. Per oggi ti ho già sopportato fin troppo.
-Ma non dovrei …
-Dovresti niente, decerebrato mentale! Scompari dalla mia vista!
Uscendo dall’ufficio, Tom avrebbe volentieri detto qualcosa al grassone, l’avrebbe obbligato a scusarsi educatamente, gli avrebbe tirato un pugno in testa, ma, nemmeno gli avesse letto nel pensiero, incrociò lo sguardo di Bill e con lui la tacita richiesta di non dire niente, di ignorarlo. Obbedì, stringendo il pesantissimo pacco tra le mani, tentando di vedere dove andava per non capitombolare miseramente per terra come un ciocco. Attese che Bill salutasse il capo redattore, raccattasse la roba disseminata per il suo angolino di corridoio, infilasse il tutto in un’orribile borsa di lacca rossa in pandan con le unghie, si desse una pettinata e lo guardasse con un’espressione vagamente interrogativa
-C’è qualcosa che non va?- chiese, piegando il capo di lato.
-Beh, veramente ti stavo aspettando.- rispose Tom, alzando gli occhi al cielo. Meno male che quello tardo di sinapsi era lui, eh.
-Aspettando? Dobbiamo andare da qualche parte insieme?- Bill sfarfallò gli occhi con l’espressione stupita più dolce che l’altro avesse mai visto in vita sua.
-No, però che so, potremmo fare una passeggiata insieme?- tentò Tom. Julia glielo aveva sempre detto che aveva il tatto di un bisonte e la capacità di seduzione di un ornitorinco malandato.
-Perché dovremmo andare a fare una passeggiata insieme?
Tom a quel punto avrebbe rinunciato e se ne sarebbe andato per la sua strada, era lapalissiano che non lo voleva più tra i piedi, ma qualcosa lo trattenne. Forse l’espressione genuinamente stupefatta di Bill lo convinse a restare, come se non avesse capito davvero quello che gli stava tentando di chiedere.
-Per conoscerci meglio.- affermò con una sicurezza ostentata Tom.
-Capisco.- Bill abbassò lo sguardo sugli stivali borchiati, barcollando sui tacchi a spillo. Si mordicchiò un po’ il labbro inferiore accuratamente spennellato di nero – Allora va bene, vengo con te.
Tom resisté dal fare un balletto entusiasta in mezzo al corridoio. Lui sì che aveva delle capacità di seduzione. Bisognava solo capirle.
Uscirono in strada insieme, sotto la pioggerellina fitta e fastidiosa che cadeva da nubi nere come l’inferno e pesanti come piombo; non sembravano un’accoppiata particolarmente azzeccata, un tizio disordinato e una specie di drag queen a braccetto per i vicoli di Berlino. Che poi, era Bill che gli si era appeso al braccio come fosse un’ancora, limitandosi a dire che era sempre stato il suo sogno camminare a braccetto con qualcuno fradici fin nel midollo di pioggia acida. Tom si era semplicemente trovato a tenere con un braccio il pacco, e con l’altro a tenere in piedi Bill, molto poco stabile su quei tacchi esagerati. Veleggiarono silenziosamente verso la casa editrice per la quale lavorava Tom, meritandosi una quantità di occhiatacce dalle persone della Berlino bene, sguardi increduli da alcuni teenager che li fissavano nemmeno fossero due elementi da baraccone, strilli terrorizzati dai bambini che correvano a rifugiarsi dalle loro mamme.
-Non sei di Berlino, vero Bill?- si decise a chiedere Tom, accelerando il passo verso la casa editrice pressata tra due vecchi palazzi in rovina in un vicoletto buio e sporco.
-Nemmeno tu, Tom.- fu la risposta, corredata di barcollamento e relativo incespico.
