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Autore: suni    04/04/2009    9 recensioni
Sono gli istanti finali a fare la differenza. Per il resto, l’ultimo giorno della propria vita è spesso un giorno come tutti gli altri.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Itachi, Sasuke Uchiha, Shisui Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Penso che la storia della formula “dead man walking”, appunto “uomo morto in marcia” sia nota più o meno a tutti, ma per sicurezza la ripetiamo: è la frase che viene pronunciata nel momento in cui i condannati a morte iniziano a percorrere il corridoio c

Penso che la storia della formula “dead man walking”, appunto “uomo morto in marcia”, sia nota più o meno a tutti, ma per sicurezza la ripetiamo: è la frase che viene pronunciata nel momento in cui i condannati a morte iniziano a percorrere il corridoio che li porta alla sala dell’esecuzione, in quel grande e democratico paese che sono gli USA. Ho voluto appropriarmi di questa macabra espressione ed usarla come titolo perché questo personaggio è già condannato, come se fosse ormai morto. Solo che lui non lo sa.

 

 

 

 

 

 

____________________________

 

 

“Ti vuoi alzare da quel letto? E’ una vergogna che un jonin come te…”

“Sì, mamma,” mugugnò lui con un sospiro, schiacciando poi il viso contro la federa del cuscino e voltandolo infine di lato. “Soltanto un minuto, va bene?” proseguì supplice, soffiando aria dal naso per scacciare una lunga ciocca di capelli che gli solleticavano il mento e le labbra.

“Un minuto un corno!” protestò lei a voce alta, tanto da fargli socchiudere automaticamente gli occhi: eccola lì, sagoma scura stagliata nel rettangolo luminoso della porta, con le mani puntate minacciosamente sui fianchi. Maledizione, le madri.

Tempo un nanosecondo, o almeno così parve al ragazzo, ed eccola marciare con un passo che pareva più adatto a un ANBU di ottanta chili che ad una donna esile e aggraziata come lei, fino a raggiungere la sua finestra e spalancare le tende scure con un gesto deciso e forse un po’ sadico. La luce del primo mattino penetrò violenta e improvvisa, inondando la stanza di un biancore abbagliante.

Mammaaa!” protestò il ragazzo con veemenza, voltandosi in fretta verso la parete e tirandosi le coperte fin sopra la testa.

“Vedi di muoverti, signorino. Tuo cugino è già in piedi da più di un’ora, è già andato al quartier generale e ritornato e tu sei qui che russi!” continuò la madre senza battere ciglio, severa.

E ti pareva, si disse. Ma viveva senza dormire, quello? Sembrava sempre di più una macchina. Perché doveva andare al quartier generale all’alba anche quando aveva un giorno libero?

“Mio cugino è fuori di testa,” brontolò sonnolento.

“Magari se gli somigliassi un po’ di più…” sibilò lei con eloquenza, prima di avviarsi spedita alla porta. “Se non ti trovo in cucina entro cinque minuti do fuoco al tuo letto,” lo avvertì secca, prima che i suoi passi si allontanassero definitivamente.

Lui sbuffò sonoramente, mettendosi supino. Ormai era perfettamente sveglio, sebbene ancora intorpidito, ed era conscio che la minaccia non era fatta per cadere nel vuoto: sua madre sapeva essere di una crudeltà agghiacciante. Niente a che vedere con la zia, che non perdeva mai la calma ed era sempre tranquilla e sorridente. Le bastava fare una smorfia indignata e alzare di un filo la voce e gli uomini di casa rigavano dritto, perché era semplicemente irresistibile. Quella sì che era una mamma: certe volte si domandava se fossero davvero sorelle.

Si rizzò a sedere, sbuffando di nuovo e sfregandosi gli occhi coi pugni chiusi. Rimase immobile per qualche secondo, intontito, e meditò su quanto sarebbe stato bello poter entrare in coma per tutta la giornata ed evitarsi il fastidio di esistere. Il suo orologio segnava le otto, quindi aveva dormito esattamente cinque ore.

“Che fregatura,” borbottò, risolvendosi infine ad uscire dal letto. Infilò i piedi nelle pantofole, agguantò l’elastico sul comodino iniziando a legarsi i capelli e contemporaneamente caracollò rassegnato verso il piano di sotto.

 

 

 

 

Uomo morto in marcia

(l’ultimo giorno)

 

 

Mattino, 08:OO

 

Se avesse potuto anche solo lontanamente immaginare che entro dodici ore sarebbe stato defunto non si sarebbe alzato per davvero, quel giorno. Non avrebbe mosso un passo, sarebbe rimasto rannicchiato sotto le coperte ad aspettare che passasse, che l’incubo non avesse luogo. Avrebbe atteso che il mondo non si capovolgesse e che la tragedia non cominciasse, portandosi via lui per primo.

Ma non poteva sapere.

Così si presentò in cucina con gli occhi pesti e la coda nera arruffata, incappando in suo padre che, vestito di tutto punto e perfettamente operativo, gli lanciò un’occhiata quasi compassionevole.

“Festeggiato fino a tardi?” domandò il genitore, saputo.

“Quattordici anni si compiono una volta sola,” borbottò lui, abbandonandosi sulla prima sedia a disposizione. Sua madre ciabattò nella stanza in quel momento, le braccia cariche di panni da piegare.

“Non è una buona ragione per rientrare a notte fonda,” osservò tagliente, indicando col capo la teiera fumante. “Dove sei stato?”

“Uffa, dove vuoi che fossi,” biascicò lui colpevole, pur senza sentirsi tale. Si alzò per riempire una tazza, prendendo fiato. “Siamo rimasti lungo il fiume a chiacchierare e mangiare dolci di riso,” aggiunse mite, agguantando una galletta.

“Eri con tuo cugino?” domandò suo padre, aggrottando la fronte.

Lui annuì pacato ed entrambi i volti dei genitori si rischiararono. Tornò a sedersi con uno sospiro paziente. Bastava nominarlo ed ecco che tutto andava bene. Si domandava per quale ragione, dal momento che quello ultimamente si comportava come un completo psicopatico. Non che fosse mai stato del tutto a posto con la testa, ma era anche per questo che gli voleva bene.

