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Autore: Artemisia89    04/04/2009    4 recensioni
Iniziò tutto negli ultimi giorni di Ottobre.
(Passarono i mesi.
Ce la cavammo.
Il mondo, fuori, si spegneva)
Genere: Generale, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiara

 

Transcription of two definitive dreams

 

 

 

Iniziò tutto negli ultimi giorni di Ottobre.

Il tempo cambiava nello specchio di un mare più scuro, le spiagge si spopolavano, le strade tornavano deserte, riappariva il freddo in un vento sferzante e rumoroso: io ero tornata all’Università da meno di un mese.

Durante quell’estate non avevo chiesto mai ad i miei, nemmeno una volta, spiegazioni riguardo ciò che stavano facendo. Non capivo e non chiedevo. Mi godevo il mare e le serate in paese senza fiatare, senza pensare, senza nemmeno provare  a domandare loro il perché di quegli sguardi seri e perfettamente consci di una verità di cui tutti gli altri erano assolutamente ignari.

Una sera a cena finita, mentre mangiavo gli ultimi resti di un’insalata, al telegiornale passò una notizia su una certa casa farmaceutica che stava sperimentando un nuovo farmaco: io continuai a sgranocchiare il mio cibo, ma vidi con la coda dell’occhio papà sobbalzare e perdere la forchetta. Cadde a terra con un suono metallico e profetico; mamma invece continuò indifferente a sciacquare i piatti nel lavello, ma la vidi stringere le labbra sottili: fu lì che iniziai a capire. E ad accettare. Chiusi gli occhi.

Il giorno dopo iniziai a pensare alle valigie per il ritorno all’Università: aprivo i cassetti, guardavo dubbiosa la libreria, soppesavo una maglia e poi la rilasciavo lì. Non era il caso di disturbarsi troppo, buttò lì la mia mente. In effetti aveva ragione.

Mamma non mi disse niente, perché in qualche modo lei sapeva che io sapevo già. La ricordo perfettamente ritta e stabile l’ultima volta che la vidi prima di avviarmi verso l’imbarco del mio aereo, perfettamente conscia di ciò che sarebbe successo.

Io non ne avevo che un’idea pallida, loro vivevano con quel pensiero costante da anni.

 

Iniziò tutto negli ultimi giorni di Ottobre.

Guardavo fuori dalla finestra una pioggia assolutamente costante, presagio di un inverno altrettanto piovoso. Guardavo fuori annoiata e contemporaneamente in attesa. Quella mattina, prima della lezione delle dieci, avevo visto il telegiornale. Il mezzobusto in cravatta rossa dopo la notizia sull’economia estera aveva parlato nuovamente di quella certa casa farmaceutica che quel giorno avrebbe rilasciato il rivoluzionario farmaco sul mercato mondiale. Mi alzai da tavola, pulì in fretta e uscì, portandomi via la calma, la fretta, tutte le paure per buttarle poi nei cassonetti davanti casa.

Salutai i miei amici sulle scale di Facoltà: sto partendo dissi. Problemi a casa, non ho idea di quando tornerò. Mi mancherete tanto tanto tanto tanto tanto. Ci sentiamo su msn ok? E quanto avrei voluto dire abbiate cura di voi stessi. Quanto avrei voluto, ma come potevo? Come, come, come…

Trovai  i miei nella mia stanza al mio ritorno. Non avevano tolto nemmeno i giubbotti.

Ciao, dissero. Ciao, risposi.

È ora di andare.

 

Sulle scale mobili iniziai a pensare, l’unica cosa che non mi era concessa. Pensai alle cose che avevo lasciato nella mia stanza: pensai alla dispensa aperta a pag.128 per l’esame di Storia. Ai soldi nella cassetta di sicurezza nascosta nel cassetto della biancheria, al giorno passato che avevo dimenticato di sbarrare sul calendario della scrivania. Arrivai a pensare agli indumenti sporchi lasciati nella borsa accanto al termosifone quando mio padre mi svegliò. Eravamo arrivati a casa: mio fratello mi guardava con aria grave ed un sorriso quasi colpevole. Mi nascosi nell’incavo della sua spalla per non piangere. Lo strinsi forte per farci sentire più forti, mi guardai bene dal farmi scoprire nervosa. Era ora di iniziare a svuotarsi di tutto.

 

Il 30 Ottobre alle quattro del pomeriggio papà imboccò il sentiero che conduceva a quella che sarebbe stata la nostra nuova casa. Ma per me non era nuova. Io la vedevo continuamente nei miei sogni, entravo all’infinito nella sala ampia e rustica e polverosa e accogliente. I cancelli sepolti dai rampicanti, le entrate seminascoste, il bosco che si chiudeva attorno alla casa e che la sommergeva, spingendola sempre di più nel sottosuolo. E poi, attorno, tutto il resto. No, non era una prigione, era una protezione. L’aveva progettata mio fratello, l’aveva rinnovata lui. E la sua conoscenza non aveva punti deboli, in merito.  A lui e a lui solo dovemmo la nostra salvezza: e non solo fisica.

 

Passarono i mesi. Ce la cavammo. Il mondo, fuori, si spegneva. Le nostre giornate diluivano il tempo e i muri spessi filtravano ogni dolore: dalla mia stanza guardavo fuori, attraverso gli spessi vetri, e le nuvole grigie mi rimandavano l’apatia e l’immobilità dei miei pensieri.

In cucina mamma lavava la verdura, papà accatastava la legna nella taverna, mio fratello potenziava le difese attorno alla casa: io pensavo a quanti amici ormai dovevo aver perso e mi accorsi disperatamente che in quella casa non ci sarebbe mancato, ne poteva mancarci alcunché, tranne che la vita.

 

 

***

Note: è davvero davvero la trascrizione di due sogni. Probabilmente tutta colpa dei film che vedo con mio fratello, e dei libri che leggiamo - e che gli regalo, sia chiaro. Troppi troppi troppi zombie. Ma questa roba qui mi ossessionava davvero: ho fatto due volte questo sogno; i miei che mi venivano a prendere placidi e seri, e io che guardavo la stazione dall'alto delle scale mobili. Questa storia è davvero una pura fantasia: prendetela così com'è.

  
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