Tom lo tenne in piedi a forza, stringendoselo meglio al fianco. Era tutto il tragitto che Bill non faceva che caracollargli dietro a fatica, inciampando e traballando ad ogni passo ed era tutto il tragitto che Tom lo reggeva in piedi in silenzio, sollevandolo quasi di peso quando proprio sembrava aver perso la facoltà di movimento. Si chiese come facesse quando non c’era nessuno con lui.
-Siamo tutti e due di Magdeburgo.- continuò Bill – E ci siamo conosciuti da ragazzi, solo che tu te lo sei dimenticato.
-No, Bill, ti ho già detto ieri notte che …
Tom venne bruscamente interrotto da un dito sulle labbra
-Ci ho rimuginato su tutta la mattina. Ho ragione io, indubbiamente. Ma non ti biasimo per la tua memoria. Sono sicuro che prima o poi ti ricorderai di me.
Tom annuì stancamente di fronte a quei grandi occhi di porcellana. Aveva capito l’antifona, doveva dire tutto a Julia. Lei se lo sarebbe ricordato, o perlomeno gli avrebbe dato una mano per sapere come comportarsi.
-Ehi, Tom, sei arrivato finalmente!
I due ragazzi alzarono lo sguardo e videro, sulla porta della casa editrice un vecchietto con i lunghi capelli bianchi e dei buffi occhialini pincenez sul naso aquilino che saltellava nervosamente tra la porta e il vicoletto sudicio, facendo cenno ai due ragazzi di sbrigarsi a entrare.
-Buongiorno, signor Levi, le ho portato il pacco. Scusi se ci ho messo così tanto ma il capo redattore del Flugel non mi faceva entrare.- si scusò deferentemente Tom, posando il pesantissimo pacco in un angolino dell’incasinatissima stanza in cui erano finiti, ridondante di fogli volanti, libri di ogni sorta, macchine da scrivere, enormi rotoli di papiro, vecchi e polverosi arazzi arrotolati. Era sempre stata una stanza un po’ speciale, per Tom, con quel suo forte fragranza di caffè che impregnava le pareti di mogano scuro, l’odore dell’inchiostro che riempiva l’aria e che rimaneva inesorabilmente addosso a chiunque fosse un assiduo frequentatore, il profumo delle brioche calde con la marmellata di albicocca che il signor Levi mangiava praticamente in continuazione, l’aroma di incensi arabi che bruciavano nel grosso braciere di ferro sempre acceso anche in piena estate, l’odore stantio delle pergamene antiche e degli arazzi di cui si circondava il vecchio ebreo e che davano un tocco fiabesco allo studio. Era davvero un posto quasi magico, dove ti potevi immergere completamente nella dimensione irreale e favolosa che si creava, lasciandoti trasportare da quegli effluvi ormai quasi sconosciuti al mondo moderno, trovandoti a confrontarti con un passato incredibilmente lontano e perduto nelle sabbie del tempo, pronto a toccare quasi con mano tutte le leggende che si celavano agli occhi nel meraviglioso studiolo. La luce filtrava a stento da una grande finestra a bovindo sul retro, riflettendo sul pavimento i colori cangianti della vetrata istoriata, passanti da un profondo blu di Prussia, a un accesso rosso amaranto, per un verde Irlanda abbagliante, e un bianco avorio dai riflessi azzurrini, da un viola prugna a un arancione accecante, per poi sfumare tutto nel caldo giallo ocra di cui era dipinto il resto del vetro. Due grosse lampade di vetro soffiato di Murano illuminavano debolmente la stanza, con le loro candele quasi sciolte, dando un’aria mediorientale semplicemente splendida all’ambiente.
-Finalmente sono entrato in possesso di Potere e Sopravvivenza, di Canetti! Non sapete quant’è che lo cerco!- il signor Levi si fregò le mani soddisfatto, una luce cupida brillante nei piccoli occhietti cisposi. – Grazie, Tom. Io sono vecchio ormai, certi pesi non li posso più tirare su! Ed ecco qui tutta l’Enciclopedia del Cinema e tutta l’Enciclopedia dell’Arte e della Tecnica. Finalmente!