“Da un po’ di tempo lo trovo strano. Forse è un po’ stanco,” iniziò, sorseggiando il tè. “Voglio dire, tra noi e gli ANBU è un bel po’ sotto pressione, no?” azzardò, vago.

Suo padre si accigliò solenne.

“Tuo cugino non è uno shinobi comune,” gli ricordò, compreso.

Lui annuì inespressivo, sgranocchiando la galletta. Nel farlo gettò gli occhi sull’orologio a muro e constatò ancora che, essendo le otto passate, non doveva mancare molto perché il marmocchio si manifestasse. Ed ebbe appena il tempo di formulare quel pensiero prima che una vocetta urlante dalla strada confermasse l’esattezza della sua tesi.

“NII-SAAAN!”

Sbatté la tazza sul tavolo, sospirando esasperato. Il richiamo acuto si ripeté una seconda volta e lui si alzò di scatto, marciando pesantemente verso la porta.

Shi…” tento di richiamarlo sua madre, del tutto ignorata. Lui oltrepassò l’anticamera, spalancò l’uscio e individuò il moccioso a una dozzina di metri. Lì piantato in mezzo alla strada, con la sua facciotta rotonda e gli occhioni e il suo pigiama con… Ma erano orsetti, quelli?

Oh. Molto carino

“Senti un po’, pidocchio!” esclamò sprezzante, levando il mento all’aria. “Tuo fratello ha il diritto di fare tre passi senza averti alle calcagna, sai? Smettila di essere assillante,” intimò con fare superiore.

Il bambino sgranò gli occhi e fece un broncio corrucciato, stizzito.

“Io non sono aslialli…” iniziò risentito, perdendosi a metà frase.

“Assillante,” ripeté lui, con aperto scherno. “Non sai nemmeno cosa vuol dire, microbo,” aggiunse condiscendente.

“Sì che lo so!” protestò il cuginetto indignato, serrando le manine a pugno.

“Ah sì?” commentò il più grande, canzonatorio. “E cosa vuol dire?”

Il bambino aprì la bocca e rimase in silenzio, con espressione confusa. A lui parve di vedere il fumo che gli usciva dalle orecchie, tanto intensamente rifletteva, e per la concentrazione gli si erano incrociati leggermente gli occhi. Poi sollevò la testa con tutta la fierezza dei suoi otto anni e si produsse in una boccaccia, corrugando il viso e facendogli una linguaccia.

Lui scoppiò a ridere di gusto, preso alla sprovvista. Bisognava ammetterlo, la briciola sapeva essere adorabile e faceva spanciare dalle risate. Non aveva mai visto un bambino naturalmente gattamorta come il suo cuginetto, poco ma sicuro.

“Penso che dovresti andare a vestirti, Sas’ke,” asserì in quel momento qualcuno alla sua destra. Lui non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi: primo perché conosceva quella voce meglio di qualunque altra, secondo perché la faccia di Sasuke si era illuminata di una luce estatica e adorante che poteva indicare una sola cosa.

“Buongiorno, Itachi,” salutò quindi, distrattamente.

Sasuke si lanciò in avanti trotterellando, arrivò a due centimetri dalla gamba del fratello e torse la testa indietro per guardarlo in faccia, con un sorriso quasi offeso.

“Dov’eri?” cinguettò contrito.

Shisui,” salutò brevemente Itachi, prima di chinare lo sguardo. “Vai a vestirti, Sas’ke,” ripeté bonario.

Il cugino lo guardò, corrugando la fronte. Doveva essere a sua volta molto stanco, visto che praticamente non aveva dormito, ma qualcosa nei lineamenti tirati di Itachi e nella rigidità innaturale del suo viso, particolarmente pallido, indicava una tensione che non aveva nulla a che fare con la spossatezza fisica.

“Vieni con me?” supplicò Sasuke, strattonando i pantaloni del maggiore con un broncio accattivante.

“Ma non sei capace a…?” iniziò Shisui spazientito. Itachi lo interruppe levando lentamente una mano, quindi spettinò i capelli del bambino con un gesto dispettoso.

“Vai da solo,” rispose definitivo.

Nii-san!” si lagnò Sasuke bizzoso. L’espressione del fratello rimase però benevolmente ferma e lui si corrucciò ulteriormente, sbuffò deluso e girò i tacchi, sgambettando mogio verso casa.

“Dovresti prenderlo a cazzotti, ogni tanto,” suggerì Shisui con l’aria di chi la sa lunga. “Ti senti bene?” aggiunse, lanciandogli una nuova occhiata indagante.

Itachi spostò gli occhi su di lui, senza espressione.

“Sì,” affermò meccanicamente. “Sì, ho solo un po’ sonno,” ripeté più fermo.

“Perché mai ti sei alzato così presto per andare al quartier generale?” lo apostrofò lui perplesso. “Non avevi un giorno libero?” continuò, scuotendo pazientemente la testa.

Itachi fissò lo sguardo assente sulla strada, rimanendo immobile. Shisui stava per chiedergli se fosse proprio sicuro di sentirsi bene, perché non ne aveva assolutamente l’aria, quando l’altro finalmente parlò.

“Volevo essere sicuro che non ci fosse bisogno di me,” affermò senza intonazione. Prese un lungo respiro, serrando le palpebre con un moto che sembrò quasi disperato, solo per un secondo, tanto che Shisui pensò di esserselo immaginato.

“Uchiha Itachi, il pilastro di Konoha,” ghignò divertito.

“Come no,” replicò il cugino, ancora ugualmente immerso nella sua cupa tralice. Lui pensò di fargli notare che non era morto nessuno e che poteva anche provare a fare, per dire, un sorriso, ma ricordando quando il suo migliore amico si fosse mostrato ombroso e tetro nell’ultimo periodo preferì soprassedere. Qualunque fosse la cosa che lo tormentava, Itachi presto o tardi gliel’avrebbe detta spontaneamente: funzionava sempre così, tra loro. Erano reciprocamente a conoscenza di ogni piccolo segreto, di ogni più inconfessabile debolezza.

