Muffa
E` la prima volta che metto piede su un tram. Penso che
quasi quasi mi vengono le lacrime agli occhi. E` una sensazione strana, un po'
come quando si da il primo bacio e ci si sente per meta`
sciolti nell'acido e per meta` nel burro.
Scatto un paio di foto: saranno la prova dell'esistenza di
quel tram che, dopo ere di attesa febbrile, finalmente ho beccato.
Immagino che vi starete chiedendo dove sia diretta.
Semplicemente e con tutta franchezza: da nessuna parte. In realta`
una meta ce l'avevo ed era il Policlinico. Solo che volevo provare l'ebbrezza
dell'avventura (essendo tra l'altro uscita di casa in netto anticipo) piombando
a sorpresa sul tram. Metasorpresa, tra l'altro,
perché non mi aspettavo affatto che passasse proprio da qui. E no, i binari non
sono una prova. Sono come san Tommaso, io.
Comunque, arrivo al capolinea, stazione Centrale. Comodo, perche` il bus per il Policlinico passa proprio da qui. Mi
ficco le cuffie nelle orecchie e mi sparo la playlist
da blitz degli SWAT nei film d'azione, e attraverso la strada come se stessi
andando incontro al mio destino, col vento che mi spelacchia il ciuffo.
Artistico.
Per mia fortuna (non sono un asso nelle relazioni umane) la
fermata dell'autobus e` deserta. Alle mie spalle c'e` una bancarella di fumetti usati, e con strabismo
tattico getto uno sguardo per vedere se hanno roba su Deadpool.
Con l'altro occhio controllo la situazione vetture. Niente su entrambi i
fronti.
Intanto al mio
fianco e` spuntato
un vecchietto. Mi dico che
carino, come se avessi visto un gerbillo, e mi accendo una sigaretta.
Tace. Vorrei tanto che cominciasse a sproloquiare su
Mussolini o a raccontarmi roba sulla guerra mentre io rimango muta e mite ad
annuire. Magari l'autobus arriverebbe piu` in fretta.
Magari.
L'autobus alla fine arriva ma con venti minuti di ritardo
meridionale. Sospiro: dovro` correre come l'ultima
volta e arrivare allo studio sudata come Bolt al traguardo e odorosa di cane
bagnato. Colpa di quel tram tutto seducente che...
Policlinico, finalmente.
Entro dal retro, oltre la barra di sicurezza, dove ci stanno
parcheggiate le ambulanze in pausa pranzo. Questa e`
l'unica strada che mi permette di trovare il polo di psichiatria in mezzo
all'intrico di vie, viali e viuzze. Che poi ognuna di queste ha il nome di
qualche branca medica o malanno misterioso. Grazie, rinfrancante per davvero.
Ovviamente, dopo aver esplorato ogni anfratto come al
solito, mi perdo. E qui scatta la maledizione: medici e infermieri scompaiono
misteriosamente ogni volta che mi servono, e quindi praticamente una volta al
mese, quando mi scapicollo qui.
Risco
a beccare un inserviente poco conscio della propria esistenza e gli chiedo con
tono pigolante: "Scusi, per psichiatria?"
"Pissichiacia?
Allora..." e mi spiega tutto per filo e per segno.
"Grazie mille e buona giornata."
Non afferro molto, ma dopo un breve peregrinare ci arrivo.
Saluto le gradinate del polo con un urlo animalesco di vittoria (ma anche di
piacere, volendo essere sconci) e mi ficco nell'ascensore agitando gioiosa il
sedere. Non vedo l'ora di ritrovare i miei amichetti del reparto (dai giovani
psicotici agli adulti depressi o ludopatici) per
intrattenermi con i soliti baratti di cibo e sigarette di contrabbando.
Ebbene si`.
L'idea me la diede un ragazzo schizofrenico che chiameremo
A. Un giorno, mentre aspettavo che la mia psichiatra mi facesse chiamare, vidi
che questo tizio aveva un pacchetto di sigarette di contrabbando. Io tutta
eccitata dal brivido illegale, gliene chiesi una e cominciammo a parlare. Alla
fine, visto che lui non aveva monetine, mi offri` tre
sigarette per una merendina delle macchinette. Il resto e`
storia.
Giungo in reparto con aria boriosa, senza ragione, tanto per
darmi un tono da disagiata fra i miei simili. "Buondi`."
Mi arriva un moscio coro di "ciao".
Butto lo zaino per terra e mi ci accovaccio accanto.
Controllo l'orologio: dieci minuti d'anticipo, sono davvero grande.
Perfetto, mi dico, è il momento di agire.
Tiro fuori dallo zaino tabacco e cartine, e comincio a
mormorare tra me e me quanta fame io abbia e quanto tabacco buono mi sia
portata dietro. Getto l'amo, insomma.
E qualcuno, un depresso per essere precisi, abbocca.
"Ti secca se mi fai una sigaretta?"
Io gli sparo un'espressione che è tutto dire.
"Che dice se gliene rollo tre e lei mi offre un
pacchetto di mikado?"
"Amuni`."*
Mentre tutta contenta finisco di rollare l'ultima sigaretta
(e la merendina piomba nel cassetto della macchina) sbuca fuori dal nulla la
mia psichiatra.
Cala il gelo. Lei sa, ma pensava avessi smesso.
"Prenditi quei mikado e vieni dentro, dai."
Il suo tono non promette nulla di buono.
Ci addentriamo nel corridoio che porta allo studio (di
fronte alla saletta dei tirostronzanti) e una volta
giunte alla meta (mi cadono le gonadi) ci accomodiamo.
"La devi smettere di commerciare coi pazienti."
Finge di essere seria, ma sorride sotto ai baffi. "Lo so, curami." e
le mando un bacio.
Sospira.
"Quindi come sai?" "Sopravvivo."
"Mi devi dire qualcosa sui medicinali?" "Non
che io sappia."
Stavolta si fa seria per davvero. "Smettila,
avanti."
"Dunque" comincio "sempre le solite cose. Non
posso dirti altro, diciamo che mi censuro. Non voglio che la gente che sta
leggendo questo racconto faccia ulteriore gossip su di me."
"Racconto?"
"Questa cosa sta prendendo una brutta piega."
Ci mettiamo a chiacchierare del piu`
e del meno, di problemi piu` veri che finti e di
gioie piu` finte che vere. Tocco il culo ad una
tirocinante fingendomi sbiellata, ci provo con la psichiatra in modo
palesemente goliardico e poi mi dileguo. Arrivederci e grazie, con tanto di
nuova prescrizione.
In un'altra vita questa tipa fara`
la pusher, ve lo dico io.
Mentre torno a casa in metro, sbocconcello la mia merendina
di "contrabbando" e mi metto a rimuginare. Non ho voglia di
sorridere, non adesso.
Guardo fuori dal finestrino. Mura, mattoni, case gialle, di
nuovo mura umide e nerastre. Sembra la mia vita.
Forse questa storia di nascondere il disagio dietro battute
di dubbio spirito comincia a fare la muffa, proprio come me e quei muri di
cemento.
Fermata. Torno a casa.
Mi annuncio urlando che la doc me l'ha messa di nuovo nel
culo.
"Come si chiamano le pillole?" chiede mia madre.
"Vastasunazza**, parla bene!" bercia mio
padre. "Abilify." rispondo io.
Saluto la mia gatta con un boffetto
sul sederino. Vado a rintanarmi in camera, da sola.
E` vero, comincio a fare la muffa proprio come quelle mura
nerastre della metro.
* andiamo; d'accordo
** sporcacciona