Il vegliardo abbracciò con una risatina gracchiante il pacco, aprendolo con le mani artritiche e scure, un sorriso bramoso stampato sulla bocca storta. Poi, nemmeno fosse stato punto da una vespa, fece un salto e si girò verso i due ragazzi immobili dietro di lui.
-Oh, ma ci sei anche tu!- saltellò davanti a Bill, la papalina ballonzolante sulla nuca – Sei il fidanzato di Tom? Te l’avevo detto figliolo che avresti trovato un tipo davvero originale.- si girò verso il ragazzo – Tom, perché non me l’hai detto prima?
-No, signor Levi, lui non è il mio ragazzo, è solo un amico.- sospirò l’interessato, sentendo Bill stringersi spasmodicamente al suo braccio. E questo, a dispetto di tutto, gli fece enormemente piacere. Forse troppo per essere solo un perfetto sconosciuto raccattato per caso per strada.
-Mi dispiace deluderla, signore, ma tra me e Toooom per ora non c’è nulla di più che tanti ricordi chiusi a chiave, che aspettano solo di essere aperti. Come Alice, ce l’ha presente?
Tom guardò con un certo sgomento misto a orrore Bill che si staccava da lui barcollando, avvicinandosi alla finestra ondeggiando sui tacchi. Si fermò di fronte al vetro istoriato, e Tom poté bearsi di come i colori assunti dalla luce che si rifletteva sul vetro decorato giocassero con il biondo platino dei capelli di Bill, tingendoglieli di meravigliose sfumature dorate, ma anche blu mare o rosso fuoco. Gli piaceva i giochi di luce che lo illuminavano, lo rendevano qualcosa di pazzescamente disumano. Come se fossero i lampi di luci dei demoni infernali che cercavano di riportarlo giù senza che nemmeno lui se ne accorgesse. C’era qualcosa di divinamente diabolico nel modo in cui sembrava sul punto di prendere il volo, come se davvero sentisse un paio di ali invisibile sulla schiena, nel modo in cui sorrideva in quel modo bambinesco e innocente ma allo stesso tempo stranamente saputo, come se fosse il bambino più vecchio del mondo. Aveva un che di speciale nel modo in cui ti guardava, vuoto e presente allo stesso tempo, come se vivesse dall’altra parte di un vetro troppo spesso per poter essere superato ma estremamente trasparente tanto da permetterti di vedere chiaramente il mondo circostante. Bill era dall’altra parte di quel vetro: sembrava vivere in una dimensione paradigmatica tutta sua, dove vedeva demoni che nessuno conosceva e parlava ad angeli che solo lui vedeva. Era di passaggio su questa terra, non si sarebbe fermato più del necessario per una rapida visita a quel mondo sconclusionato che era quello umano, ritornandosene poi sul suo stralunato pianeta perduto. Però Tom ci leggeva qualcosa di amorevolmente tenero, in lui. Qualcosa che lo aveva colpito sin dal primo momento in cui l’aveva visto, sulle rive della Sprea. Lo voleva, per qualche astruso motivo. Voleva leggergli all’inverso nelle pupille e scalfire pian piano quello che nascondeva, tirare fuori i cablogrammi che si intrecciavano in quelle iridi e dispiegarli uno a uno, cominciando a tradurli in lettere comprensibili, strappare la sua maschera e vedere cosa c’era dietro quel visino scavato e truccato, farsi strada nella sua fiumana di parole senza senso, trovare uno scampolo di normalità in tutto quello che diceva con quel tono melodioso e cantilenante. A modo suo, era un ragazzo incredibilmente eccitante. Nel modo in cui si reggeva a stento sui tacchi e su come ancheggiava come se vivesse in una passerella di alta moda, nel modo in cui rideva gettando indietro la testa facendo scintillare le innumerevoli collane, nel modo in cui ti guardava da sotto le lunghe ciglia truccate, quella luce persa ma sagace che brillava come un falso fuoco. Tom lo trovava esattamente un falso fuoco: talmente bello e invitante da costringerti a seguirlo per poi ritrovarti a colare a picco su una scogliera scoscesa, vittima delle fauci delle sirene, senza sapere dove volgere la testa per trovare il fuoco infernale che ti aveva guidato nell’oscurità.