Itachi sapeva che Shisui aveva avuto paura del buio fino a ben otto anni, che ogni tanto si metteva ancora le dita nel naso, che gli piaceva la sua compagna di team, Hanako, e che voleva partire da Konoha, un giorno, fare un lungo viaggio attraverso le altre nazioni maggiori e tornare dopo tre o quattro anni per diventare magari consigliere dell’Hokage, lasciando la polizia. Shisui sapeva che Itachi aveva un debole per i dolci, come sua madre, soprattutto per la marmellata di frutti di bosco, che era cotto – e segretamente ricambiato – di Naeko Uchiha, che aveva un cura ossessiva dei propri capelli e che il suo più grande timore era che succedesse qualcosa – qualunque cosa – di brutto a suo fratello, che si ferisse o perdesse la vita. Nessun altro sapeva quelle cose di loro due. Nessuno.

Quindi, ne aveva concluso, Itachi prima o poi gli avrebbe parlato della cosa che da qualche settimana aveva cancellato ogni traccia del suo sorriso, tranne per qualche rara eccezione nei momenti che trascorreva col fratellino. Non c’era motivo di spronarlo o di insistere perché parlasse: al momento giusto l’avrebbe fatto di propria iniziativa.

“Impegni per la giornata?” chiese distrattamente, reprimendo uno sbadiglio.

Itachi chinò lo sguardo, le sue labbra si piegarono leggermente verso il basso.

“Devo…fare una cosa,” mormorò senza intonazione, assente.

Shisui aggrottò la fronte nuovamente, esasperato. Cosa diamine stava succedendo a suo cugino? Non gli sembrava credibile che tutte quelle stranezze e quel fare elusivo dipendessero soltanto dallo stress o dalla stanchezza. Itachi non era un pivello, era ANBU all’età di tredici anni: qualcosa che da più d’una generazione era riuscita soltanto a Kakashi Hatake, il compagno di team del povero cugino Obito.

“Sì, beh, io sono in squadra nel pomeriggio,” ribatté sbrigativo. “Potremmo passare la mattinata, sai, a fare qualcosa noi d…”

“Sì,” lo interruppe Itachi senza che potesse finire la frase, quasi con urgenza.

Shisui gli lanciò un’occhiata ironica, di vago sfottò.

“Ti manco a tal punto?” scherzò. “Sto per commuovermi,” aggiunse ridacchiando, mentre sistemava la lunga coda dietro la schiena.

Itachi accennò una specie di smorfia che forse era un sorriso mal riuscito.

“Sono soltanto…sai, non ho mai tempo libero,” sospirò senza convinzione.

Shisui storse il naso. Non era esattamente persuaso dell’esattezza di quella versione dei fatti.

“Beh, ogni tanto ne avresti,” commentò sbuffando. “Ma Sas’ke è una maledetta palla al piede.”

Calcò quelle parole con convinzione, sventolando la mano quasi infastidito.

Non era che non gli piacesse il cuginetto. Era un bimbo strepitoso, per la maggior parte del tempo, acuto e con un signor caratterino che faceva ridere da matti. Ma poi vedeva Itachi e diventava una specie di lagna capricciosa e invadente. Un tormento.

“Non è una palla al piede,” lo contraddisse immediatamente il cugino, con leggera enfasi. “Non potrebbe mai,” mormorò ancora, voltandosi a guardare verso la porta di casa, oltre la quale il bambino s’era infilato poco prima. “A proposito, comunque…sospetto che dovresti vestirti anche tu, Shisui.”

C’era una vaga canzonatura nella sua voce e Shisui portò immediatamente lo sguardo sul proprio torace: nella fretta di uscire a rimproverare Sasuke s’era completamente dimenticato di essere ancora vestito per la notte, con pantaloni di tela blu e una larga maglia bianca.

Beh, se non altro non c’era traccia di disegni di orsetti.

Ridacchiò imbarazzato.

“Ricevuto. Ci vediamo tra una mezz’ora, diciamo, al monumento?” propose, stringendosi nelle braccia come per un freddo improvviso. “Anzi, al posto sul fiume,” si corresse, facendo un passo indietro verso l’uscio di casa.

“Che strano, non ti si vede mai da quelle parti,” osservò Itachi sarcastico, senza perdere la compostezza. “A dopo,” concluse telegrafico, voltandogli le spalle e allontanandosi con passo fermo.

Shisui lo guardò di spalle per un paio di secondi, poi girò sui tacchi e fece per entrare in casa. All’ultimo si voltò di nuovo indietro ad osservare il cugino: la coda nera di capelli lisci e lucidi, le spalle più strette e sinuose della media familiare, il capo eretto e le gambe scattanti. Lo osservò ancora e sussultò vedendo, per uno strano effetto di luce del sole ancora basso, l’ombra del cugino lunga e spessa sul terreno, che sembrava tanto più grande di Itachi da essere sul punto di sopraffarlo. Era una sensazione del tutto irrazionale e ridicola, ma per un singolo secondo Shisui non poté evitarsi di rabbrividire involontariamente. Poi scrollò la testa, si ripromise di non dormire mai più per meno di sette ore, viste le conseguenze devastanti sul suo raziocinio, e rientrò in casa per finire la sua colazione. 

 

 

Mattino, 09:30

 

“Pensi che sospettino qualcosa?”

La domanda di Shisui fu seguita da un lungo silenzio. Itachi continuava a osservare pigramente il cielo con aria assorta, sdraiato sull’erba accanto a lui. Soltanto dopo parecchi secondi si voltò a guardarlo, indifferente.

“Chi e cosa? Non ho elementi sufficienti per risponderti,” ribatté distrattamente.

Shisui non poté evitare di notare, di nuovo, che suo cugino sembrava completamente perso in un suo strano mondo oscuro, in quel periodo. Sbuffò pazientemente, portando lo sguardo tra le poche nuvole candide che decoravano il cielo azzurro, pulito e luminoso.

“Lo sai,” rispose, abbassando la voce. “L’Hokage e i suoi. Pensi sospettino qualcosa?”

Itachi serrò le labbra, portando lo sguardo sull’erba accanto a sé. Strappò inconsciamente un paio di steli ed espirò forte.

