Penso
che la storia della formula “dead man walking”,
appunto “uomo morto in marcia”, sia nota più o meno a tutti,
ma per sicurezza la ripetiamo: è la frase che viene pronunciata nel
momento in cui i condannati a morte iniziano a percorrere il corridoio che li
porta alla sala dell’esecuzione, in quel grande e democratico paese che
sono gli USA. Ho voluto appropriarmi di questa macabra espressione ed usarla
come titolo perché questo personaggio è già condannato,
come se fosse ormai morto. Solo che lui non lo sa.
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“Ti
vuoi alzare da quel letto? E’ una vergogna che un jonin come
te…”
“Sì,
mamma,” mugugnò lui con un sospiro, schiacciando poi il viso
contro la federa del cuscino e voltandolo infine di lato. “Soltanto un
minuto, va bene?” proseguì supplice, soffiando aria dal naso per
scacciare una lunga ciocca di capelli che gli solleticavano il mento e le
labbra.
“Un
minuto un corno!” protestò lei a voce alta, tanto da fargli
socchiudere automaticamente gli occhi: eccola lì, sagoma scura stagliata
nel rettangolo luminoso della porta, con le mani puntate minacciosamente sui
fianchi. Maledizione, le madri.
Tempo
un nanosecondo, o almeno così parve al ragazzo, ed eccola marciare con
un passo che pareva più adatto a un ANBU di ottanta chili che ad una
donna esile e aggraziata come lei, fino a raggiungere la sua finestra e
spalancare le tende scure con un gesto deciso e forse un po’ sadico. La
luce del primo mattino penetrò violenta e improvvisa, inondando la
stanza di un biancore abbagliante.
“Mammaaa!” protestò il ragazzo con veemenza,
voltandosi in fretta verso la parete e tirandosi le coperte fin sopra la testa.
“Vedi
di muoverti, signorino. Tuo cugino è già in piedi da più
di un’ora, è già andato al quartier generale e ritornato e
tu sei qui che russi!” continuò la madre senza battere ciglio,
severa.
E
ti pareva, si disse. Ma viveva senza dormire, quello? Sembrava sempre di
più una macchina. Perché doveva andare al quartier generale
all’alba anche quando aveva un giorno libero?
“Mio
cugino è fuori di testa,” brontolò sonnolento.
“Magari
se gli somigliassi un po’ di più…” sibilò lei
con eloquenza, prima di avviarsi spedita alla porta. “Se non ti trovo in
cucina entro cinque minuti do fuoco al tuo letto,” lo avvertì
secca, prima che i suoi passi si allontanassero definitivamente.
Lui
sbuffò sonoramente, mettendosi supino. Ormai era perfettamente sveglio,
sebbene ancora intorpidito, ed era conscio che la minaccia non era fatta per
cadere nel vuoto: sua madre sapeva essere di una crudeltà agghiacciante.
Niente a che vedere con la zia, che non perdeva mai la calma ed era sempre
tranquilla e sorridente. Le bastava fare una smorfia indignata e alzare di un
filo la voce e gli uomini di casa rigavano dritto, perché era
semplicemente irresistibile. Quella sì che era una mamma: certe volte si
domandava se fossero davvero sorelle.
Si
rizzò a sedere, sbuffando di nuovo e sfregandosi gli occhi coi pugni
chiusi. Rimase immobile per qualche secondo, intontito, e meditò su
quanto sarebbe stato bello poter entrare in coma per tutta la giornata ed
evitarsi il fastidio di esistere. Il suo orologio segnava le otto, quindi aveva
dormito esattamente cinque ore.
“Che
fregatura,” borbottò, risolvendosi infine ad uscire dal letto.
Infilò i piedi nelle pantofole, agguantò l’elastico sul
comodino iniziando a legarsi i capelli e contemporaneamente caracollò
rassegnato verso il piano di sotto.