-Dici quindi che Cleopatra non fosse la donna bellissima che tutti ricordiamo?
Tom si svegliò di colpo dalla crisi mistica in cui era sprofondato nel vedere Bill illuminato come una Madonna dalla luce riflessa delle immagini del vetro. Il signor Levi saltellava curioso intorno al biondo, fissandolo con i suoi curiosi occhietti azzurri, aggiustandosi ora la papalina ora il vestito di vecchia sartoria.
-Beh, ovviamente io di donne non me ne intendo, non in quel senso almeno, ma sono assolutamente sicuro che Cleopatra venne sopravvalutata. Aveva gli zigomi aguzzi e il mento sfuggente, per non parlare delle orecchie quadrate che aveva!- gesticolava Bill, tutto preso dalla conversazione.
-Ehm, scusate, temo di aver perso un passaggio … - Tom si grattò la testa – Come mai siamo arrivati a parlare di Cleopatra?
-Il tuo fidanzato mi stava giusto dicendo che lui era presente quando la Regina era al potere e di aver assistito anche alla sua tresca con Antonio e Cesare!- trillò l’editore, improvvisando una giga yiddish sul posto.
-Non stiamo insieme, signor Levi.- sospirò Tom – E comunque, che storia è questa? Bill che diavolo dici?
Fece tanto d’occhi, vedendo Bill sorridergli dolcemente, facendo tintinnare i bracciali e gli orecchini
-Che io ho conosciuto Cleopatra, Tom. Non mi guardare così.- gli si avvicinò ancheggiando, e Tom dovette trattenere l’occhio che cominciava a scendere verso il suo posteriore perfetto e anche la bava pronta a colargli sul mento. Non doveva fare la figura del malato di sesso, come lo definiva sempre molto amabilmente Julia, anche se probabilmente ce l’aveva già fatta. – E’ tutto qui dentro.- Si picchiettò con l’indice sulla tempia, facendogli un largo sorriso – La storia del mondo è qui.
Tom avrebbe voluto ribattere, rispondere che non era possibile, che stava scherzando, eppure non ce la fece. Solo a guardarlo, a vedere la sincerità brillante nei suoi occhioni da panda non riuscì nemmeno ad aprire bocca. Gli sarebbe dispiaciuto troppo contraddire quella bambolina preziosa che era Bill.
-Certo Bill, è tutta lì.- acconsentì passivamente, per poi prenderlo di nuovo a braccetto prima che rovinasse di nuovo per terra e girarsi verso quel vecchio matto di Juda Levi dicendo – Bene, signore, allora …
-Senti un po’ tu Tom!- il vegliardo sembrò essersi svegliato dalla crisi etica in cui era caduto non appena Bill si era messo a spettegolare su Cleopatra – Entro dopodomani devi portarmi la traduzione del libro che ti ho assegnato. Spero tu la stia correggendo.
Tom si grattò la guancia, e rispose evasivo
-Sì, beh, forse tra tre giorni magari gliela posso portare finita ma …
-Thomas Kaulitz! Ti avevo detto che questo sarebbe stato l’ultima tua chance per non farti licenziare in tronco! – in realtà, era la quinta volta che lo minacciava ma. – Entro dopodomani voglio la traduzione di Me, a Tie and a Daydream.
-Ma signor Levi, su … un altro giorno che le cambia, ahia!- Tom guardò con occhi comicamente dilatati il vecchietto che gli aveva appena mollato un sonoro pugno in faccia con uno scatto di un’agilità insospettabile.