“No. Credo di no,” affermò grave.

Shisui annuì e nessuno dei due parlò più per qualche lungo minuto. Poi ridacchiò svagato quando una graziosa nuvoletta si compose in una forma che ricordava uno shuriken e la indicò al cugino, che si riscosse con leggero sussulto e sorrise senza entusiasmo. A quel punto lui sbuffò, stufo.

“A che pensi, Itachi?” chiese, cercando di sembrare disinteressato.

Silenzio, ancora. Quando osò voltare lo sguardo, aspettando di trovare di nuovo l’ANBU immerso nella contemplazione del nulla, lo scoprì invece serio e girato a sua volta verso di lui.

“Tu credi che sia giusto, Shisui?” domandò Itachi a voce bassa, fissandolo intensamente. “Quello che il clan sta facendo, intendo,” precisò, laconico e controllato.

Lui sbatté le palpebre, sbalordito da quella domanda inattesa. Si grattò il naso, prendendo tempo, poi spalancò leggermente gli occhi con incertezza. Se l’era posto più d’una volta anche lui, quel quesito, e non era mai riuscito a rispondersi precisamente.

“Beh,” borbottò esitando. “Immagino che…voglio dire, tuo padre e gli altri hanno ragione. Il nostro clan è stato penalizzato troppo a lungo e la situazione non promette di evolvere,” spiegò, prendendo a giocherellare senza rendersene conto con la punta di una ciocca di capelli, che sventolò leggermente sul mento. “Quindi, forse non c’è scelta,” concluse con più sicurezza.

“E per quanto riguarda le possibile conseguenze..?” continuò Itachi in un piatto mormorio, mentre il suo sguardo si perdeva di nuovo vacuo nell’immensità del cielo.

Shisui si rabbuiò, espirando rumorosamente. Questa era un’altra cosa su cui gli era capitato di interrogarsi, anche se per lo più tendeva ad evitarlo. Le conseguenze erano qualcosa che si sarebbe affrontato in seguito, a cui non voleva realmente pensare. Ma naturalmente si rendeva conto che potevano essere drammatiche.

Sbuffò, con un movimento nervoso e involontario della mano.

“Senti,” esclamò di slancio, “ovviamente non si può essere sicuri che siano le decisioni giuste in assoluto. Forse il paese precipiterà nel caos. Però, ehi, questo è il mio clan e io lo sostengo in ogni campo. Credo nella nostra forza, penso che possiamo riuscire e che valga la pena di investirsi per il bene collettivo degli Uchiha,” affermò accorato. “E’ una questione di priorità,” terminò compreso.

Itachi aggrottò la fronte con aria concentrata, prima di annuire lentamente.

“Priorità…” ripeté meditabondo, prima di guardarlo di nuovo, con un sorriso che gli parve più una smorfia di dolore. “Sì, immagino sia così. Priorità,” ribadì, deciso.

Shisui lo scrutò attentamente, ma la sua espressione era assolutamente impenetrabile. Si raddrizzò leggermente sul gomito, senza smettere di fissarlo.

“Perché queste domande? Dubiti?” lo interrogò, sospettoso.

Itachi scosse appena la testa, senza altre reazioni.

“Mi capita di pormi interrogativi su quale sia…il mio ruolo,” annunciò inespressivo, come se la questione fosse del tutto insignificante. Shisui sorrise bonario, scrollando le spalle.

“Beh, cugino,” esclamò, quasi divertito. “Ovviamente il tuo ruolo è di primo piano. Il tuo sharingan e le tue capacità sono superiori…”

“E quelle di Sas’ke,” precisò prontamente Itachi, riflessivo.

Shisui annuì noncurante, piegando la testa.

“Forse, chissà. È presto per dirlo, è soltanto un moccioso,” replicò scettico.

Itachi aggrottò la fronte, annuendo nuovamente.

“Già, esattamente. Qual è il suo ruolo in una guerra civile? Non sa difendersi. Non...” iniziò, quasi severamente.

“Ma piantala!” sbottò Shisui sbuffando, mentre lasciava ricadere la testa sul prato. “Non puoi passare la vita basandoti su di lui. Non puoi sempre star lì a vegliarlo,” commentò, noncurante.

“Ma sono il suo fratello maggiore,” mormorò Itachi, talmente piano che lui faticò a sentirlo. “Non importa,” aggiunse poi, riscuotendosi d’improvviso. “Anzi, non ne dovevamo nemmeno parlare, non è prudente. Colpa mia,” concluse, definitivo.

Shisui fece un cenno vago, atto ad indicare che non era nulla di grave.

“Fa nulla. Chi vuoi che sappia che siamo qui?” rispose con leggerezza.

“Nessuno, a parte tutti quelli che ti conoscono. Ci vieni spesso, Shisui,” replicò Itachi, leggermente ironico.

Lui sbuffò condiscendente, stiracchiandosi.

“Beh, chiamami scemo,” replicò con un sogghigno, muovendo il braccio ad indicare, intorno a sé, i rami degli alberi della boscaglia indietro oltre le loro teste, lo spicchio di prato verdissimo su cui erano sdraiati e più in giù la sottile spiaggia chiara, sassosa, e il ruscello luccicante che mormorava melodioso, riflettendo i bagliori del sole. Sorrise con infinita soddisfazione e con quell’espressione intimamente appagata di chi si accontenta con poco, tirandosela leggermente.

“Buffone,” commentò Itachi con un sorriso indulgente.

Shisui ridacchiò lezioso, stringendosi nelle spalle.

“Allora,” chiese poi, rizzandosi a sedere con uno slancio d’energia, “che facciamo di bello?”

 

 

Mattino, 11:00

 

Il sole cominciava a picchiare con una certa insistenza, immergendo Konoha in un chiarore diffuso. Dall’alto, il villaggio sembrava percorso da un’attività mediamente rilassata, accelerata unicamente dallo sporadico passaggio di squadre di shinobi che andavano e venivano dal centro operativo, il palazzo dell’Hokage. Più distante, il quartiere degli Uchiha spiccava per gli stemmi ben visibili anche da lassù, in cima alla gigantesca testa scolpita del Primo. Lì, sulla roccia nuda e spoglia, scevra della presenza di piante ed arbusti di sorta, veniva a mancare anche la brezza benefica che spirava tra i rami degli alberi circostanti il villaggio, invadendolo fresca.