Uomo morto in marcia
(l’ultimo giorno)
Mattino, 08:OO
Se
avesse potuto anche solo lontanamente immaginare che entro dodici ore sarebbe
stato defunto non si sarebbe alzato per davvero, quel giorno. Non avrebbe mosso
un passo, sarebbe rimasto rannicchiato sotto le coperte ad aspettare che
passasse, che l’incubo non avesse luogo. Avrebbe atteso che il mondo non
si capovolgesse e che la tragedia non cominciasse, portandosi via lui per
primo.
Ma
non poteva sapere.
Così
si presentò in cucina con gli occhi pesti e la coda nera arruffata,
incappando in suo padre che, vestito di tutto punto e perfettamente operativo,
gli lanciò un’occhiata quasi compassionevole.
“Festeggiato
fino a tardi?” domandò il genitore, saputo.
“Quattordici
anni si compiono una volta sola,” borbottò lui, abbandonandosi
sulla prima sedia a disposizione. Sua madre ciabattò nella stanza in
quel momento, le braccia cariche di panni da piegare.
“Non
è una buona ragione per rientrare a notte fonda,” osservò
tagliente, indicando col capo la teiera fumante. “Dove sei stato?”
“Uffa,
dove vuoi che fossi,” biascicò lui colpevole, pur senza sentirsi
tale. Si alzò per riempire una tazza, prendendo fiato. “Siamo
rimasti lungo il fiume a chiacchierare e mangiare dolci di riso,”
aggiunse mite, agguantando una galletta.
“Eri
con tuo cugino?” domandò suo padre, aggrottando la fronte.
Lui
annuì pacato ed entrambi i volti dei genitori si rischiararono.
Tornò a sedersi con uno sospiro paziente. Bastava nominarlo ed ecco che
tutto andava bene. Si domandava per quale ragione, dal momento che quello ultimamente si comportava come un
completo psicopatico. Non che fosse mai stato del tutto a posto con la testa,
ma era anche per questo che gli voleva bene.
“Da
un po’ di tempo lo trovo strano. Forse è un po’
stanco,” iniziò, sorseggiando il tè. “Voglio dire,
tra noi e gli ANBU è un bel po’ sotto pressione, no?”
azzardò, vago.
Suo
padre si accigliò solenne.
“Tuo
cugino non è uno shinobi comune,” gli ricordò, compreso.
Lui
annuì inespressivo, sgranocchiando la galletta. Nel farlo gettò
gli occhi sull’orologio a muro e constatò ancora che, essendo le
otto passate, non doveva mancare molto perché il marmocchio si
manifestasse. Ed ebbe appena il tempo di formulare quel pensiero prima che una vocetta urlante dalla strada confermasse l’esattezza
della sua tesi.
“NII-SAAAN!”
Sbatté
la tazza sul tavolo, sospirando esasperato. Il richiamo acuto si ripeté
una seconda volta e lui si alzò di scatto, marciando pesantemente verso
la porta.
“Shi…” tento di richiamarlo sua madre, del tutto
ignorata. Lui oltrepassò l’anticamera, spalancò
l’uscio e individuò il moccioso a una dozzina di metri. Lì
piantato in mezzo alla strada, con la sua facciotta
rotonda e gli occhioni e il suo pigiama con… Ma
erano orsetti, quelli?
Oh.
Molto carino…
“Senti
un po’, pidocchio!” esclamò sprezzante, levando il mento
all’aria. “Tuo fratello ha il diritto di fare tre passi senza
averti alle calcagna, sai? Smettila di essere assillante,” intimò con
fare superiore.
Il
bambino sgranò gli occhi e fece un broncio corrucciato, stizzito.
“Io
non sono asli…alli…”
iniziò risentito, perdendosi a metà frase.
“Assillante,”
ripeté lui, con aperto scherno. “Non sai nemmeno cosa vuol dire,
microbo,” aggiunse condiscendente.
“Sì
che lo so!” protestò il cuginetto indignato, serrando le manine a
pugno.
“Ah
sì?” commentò il più grande, canzonatorio. “E
cosa vuol dire?”