-E’ il tuo lavoro, ragazzo, e per quanto …
-E’ colpa mia.
I due uomini si girarono di scatto verso Bill, che si era nel frattempo appeso a Tom come un serpente arboricolo al proprio ramo, facendogli scorrere l’eccitazione lungo la spina dorsale e facendogli desiderare per un unico, intenso attimo, di essere nella sua lercia stanza che puzzava di patatine fritte e caffè rancido, sul suo letto perennemente sfatto e sfondato, illuminati dalle luci notturne riflesse dalla discoteca sotto casa, a scopare tranquillamente come se fosse l’ultimo giorno delle loro vite. Decisamente eccitante. Decisamente da fare. Decisamente la cosa meno consona da pensare in quel momento.
-Sa, è colpa mia se Cleopatra si è ammazzata … gliel’avevo consigliato io.- Bill annuì con aria saputa – Non avrei voluto farlo, ci ho pensato a posteriori.
Tom boccheggiò, mentre Juda Levi annuì comprensivo, dimentico della lavata di capo che stava facendo al suo giovane e scapestrato dipendente
-Capisco, ragazzo. Tutti noi possiamo commettere degli errori.
Bill sospirò, facendosi delicatamente aria con un ventaglio di carta di riso tirato fuori dalla borsa di lacca rossa, per poi girarsi verso Tom e mugolare
-Tooooom, mi accompagneresti fuori? Non respiro tanto bene in mezzo a tutta questa polvere …
Tom fu talmente sorpreso dal sentire quel dolcissimo modo di pronunciare il suo nome, con tutte quelle “o” tirate fino all’inverosimile da non rendersi conto del semplice fatto che Bill voleva uscire da lì e che voleva salvarlo dalle artritiche grinfie del vecchio ebreo, che esclamò
-Insomma, Tom! Il tuo splendido ragazzo ti sta chiedendo di uscire! Svegliati ragazzo mio, vai, vai e portami la traduzione!
-Certo capo! Vado e porto la traduzione! Sì! Lehitraòt!- Tom sembrò svegliarsi di colpo, trascinando di peso Bill fuori dalla porta, che si limitò a fare un largo sorriso al signor Levi:
-Arrivederci signore. E comunque, io e Tom non stiamo insieme.
Quando furono fuori, finalmente all’aria aperta resa bollente dal caldo fohn che soffiava imperterrito sulla città, trascinandosi dietro ondate di calore sconosciute, Bill scoppiò a ridere, facendo tintinnare le numerose collane
-Certo che quel vecchio ebreo è davvero esilarante.
-Sì, beh, a volte … - Tom si grattò distrattamente il collo, pensando a Lloyd e Paris che lo aspettavano insieme al vecchio e macilento computer nel “Brecheisen”. Dio, il Brecheisen. La seconda casa di Tom, il bar infognato nei vicoli più sporchi e luridi di tutta Berlino, quello buio e impregnato di fumo, dove si respirava fumo di sigarette e di canne, dove bevevi fino a vomitarti addosso, dove mangiavi panini enormi e patatine imbevute d’olio, dove volavano pugni e bestemmie che era un piacere, dove si nascondevano i rifiuti della società come lui e i suoi amici, quei fottuti quasi trentenni che non sapevano che fare delle loro vite, indecisi se darsi una mossa a crescere o se rimanere gli eterni bambini di sempre. Tom si era praticamente trasferito in quel buco di cerca rogne e di scarti sociali da quando Gustav aveva cominciato a lavorarci, e in breve lo avevano fatto diventare il perno principale dove giravano le loro vite. Per qualsiasi problema, scoperta, lutto, gioia, ci si precipitava al Brecheisen per urlarlo a tutti, sicuro che chiunque fosse stato lì in quel momento sarebbe stato pronto a consolarti, aiutarti, gioire con te, darti consigli di vita. Potevate essere perfetti sconosciuti: ma