Shisui si passò la mano lungo l’attaccatura dei capelli, tergendosi il sudore, mentre riportava pigramente lo sguardo alla scacchiera aggrottando poi la fronte con rinnovata attenzione.

In quel momento Itachi, imperscrutabile e flemmatico, allungò la mano ad afferrare un cavallo nero e lo spostò senza fretta, scalzando via un alfiere bianco che si coricò con un leggero tintinnio. Shisui sgranò gli occhi, preso alla sprovvista.

“Maledizione!” esclamò stizzito. “Non l’avevo assolutamente visto.”

Itachi sorrise impercettibilmente, ironico.

“L’ho notato,” commentò pacato.

Shisui sbuffò rumorosamente, poggiando il mento sul dorso della mano. Gettò un’occhiata d’insieme al piano da gioco, storcendo il naso: non stava messo molto bene. Aveva perso tre pedine, un cavallo, una torre e tutti e due gli alfieri. Itachi aveva soltanto più una pedina, ma l’unica altra figura che ci aveva rimesso era un singolo cavallo.

Ci voleva un buono schema per ribaltare la situazione, altrimenti l’avrebbe fregato.

Studiò attentamente le posizioni dei neri: il re era ben protetto e sarebbe stato difficile ottenerlo, ma la regina era slittata in avanti e giocandosi bene le mosse successive, sfruttando in modo intelligente il suo ultimo cavallo, Shisui poteva riuscire a mangiarla. Suo padre gli aveva insegnato lo schema che faceva per lui.

“Bene,” esclamò, spostando avanti una pedina di slancio.

Itachi sollevò appena lo sguardo su di lui, penetrante. Annuì pensosamente tra sé, prendendo fiato, e stirò indietro la schiena con indolenza, piegando poi il collo di lato come per stendere i muscoli. Shisui lo osservò in silenzio: impossibile capire dal suo viso o da qualunque suo gesto cosa stesse architettando per i movimenti successivi, né se avesse già un’idea precisa.

La sua mossa successiva lo spiazzò: Itachi ignorò completamente la sua pedina e spostò un alfiere, aprendo un’apertura sul re nero. Shisui esaminò la nuova situazione per cercare di capire l’utilità di quel gesto, ma gli parve non ne avesse una. Non sarebbe servito né a minacciare il suo cavallo al primo spostamento né a portarsi verso le sue teste coronate.

Forse era un diversivo per prendere tempo.

“Questa non l’ho capita,” borbottò assorto.

“E quando mai,” sospirò Itachi condiscendente. Lui gli fece una boccaccia e lanciò una pedina nera dal suo mucchietto sulla testa del cugino.

“Pallone gonfiato,” esclamò petulante. “Sei talmente pieno di te che tra un po’ esplodi.”

Itachi ridacchiò, per la prima volta della mattinata. Scosse il capo con noncuranza, sbuffando pazientemente.

“L’invidia è una brutta bestia,” osservò quieto, quasi dolente.

Shisui rise rumorosamente, maligno.

“Invidioso di te? Starai scherzando! Non sono mica quel cretino di tuo fratello,” ribatté altero.

“Sas’ke non è invidioso,” lo contraddisse Itachi meccanicamente. “E’ una cosa diversa.” Sbuffò disinteressato. “Tu sei figlio unico, Shisui. Lascia perdere.”

Lui roteò gli occhi esasperato, portando il cavallo in avanti come prestabilito.

“D’accordo,” concesse maestoso. “Il cugino Inabi, allora. Lui è invidioso come un cane morto. E se vuoi saperlo penso c’entri col fatto che piaci alle ragazze, anche a quelle più grandi.” E ridacchiò, scuotendo la testa. “A me sai quanto frega. Finché Hanako non…”

S’interruppe bruscamente vedendo il cugino, sempre impassibile, spostare ancora avanti l’alfiere ignorando di nuovo le sue mosse. Inclinò la testa, sempre più perplesso.

“Stavi dicendo?” lo apostrofò Itachi solerte, come non notando la sua sorpresa.

Shisui si grattò il mento, scrutando febbrilmente la scacchiera. Sbuffò rumorosamente e sventolò una mano. Di quel passo si sarebbe mangiato la regina, perché Itachi non faceva niente?

Sbuffò tra sé, tornando a osservare l’amico.

“A proposito di ragazze,” iniziò malizioso. “Ho incontrato una certa Naeko Uchiha ieri pomeriggio, mi ero dimenticato di dirtelo.”

Sorrise soddisfatto nel vedere la mano di Itachi bloccarsi a mezz’aria, mentre il suo sguardo apatico rimaneva fisso sulla scacchiera.

“Beh? Spero tu non intenda cominciare a dirmi di ogni volta che incontri una nostra parente,” osservò l’ANBU laconico.

Shisui ridacchiò perfidamente.

“Molto convincente, se non fosse per quel rossore che…”

“Io non sono arrossito,” protestò fermamente Itachi, quasi scandalizzato.

L’altro sbuffò, con aperta noncuranza.

“Perché non sei umano, altrimenti l’avresti fatto. Ma io so leggere tra le righe, Itachi, e so che mentalmente sei arrossito,” concluse, con un ghigno vittorioso.

“Mentalmente…” ripeté Itachi con aperto scetticismo.

Shisui annuì ripetutamente, con convinzione.

“Ti conosco, mascherina,” ridacchiò beffardo.

Questa volta Itachi sollevò lo sguardo su di lui, sorridendo con quella che gli parve amarezza.

“Già. Mi conosci,” mormorò, assorto.

Shisui sventolò la mano e si sporse in avanti, accorato.

Naeko-chan mi ha detto che qualcuno ha praticamente smesso di rivolgerle la parola e quasi non la guarda nemmeno più in faccia,” illustrò, con tono complice, “Come se non esistesse. Ne sai nulla, tu?” aggiunse innocentemente. Poi allungò rapidamente il braccio, muovendo un pedone per ultimare la sua trappola.