Il
bambino aprì la bocca e rimase in silenzio, con espressione confusa. A
lui parve di vedere il fumo che gli usciva dalle orecchie, tanto intensamente
rifletteva, e per la concentrazione gli si erano incrociati leggermente gli
occhi. Poi sollevò la testa con tutta la fierezza dei suoi otto anni e
si produsse in una boccaccia, corrugando il viso e facendogli una linguaccia.
Lui
scoppiò a ridere di gusto, preso alla sprovvista. Bisognava ammetterlo,
la briciola sapeva essere adorabile e faceva spanciare dalle risate. Non aveva
mai visto un bambino naturalmente gattamorta come il suo cuginetto, poco ma
sicuro.
“Penso
che dovresti andare a vestirti, Sas’ke,” asserì in quel
momento qualcuno alla sua destra. Lui non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi:
primo perché conosceva quella voce meglio di qualunque altra, secondo
perché la faccia di Sasuke si era illuminata di una luce estatica e
adorante che poteva indicare una sola cosa.
“Buongiorno,
Itachi,” salutò quindi, distrattamente.
Sasuke
si lanciò in avanti trotterellando, arrivò a due centimetri dalla
gamba del fratello e torse la testa indietro per guardarlo in faccia, con un
sorriso quasi offeso.
“Dov’eri?”
cinguettò contrito.
“Shisui,” salutò brevemente Itachi, prima di
chinare lo sguardo. “Vai a vestirti, Sas’ke,” ripeté
bonario.
Il
cugino lo guardò, corrugando la fronte. Doveva essere a sua volta molto
stanco, visto che praticamente non aveva dormito, ma qualcosa nei lineamenti
tirati di Itachi e nella rigidità innaturale del suo viso,
particolarmente pallido, indicava una tensione che non aveva nulla a che fare
con la spossatezza fisica.
“Vieni
con me?” supplicò Sasuke, strattonando i pantaloni del maggiore
con un broncio accattivante.
“Ma
non sei capace a…?” iniziò Shisui
spazientito. Itachi lo interruppe levando lentamente una mano, quindi
spettinò i capelli del bambino con un gesto dispettoso.
“Vai
da solo,” rispose definitivo.
“Nii-san!” si lagnò Sasuke bizzoso.
L’espressione del fratello rimase però benevolmente ferma e lui si
corrucciò ulteriormente, sbuffò deluso e girò i tacchi,
sgambettando mogio verso casa.
“Dovresti
prenderlo a cazzotti, ogni tanto,” suggerì Shisui
con l’aria di chi la sa lunga. “Ti senti bene?” aggiunse,
lanciandogli una nuova occhiata indagante.
Itachi
spostò gli occhi su di lui, senza espressione.
“Sì,”
affermò meccanicamente. “Sì, ho solo un po’
sonno,” ripeté più fermo.
“Perché
mai ti sei alzato così presto per andare al quartier generale?” lo
apostrofò lui perplesso. “Non avevi un giorno libero?”
continuò, scuotendo pazientemente la testa.
Itachi
fissò lo sguardo assente sulla strada, rimanendo immobile. Shisui stava per chiedergli se fosse proprio sicuro di
sentirsi bene, perché non ne aveva assolutamente l’aria, quando
l’altro finalmente parlò.
“Volevo
essere sicuro che non ci fosse bisogno di me,” affermò senza
intonazione. Prese un lungo respiro, serrando le palpebre con un moto che
sembrò quasi disperato, solo per un secondo, tanto che Shisui pensò di esserselo immaginato.
“Uchiha
Itachi, il pilastro di Konoha,” ghignò divertito.
“Come
no,” replicò il cugino, ancora ugualmente immerso nella sua cupa
tralice. Lui pensò di fargli notare che non era morto nessuno e che
poteva anche provare a fare, per dire, un sorriso, ma ricordando quando il suo
migliore amico si fosse mostrato ombroso e tetro nell’ultimo periodo
preferì soprassedere. Qualunque fosse la cosa che lo tormentava, Itachi
presto o tardi gliel’avrebbe detta spontaneamente: funzionava sempre
così, tra loro. Erano reciprocamente a conoscenza di ogni piccolo
segreto, di ogni più inconfessabile debolezza.