a un certo punto, pensava Tom, se sei così perso da andare al Brecheisen, allora non puoi far altro che fare gruppo con i perduti come te. Era come se fosse un esclusivo club per loro, i quasi trentenni che si sentivano Peter Pan. Gustav viveva dietro a quel bancone malconcio e sudicio, Tom passava tutto il suo tempo seduto in un tavolino in fondo con computer e vocabolari a lavorare, con i soliti hamburger ricoperti di ketchup davanti, Georg faceva la sua comparsa incarognita alle cinque spaccate di ogni pomeriggio insieme a Julia, perennemente arzilla e su di giri, e poi arrivava Rebecca, e tutti gli altri, pian piano, a riempire quel covo di poco di buono che erano. Tom si ricordava ancora quando, una notte, Julia era arrivata barcollando vicino a lui, ubriaca fradicia, i capelli biondi tutti arruffati e i vestiti vertiginosamente corti completamente bagnati di alcol, che si reggeva a stento a una ragazza con la faccia esaltata e i capelli rosa chewingum, conciata come una di quelle che battevano dalle parti dello zoo e gli aveva detto “Tom, io hic ti volevo hic presentare la hic mia nuova hic fidanzata hic Re … hic Rebecca! Sa … saluta hic, Tom hic!” e poi gli era svenuta addosso. E la tizia inquietante gli aveva fatto un sorriso da squalo, stritolandogli la mano con forza inaudita e si era caricata Julia in spalla con una rapidità di movimenti sconcertanti, facendogli un buffo saluto militare e scomparendo tra la folla. Tom si era semplicemente preoccupato della sua mano fatta a pezzi dalla presa ferrea della tizia strana, salvo poi doversi abituare ad averci spesso in casa quell’affare rosa, che per sua sfortuna divenne misteriosamente la Fidanzata con tanto di F maiuscola della sua coinquilina, che mangiava giapponese, picchiava come fosse normale, giocava a freccette con i coltelli e faceva riti esoterici nella loro doccia. E ballava la salsa sul terrazzo in mutande. E gli infilava i ragni nel letto. E lo faceva andare fuori di testa che era un piacere. Beh, comunque lui al bar di Gus doveva andarci; si era fatto portare apposta tutti gli strumenti del mestiere, non poteva non presentarsi.
Prese fiato, guardò Bill che fissava interessato una vetrina di vestiti da sposa e chiese
-Ehm, Bill, ti … ti andrebbe di venire con me al Brecheisen? Ti offro da bere.
Bill lo guardò, sfarfallando gli occhioni truccati, mordicchiandosi pensosamente il labbro inferiore
-Mi offriresti da bere? Come sei galante, Tom.
Tom arrossì senza volerlo, cercando di nascondersi dietro al cortina di capelli unti.
-Ti andrebbe davvero?
-Se potresti offrirmi un bicchiere d’acqua te ne sarei grato, devo prendere i miei tranquillanti.- Bill agitò una scatoletta di medicine tirata fuori dalla borsa – Mi dimentico sempre di portarmi dell’acqua dietro …
-Beh, ma certo! Voglio dire, ti offro tutto quello che vuoi!- Tom fece un sorriso raggiante, evitando accuratamente di dire come fosse il bar in questione, nella speranza che Bill non lo piantonasse lì da solo come lo sfigato che era – Allora andiamo?
-Va bene, Tom. Andiamo!
Bill si fece prendere a braccetto con un sorriso dolce, stringendosi al braccio di Tom con forza, barcollando sui tacchi vertiginosi e Tom sospirò rumorosamente. Eppure, in qualche modo, Bill non gli era nuovo, forse aveva ragione lui, si conoscevano. Ma proprio, per quanto si sforzasse, non vedeva altro che nebbia nel suo cervello.
  
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