Itachi lo osservò inespressivo, serrando le labbra.

Shisui…” iniziò stancamente.

“No, me lo chiedevo perché, sai,” continuò lui, fingendo di ignorarlo. Certe volte suo cugino aveva bisogno di un bello scrollone, altro che complimenti a destra e a manca, “se tu conoscessi quel tizio che è cotto di Naeko-chan e scoprissi che ha smesso di degnarla della minima attenzione gli diresti che è un idiota. O no?” s’informò coscienzioso, trattenendo un sogghigno maligno.

Shisui…” ripeté Itachi cercando di arrestare la conversazione.

“Tu stai spezzando il cuore di quella poverina. E il tuo. Perché ho un cugino masochista?” concluse Shisui con fermezza, indicandolo contrariato.

Itachi socchiuse le labbra, con un’espressione esasperata, cupa e lontanamente malinconica. Poi scosse la testa, sbuffò e rimangiò qualunque affermazione fosse stato sul punto di esternare.

Allungò la mano, quieto, e spostò un alfiere decisamente in avanti.

“Ma che…?” sibilò Shisui all’erta, anche se non ci capiva più nulla.

“Non è affatto così. Ho molte cose a cui badare in questo periodo, mi affideranno una missione estremamente complessa e mio fratello sta cominciando l’accademia,” scandì Itachi con voce profonda e controllata.

Naeko-chan dice che…”

“…Ultimamente sono strano e non le piace il mio sguardo, lo so. Guarda che me l’ha detto. Il che dimostra che non è vero che non le parlo,” concluse Itachi grave.

Shisui passò alla mossa successiva, sbuffando insoddisfatto.

“Comunque sia ci è rimasta male,” osservò con rimprovero.

Itachi guardò le sue figure per qualche secondo, meditabondo, e poi la sua torre mangiò un pedone bianco. Shisui si strinse nelle spalle, l’elemento era sacrificabile.

“Mi dispiace che ci sia rimasta male,” commentò Itachi lentamente, guardandolo mentre lui finalmente intrappolava la regina nera. Alla prossima mossa, niente lo poteva impedire, Shisui l’avrebbe mangiata. Sorrise tra sé vittorioso, poi tornò a badare alla conversazione.

“E’ che sembri strano anche me,” borbottò incerto. “Cioè, non strano, sembri…uno che sta annegando,” precisò, riflettendo attentamente su come rendere a parole la sensazione spiacevole che Itachi gli trasmetteva in quel periodo.

Suo cugino sorrise, con un sorriso affettuoso, amaro e estremamente sconfitto che lui non capì.

“Perché è vero, tu mi conosci, Shisui,” mormorò, facendolo sussultare e sollevare la testa di scatto con stupore per quell’ammissione di malessere. Itachi non gli lasciò però il tempo di interrogarlo in merito, portò la mano avanti, spostò l’alfiere e prima ancora di averlo posato sulla casella voluta mormorò “Scacco matto.”

Shisui balzò su esterrefatto.

Cheee?” strillò incredulo, sbattendo ripetutamente le palpebre mentre guardava la scacchiera.

Il suo re, ancora immobile e incuneato tra i pezzi rimastigli, era sotto la minaccia diretta dell’alfiere nero. Osservò febbrilmente lo scenario e si rese conto di non poterlo più spostare: se l’avesse fatto, la torre che Itachi aveva mosso poco prima l’avrebbe comunque mangiato.

Aveva perso.

“Maledetto infido…” grugnì stizzito, sdraiando il re bianco con una manata. “Avevi calcolato le mosse che stavo facendo e ti sei regolato di conseguenza. Molto astuto,” bofonchiò contrito.

“No,” fece Itachi scuotendo la testa, “sei tu che sei stato prevedibile. Ti sei tenuto troppo coperto indietro e hai attuato una strategia visibile,” spiegò placido.

“E quindi?” fece Shisui torvo.

“Quindi mi è bastato adattarmi, che è un’altra cosa che tu non hai fatto. Hai continuato il tuo schema senza più domandarti quale fosse il mio, il che mi ha dato un grosso vantaggio. Poi ho attaccato e ti ho spiazzato, perché le mosse migliori sono quelle ardite e completamente inaspettate,” concluse Itachi, iniziando a riordinare i pezzi diligentemente. Shisui aggrottò la fronte, ragionando su quelle poche parole del cugino. Si grattò una guancia, concentrato.

“Questo è il modo in cui combatti,” commentò, esprimendo una semplice consapevolezza.

“Non c’è molta differenza tra una partita a scacchi e una battaglia mortale,” confermò Itachi rigidamente, assorto. “Si basano entrambe sui medesimi principi.”

“Hai usato la regina per distrarmi, uno specchietto per le allodole,” continuo Shisui, sistemando i suoi pedoni sulle caselle.

“Sì. E ingannandoti ti ho fatto fare esattamente quello che volevo,” concluse Itachi, giocherellando distrattamente con il laccio del proprio coprifronte.

Shisui sorrise, risoluto.

“Rivincita?” propose allegro.

Itachi annuì, stringendosi nelle spalle.

 

 

Pomeriggio, 15:00

 

Shisui sbadigliò per l’ennesima volta, insonnolito. Essere di ronda in una giornata così calda, e per giunta senza aver dormito a sufficienza, era sfiancante. Il torpore lo lasciava completamente intontito, rendendo i suoi movimenti più lenti del solito e la sua attenzione blanda. In effetti, la sua mente era concentrata su pressoché un unico pensiero: vagheggiava, pigra, il momento in cui sarebbe andato a dormire, a sera. Già immaginava di sprofondare la faccia nel cuscino e gli pareva quasi di sentire il piacevole tepore del lenzuolo sulla schiena.

“Di’, ce la fai a camminare o devo lasciarti qui?”

Shisui sorrise distrattamente a Inabi, fermo qualche metro più avanti e intento a guardarlo con vago scherno. Sbatté un paio di volte le palpebre e scrollò le spalle, accelerando il passo.