Itachi
sapeva che Shisui aveva avuto paura del buio fino a
ben otto anni, che ogni tanto si metteva ancora le dita nel naso, che gli
piaceva la sua compagna di team, Hanako, e che voleva
partire da Konoha, un giorno, fare un lungo viaggio attraverso le altre nazioni
maggiori e tornare dopo tre o quattro anni per diventare magari consigliere
dell’Hokage, lasciando la polizia. Shisui
sapeva che Itachi aveva un debole per i dolci, come sua madre, soprattutto per la
marmellata di frutti di bosco, che era cotto – e segretamente ricambiato –
di Naeko Uchiha, che aveva un cura ossessiva dei
propri capelli e che il suo più grande timore era che succedesse
qualcosa – qualunque cosa – di brutto a suo fratello, che si
ferisse o perdesse la vita. Nessun altro sapeva quelle cose di loro due. Nessuno.
Quindi,
ne aveva concluso, Itachi prima o poi gli avrebbe parlato della cosa che da
qualche settimana aveva cancellato ogni traccia del suo sorriso, tranne per qualche
rara eccezione nei momenti che trascorreva col fratellino. Non c’era
motivo di spronarlo o di insistere perché parlasse: al momento giusto
l’avrebbe fatto di propria iniziativa.
“Impegni
per la giornata?” chiese distrattamente, reprimendo uno sbadiglio.
Itachi
chinò lo sguardo, le sue labbra si piegarono leggermente verso il basso.
“Devo…fare
una cosa,” mormorò senza intonazione, assente.
Shisui
aggrottò la fronte nuovamente, esasperato. Cosa diamine stava succedendo
a suo cugino? Non gli sembrava credibile che tutte quelle stranezze e quel fare
elusivo dipendessero soltanto dallo stress o dalla stanchezza. Itachi non era
un pivello, era ANBU all’età di tredici anni: qualcosa che da più
d’una generazione era riuscita soltanto a Kakashi Hatake, il compagno di
team del povero cugino Obito.
“Sì,
beh, io sono in squadra nel pomeriggio,” ribatté sbrigativo.
“Potremmo passare la mattinata, sai, a fare qualcosa noi d…”
“Sì,”
lo interruppe Itachi senza che potesse finire la frase, quasi con urgenza.
Shisui
gli lanciò un’occhiata ironica, di vago sfottò.
“Ti
manco a tal punto?” scherzò. “Sto per commuovermi,”
aggiunse ridacchiando, mentre sistemava la lunga coda dietro la schiena.
Itachi
accennò una specie di smorfia che forse era un sorriso mal riuscito.
“Sono
soltanto…sai, non ho mai tempo libero,” sospirò senza
convinzione.
Shisui
storse il naso. Non era esattamente persuaso dell’esattezza di quella
versione dei fatti.
“Beh,
ogni tanto ne avresti,” commentò sbuffando. “Ma Sas’ke
è una maledetta palla al piede.”
Calcò
quelle parole con convinzione, sventolando la mano quasi infastidito.
Non
era che non gli piacesse il cuginetto. Era un bimbo strepitoso, per la maggior
parte del tempo, acuto e con un signor caratterino che faceva ridere da matti.
Ma poi vedeva Itachi e diventava una specie di lagna capricciosa e invadente.
Un tormento.
“Non
è una palla al piede,” lo contraddisse immediatamente il cugino,
con leggera enfasi. “Non potrebbe mai,” mormorò ancora,
voltandosi a guardare verso la porta di casa, oltre la quale il bambino
s’era infilato poco prima. “A proposito, comunque…sospetto
che dovresti vestirti anche tu, Shisui.”
C’era
una vaga canzonatura nella sua voce e Shisui
portò immediatamente lo sguardo sul proprio torace: nella fretta di
uscire a rimproverare Sasuke s’era completamente dimenticato di essere
ancora vestito per la notte, con pantaloni di tela blu e una larga maglia
bianca.
Beh,
se non altro non c’era traccia di disegni di orsetti.
Ridacchiò
imbarazzato.
“Ricevuto.
Ci vediamo tra una mezz’ora, diciamo, al monumento?” propose,
stringendosi nelle braccia come per un freddo improvviso. “Anzi, al posto
sul fiume,” si corresse, facendo un passo indietro verso l’uscio di
casa.
“Che
strano, non ti si vede mai da quelle parti,” osservò Itachi
sarcastico, senza perdere la compostezza. “A dopo,” concluse
telegrafico, voltandogli le spalle e allontanandosi con passo fermo.
Shisui
lo guardò di spalle per un paio di secondi, poi girò sui tacchi e
fece per entrare in casa. All’ultimo si voltò di nuovo indietro ad
osservare il cugino: la coda nera di capelli lisci e lucidi, le spalle
più strette e sinuose della media familiare, il capo eretto e le gambe
scattanti. Lo osservò ancora e sussultò vedendo, per uno strano
effetto di luce del sole ancora basso, l’ombra del cugino lunga e spessa
sul terreno, che sembrava tanto più grande di Itachi da essere sul punto
di sopraffarlo. Era una sensazione del tutto irrazionale e ridicola, ma per un
singolo secondo Shisui non poté evitarsi di
rabbrividire involontariamente. Poi scrollò la testa, si ripromise di
non dormire mai più per meno di sette ore, viste le conseguenze
devastanti sul suo raziocinio, e rientrò in casa per finire la sua
colazione.
Mattino, 09:30
“Pensi
che sospettino qualcosa?”
La
domanda di Shisui fu seguita da un lungo silenzio.
Itachi continuava a osservare pigramente il cielo con aria assorta, sdraiato
sull’erba accanto a lui. Soltanto dopo parecchi secondi si voltò a
guardarlo, indifferente.
“Chi
e cosa? Non ho elementi sufficienti per risponderti,” ribatté
distrattamente.
Shisui
non poté evitare di notare, di nuovo, che suo cugino sembrava
completamente perso in un suo strano mondo oscuro, in quel periodo.
Sbuffò pazientemente, portando lo sguardo tra le poche nuvole candide
che decoravano il cielo azzurro, pulito e luminoso.
“Lo
sai,” rispose, abbassando la voce. “L’Hokage e i suoi. Pensi sospettino
qualcosa?”
Itachi
serrò le labbra, portando lo sguardo sull’erba accanto a
sé. Strappò inconsciamente un paio di steli ed espirò
forte.
“No.
Credo di no,” affermò grave.
Shisui
annuì e nessuno dei due parlò più per qualche lungo
minuto. Poi ridacchiò svagato quando una graziosa nuvoletta si compose
in una forma che ricordava uno shuriken e la
indicò al cugino, che si riscosse con leggero sussulto e sorrise senza
entusiasmo. A quel punto lui sbuffò, stufo.
“A
che pensi, Itachi?” chiese, cercando di sembrare disinteressato.
Silenzio,
ancora. Quando osò voltare lo sguardo, aspettando di trovare di nuovo
l’ANBU immerso nella contemplazione del nulla, lo scoprì invece
serio e girato a sua volta verso di lui.
“Tu
credi che sia giusto, Shisui?” domandò Itachi
a voce bassa, fissandolo intensamente. “Quello che il clan sta facendo,
intendo,” precisò, laconico e controllato.
Lui
sbatté le palpebre, sbalordito da quella domanda inattesa. Si
grattò il naso, prendendo tempo, poi spalancò leggermente gli
occhi con incertezza. Se l’era posto più d’una volta anche
lui, quel quesito, e non era mai riuscito a rispondersi precisamente.
“Beh,”
borbottò esitando. “Immagino che…voglio dire, tuo padre e
gli altri hanno ragione. Il nostro clan è stato penalizzato troppo a lungo
e la situazione non promette di evolvere,” spiegò, prendendo a
giocherellare senza rendersene conto con la punta di una ciocca di capelli, che
sventolò leggermente sul mento. “Quindi, forse non
c’è scelta,” concluse con più sicurezza.