“Perché cavolo dobbiamo farle sempre, queste ronde?” borbottò annoiato. “Non succede mai un cavolo di niente, tanto. Lo zio Fugaku ha ragione, qui ci prendono tutti per i fondelli.”

“Non stare a urlare tanto, idiota,” lo riprese il più vecchio, superiore. Gli voltò le spalle, arrampicandosi sul camminamento più alto delle mura di cinta di villaggio. Shisui lo imitò con un balzo, gettando poi l’occhio su Konoha. Come previsto, il villaggio era placidamente sopito nella calura estiva. C’era poco movimento e un silenzio generale, sporadicamente disturbato da qualche voce svagata e dal rumore di porte e finestre che si aprivano e si chiudevano.

“Come volevasi dimostrare,” commentò sbuffando.

“La scoperta dell’acqua calda,” concesse Inabi, avanzando con un sorriso affilato. “Presto le cose cambieranno,” mormorò poi, assorto.

“Grazie al cielo. Quando Itachi…” confermò lui con un picco di vivacità, tenendogli dietro.

Shisui,” lo interruppe seccamente Inabi. “Tu parli troppo.”

“Ma sei tu che…” ribatté lui risentito, sventolando una mano.

“Smettila di fare nomi!” soffiò Inabi severamente.

“Ma sono mio zio e mio cugino, eh,” fece notare lui, noncurante.

L’altro scrollò la testa con una smorfia aspra, balzando avanti senza più parlare. Shisui si affrettò a sua volta ad avanzare, di malavoglia. L’unico evento significativo che gli pareva di poter registrare era che, tra gli alberi lungo le mura, una leggera brezza soffiava delicata, producendo un delizioso fruscio.

E che, nonostante quell’idilliaca quiete, continuava ad osservare le ombre scure che i rami proiettavano sul terreno e sui muri con vago malessere. Non c’era nessun valido motivo, eppure, l’ombra…

 

 

Pomeriggio, 17:00

 

“Abbiamo finito, no?” biascicò Shisui sistemandosi i capelli raccolti, distrattamente.

Inabi lanciò un’ultima occhiata intorno, tentennando un assenso. Shisui sospirò sollevato e indietreggiò di un passo, sorridendo.

“Ci vediamo in giro,” affermò sollevando la mano, prima di girare i tacchi.

Si cacciò le mani in tasca, svogliato, osservando distratto le punte dei propri piedi che si alternavano avanti, mentre camminava. Aveva un sandalo più allentato dell’altro e un’unghia sporca di terra. Ma non aveva più impegni, perciò avrebbe potuto concedersi un bel bagno rilassante. Sorrise soddisfatto, pregustando il felice momento, proprio un secondo prima che un braccio comparso alla sue spalle circondasse con decisione il suo collo. S’irrigidì, per poi ridacchiare debolmente.

“D’accordo,” mugolò, arreso. “Mi hai beccato, ero sulle nuvole.”

La stretta si allentò e poi lo lasciò del tutto mentre il volto di Itachi, inespressivo, entrava nel suo campo visivo.

“L’ho notato,” commentò questi, distaccato.

Shisui si passò la mano tra i capelli, con un sorriso vagamente vergognoso.

“Un poliziotto all’erta, mh?” sogghignò divertito. “Ho finito il turno, tu hai da fare?”

Itachi lanciò uno sguardo impenetrabile lungo la via, muto.

“Sì. Sas’ke,” spiegò poi, criptico. “Possiamo vederci dopo cena,” ipotizzò, dopo un altro breve silenzio.

Shisui storse il naso, scettico.

“Non credo che mio padre sarebbe contento se me ne andassi in giro anche stasera,” osservò logico.

Itachi continuò a fissare la strada quasi in tralice, prima di spostare finalmente gli occhi su di lui con quella che gli parve remota riluttanza.

“Potrebbe non venirlo a sapere,” suggerì, lentamente.

Shisui socchiuse le labbra, preso in contropiede, ed accennò un sogghigno.

“Giusto. Se me lo chiede gli dirò…gli dirò che devo sostituire qualcun altro di ronda,” imbastì, sornione.

“Chi?” domandò Itachi, atono.

Shisui scrollò le spalle.

“Gli dirò che non l’ho chiesto.”

Itachi rifletté per qualche secondo, immobile, poi lo fissò ancora intensamente. Shisui ricambiò lo sguardo con leggera interrogazione negli occhi, sul punto di chiedergli che avesse per la testa, ma l’altro accennò un vaghissimo sorriso fittizio, annuendo.

“Alle otto e mezza?” propose.

Shisui annuì.

“Al fiume,” precisò, come se ce ne fosse stato bisogno.

 

 

Sera, 21:37

 

Shisui sbuffò nuovamente, irritato: si erano detti che si sarebbero visti alle otto e mezza e di Itachi non c’era ancora traccia; se non fosse arrivato entro altri dieci minuti se ne sarebbe tornato a casa.

Tirò forte un sassolino nell’acqua frusciante, piegando il gomito per dare al lancio la giusta angolatura di modo da far rimbalzare la pietra. Quella saltò due volte e poi si perse tra l’erba buia, sulla riva opposta.

Shisui, seduto sul bordo del fiume, sollevò la testa a guardare la luna nel cielo. Entro qualche notte sarebbe stata perfettamente piena, ma mancava ancora un ultimo spicchio per avere un cerchio perfetto. Fu in quel momento che giunse alle sue orecchie un tramestio di passi e di rami smossi, poi la sagoma di Itachi sgusciò fuori dal sottobosco, arrestandosi sul limitare della stretta spiaggia sassosa. Con quel buio Shisui non poteva distinguerlo bene ma gli parve che, nel vederlo, Itachi storcesse il viso in una sorta di smorfia.

“Alla buon’ora!” esclamò spazientito. “Perché ci hai messo tanto?” aggiunse con accusa, muovendo il piede che ciondolava a pelo d’acqua. Guardò alcune minuscole onde formatesi per lo spostamento d’aria, tornando a dargli le spalle. Poi lo sentì inspirare rumorosamente.

“Suppongo,” iniziò Itachi con voce bassa e lenta, dolente, “che una parte di me sperasse di non trovarti più qui, che te ne fossi già andato.”

Shisui sgranò leggermente gli occhi, sorpreso. Non lo capiva, era sempre più strano.

“Per quale demenziale ragione, scusami? Eravamo d’accordo che…” protestò esterrefatto.

“Mi dispiace.” La voce di Itachi si sovrappose alla sua, suonando fremente e quasi gutturale. “Non sai quanto mi dispiace. Ma non ho scelta, capisci?” domandò febbrilmente, mentre Shisui si voltava di nuovo a guardarlo sempre più confuso. “Se ci fosse qualcosa…qualunque altra cosa… Io non posso permettere che succeda. Di nuovo infiniti massacri, e fiamme e urla, per chissà quanto tempo. Devo pensare a lui. Mi capisci non è vero, Shisui?” ripeté, e il tono sofferto e quasi folle si fece carezzevole e affezionato come non era mai stato, nel pronunciare il suo nome.

D-di cosa stiamo parlando, Itachi?”

“Mi dispiace, Shisui. È come se morissi anche io. È esattamente la stessa cosa,” continuò Itachi, cupo e tormentato. “Perdonami. So che non il diritto di chiederlo, ma perdonami se puoi.”

Shisui sgranò gli occhi e si mosse con un momento di ritardo: Itachi era più rapido e più pronto di lui. Ebbe appena il tempo di vedere il corpo del cugino scomparire da dove si trovava e non servì a niente cercare di schivare il colpo, neanche attivando istintivamente lo sharingan: Itachi era troppo veloce. Gli fu addosso all’istante, scaraventandolo a terra. La testa di Shisui cozzò forte contro un sasso, stordendolo, un lamento di dolore gli sfuggì dalle labbra e soffocò in un gorgoglio disperato quando la mano di Itachi, con violenza, si strinse dietro il suo collo e con uno strattone poderoso gli cacciò la testa nel fiume.

Shisui annaspò e ingoiò acqua, tossendo spasmodicamente. Si dibatté, scalciando alla cieca mentre il cuore quasi gli scoppiava per il terrore. Singhiozzò sommerso e bevve ancora, strozzandosi. Con una forza che nemmeno sapeva di avere, puro istinto di sopravvivenza, si divincolò colpendo con le braccia un obiettivo che non riusciva più a vedere, senza preoccuparsi né di taijutsu né di ninjutsu ma soltanto cercando di liberarsi.

La presa di Itachi si allentò per un istante e Shisui riemerse con uno scatto brutale, il suo torace si squassò per la tosse e il ragazzo vomitò acqua con conati rumorosi. Tremava di panico e incredulità e aveva la vista appannata, un terrore gelido in ogni nervo. Gemette rauco cercando di arretrare, intravide la sagoma del cugino sovrastarlo di nuovo e scalciò, incespicando nello strisciare indietro.

Ita…” gorgogliò atterrito. Non ebbe tempo di dire altro, Itachi gli fu ancora addosso e lo afferrò per i capelli, mormorando qualcosa che lui non comprese oltre il velo della paura e della vista ottenebrata. Reagì d’impulso e sfilò il kunai dal guaino con tutta la velocità che gli riuscì d’usare, ma le dita di suo cugino si strinsero sul suo polso strappandogli un nuovo lamento, piegarono il suo braccio indietro e lo spinsero di nuovo verso l’acqua. Shisui oppose tutta la resistenza possibile, piegò un ginocchio per colpire il fianco di Itachi e lo prese di striscio, sbilanciandolo leggermente. Fece per scattare lontano, verso gli alberi, ma Itachi lo bloccò gettandosi su di lui di peso.

“Non rendermi…le cose ancora…più difficili,” stridette con voce spezzata dallo sforzo, assurdamente supplice.

Shisui gemette roco, dibattendosi.

“P…perch…?” esalò intontito. Poi tentò di lanciare un Katon, ma aveva ingoiato troppa acqua ed era fradicio, spaventato. Ruggì frustrato, quindi un colpo violento alla testa gli oscurò la vista e si sentì trascinare inesorabilmente verso la riva. Urlò, sapendo finalmente di stare per morire, ma la voce non gli sgorgò dalla gola serrata. Lanciò un ultimo calcio senza nemmeno accorgersene, tanto inatteso che colpì il cugino. Itachi si piegò in due ma non si fermò per un solo istante e lui avvertì il dolore del suo gomito che gli si abbatteva in mezzo alla schiena, percepì il gusto ferrigno del sangue sulla lingua e si afflosciò stremato in avanti, mentre Itachi da qualche parte emetteva un singhiozzo come un grido di sofferenza, lo stesso grido che non riusciva a sgorgare dalla gola di Shisui.

“Perché posso sceglierne uno solo,” lo avvolse il mormorio atroce e straziato del cugino, un attimo prima che l’acqua lo circondasse.

Trattenne il fiato, si divincolò, serrò le labbra cercando di tirare su la testa ma era tutto inutile: Itachi era troppo forte. Quando ogni riserva d’ossigeno fu esaurita senza che la morsa su di lui si fosse allentata – la mano stretta sulla sua nuca tremava tanto che lo sentiva persino lui – le sue labbra si spalancarono e l’acqua lo invase, implacabile. Pianse lacrime che si persero nel fiume intorno ad esse nel momento in cui i suoi polmoni cedevano.

 

 

All’ultimo, mentre il nero lo ingoiava, Shisui capì.

L’ombra aveva sopraffatto Itachi.

 

 

 

 

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Ahm. Eccoci qua, al termine di momenti di scoppiettante allegria.

Sono soddisfatta di questa storia, lo dico senza false modestie. Naturalmente avrebbe potuto essere molto migliore, ma anche così non mi sembra male. Lo dico perché mi piacerebbe molto avere la vostra opinione: so che non siete minimamente tenuti a darmela, ma se aveste due minuti da sprecare ve ne sarei davvero riconoscente.

Che altro… Beh, si dice che il primo omicidio sia il più difficile di tutti. Ho voluto attenermi a questa massima, che peraltro non intendo verificare.

Probabilmente la ricostruzione non ha molto senso. Me ne scuso.

Hasta.

suni

 

 

 

   
 
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