“E
per quanto riguarda le possibile conseguenze..?” continuò Itachi
in un piatto mormorio, mentre il suo sguardo si perdeva di nuovo vacuo
nell’immensità del cielo.
Shisui
si rabbuiò, espirando rumorosamente. Questa era un’altra cosa su
cui gli era capitato di interrogarsi, anche se per lo più tendeva ad
evitarlo. Le conseguenze erano qualcosa che si sarebbe affrontato in seguito, a
cui non voleva realmente pensare. Ma naturalmente si rendeva conto che potevano
essere drammatiche.
Sbuffò,
con un movimento nervoso e involontario della mano.
“Senti,”
esclamò di slancio, “ovviamente non si può essere sicuri
che siano le decisioni giuste in assoluto. Forse il paese precipiterà
nel caos. Però, ehi, questo è il mio clan e io lo sostengo in ogni
campo. Credo nella nostra forza, penso che possiamo riuscire e che valga la
pena di investirsi per il bene collettivo degli Uchiha,” affermò
accorato. “E’ una questione di priorità,”
terminò compreso.
Itachi
aggrottò la fronte con aria concentrata, prima di annuire lentamente.
“Priorità…”
ripeté meditabondo, prima di guardarlo di nuovo, con un sorriso che gli
parve più una smorfia di dolore. “Sì, immagino sia
così. Priorità,” ribadì, deciso.
Shisui
lo scrutò attentamente, ma la sua espressione era assolutamente
impenetrabile. Si raddrizzò leggermente sul gomito, senza smettere di
fissarlo.
“Perché
queste domande? Dubiti?” lo interrogò, sospettoso.
Itachi
scosse appena la testa, senza altre reazioni.
“Mi
capita di pormi interrogativi su quale sia…il mio ruolo,” annunciò
inespressivo, come se la questione fosse del tutto insignificante. Shisui sorrise bonario, scrollando le spalle.
“Beh,
cugino,” esclamò, quasi divertito. “Ovviamente il tuo ruolo
è di primo piano. Il tuo sharingan e le tue capacità sono
superiori…”
“E
quelle di Sas’ke,” precisò prontamente Itachi, riflessivo.
Shisui
annuì noncurante, piegando la testa.
“Forse,
chissà. È presto per dirlo, è soltanto un moccioso,”
replicò scettico.
Itachi
aggrottò la fronte, annuendo nuovamente.
“Già,
esattamente. Qual è il suo
ruolo in una guerra civile? Non sa difendersi. Non...” iniziò,
quasi severamente.
“Ma
piantala!” sbottò Shisui sbuffando,
mentre lasciava ricadere la testa sul prato. “Non puoi passare la vita
basandoti su di lui. Non puoi sempre star lì a vegliarlo,” commentò,
noncurante.
“Ma
sono il suo fratello maggiore,” mormorò Itachi, talmente piano che
lui faticò a sentirlo. “Non importa,” aggiunse poi,
riscuotendosi d’improvviso. “Anzi, non ne dovevamo nemmeno parlare,
non è prudente. Colpa mia,” concluse, definitivo.
Shisui
fece un cenno vago, atto ad indicare che non era nulla di grave.
“Fa
nulla. Chi vuoi che sappia che siamo qui?” rispose con leggerezza.
“Nessuno,
a parte tutti quelli che ti conoscono. Ci vieni spesso, Shisui,”
replicò Itachi, leggermente ironico.
Lui
sbuffò condiscendente, stiracchiandosi.
“Beh,
chiamami scemo,” replicò con un sogghigno, muovendo il braccio ad
indicare, intorno a sé, i rami degli alberi della boscaglia indietro
oltre le loro teste, lo spicchio di prato verdissimo su cui erano sdraiati e più
in giù la sottile spiaggia chiara, sassosa, e il ruscello luccicante che
mormorava melodioso, riflettendo i bagliori del sole. Sorrise con infinita
soddisfazione e con quell’espressione intimamente appagata di chi si accontenta
con poco, tirandosela leggermente.
“Buffone,”
commentò Itachi con un sorriso indulgente.
Shisui
ridacchiò lezioso, stringendosi nelle spalle.
“Allora,”
chiese poi, rizzandosi a sedere con uno slancio d’energia, “che
facciamo di bello?”
Mattino, 11:00
Il
sole cominciava a picchiare con una certa insistenza, immergendo Konoha in un
chiarore diffuso. Dall’alto, il villaggio sembrava percorso da
un’attività mediamente rilassata, accelerata unicamente dallo
sporadico passaggio di squadre di shinobi che andavano e venivano dal centro
operativo, il palazzo dell’Hokage. Più distante, il quartiere
degli Uchiha spiccava per gli stemmi ben visibili anche da lassù, in
cima alla gigantesca testa scolpita del Primo. Lì, sulla roccia nuda e
spoglia, scevra della presenza di piante ed arbusti di sorta, veniva a mancare
anche la brezza benefica che spirava tra i rami degli alberi circostanti il
villaggio, invadendolo fresca.
Shisui
si passò la mano lungo l’attaccatura dei capelli, tergendosi il
sudore, mentre riportava pigramente lo sguardo alla scacchiera aggrottando poi
la fronte con rinnovata attenzione.
In
quel momento Itachi, imperscrutabile e flemmatico, allungò la mano ad
afferrare un cavallo nero e lo spostò senza fretta, scalzando via un
alfiere bianco che si coricò con un leggero tintinnio. Shisui sgranò gli occhi, preso alla sprovvista.
“Maledizione!”
esclamò stizzito. “Non l’avevo assolutamente visto.”
Itachi
sorrise impercettibilmente, ironico.
“L’ho
notato,” commentò pacato.
Shisui
sbuffò rumorosamente, poggiando il mento sul dorso della mano.
Gettò un’occhiata d’insieme al piano da gioco, storcendo il
naso: non stava messo molto bene. Aveva perso tre pedine, un cavallo, una torre
e tutti e due gli alfieri. Itachi aveva soltanto più una pedina, ma
l’unica altra figura che ci aveva rimesso era un singolo cavallo.
Ci
voleva un buono schema per ribaltare la situazione, altrimenti l’avrebbe
fregato.
Studiò
attentamente le posizioni dei neri: il re era ben protetto e sarebbe stato
difficile ottenerlo, ma la regina era slittata in avanti e giocandosi bene le
mosse successive, sfruttando in modo intelligente il suo ultimo cavallo, Shisui poteva riuscire a mangiarla. Suo padre gli aveva
insegnato lo schema che faceva per lui.
“Bene,”
esclamò, spostando avanti una pedina di slancio.
Itachi
sollevò appena lo sguardo su di lui, penetrante. Annuì
pensosamente tra sé, prendendo fiato, e stirò indietro la schiena
con indolenza, piegando poi il collo di lato come per stendere i muscoli. Shisui lo osservò in silenzio: impossibile capire
dal suo viso o da qualunque suo gesto cosa stesse architettando per i movimenti
successivi, né se avesse già un’idea precisa.
La
sua mossa successiva lo spiazzò: Itachi ignorò completamente la
sua pedina e spostò un alfiere, aprendo un’apertura sul re nero. Shisui esaminò la nuova situazione per cercare di
capire l’utilità di quel gesto, ma gli parve non ne avesse una.
Non sarebbe servito né a minacciare il suo cavallo al primo spostamento
né a portarsi verso le sue teste coronate.
Forse
era un diversivo per prendere tempo.
“Questa
non l’ho capita,” borbottò assorto.
“E
quando mai,” sospirò Itachi condiscendente. Lui gli fece una
boccaccia e lanciò una pedina nera dal suo mucchietto sulla testa del
cugino.
“Pallone
gonfiato,” esclamò petulante. “Sei talmente pieno di te che
tra un po’ esplodi.”
Itachi
ridacchiò, per la prima volta della mattinata. Scosse il capo con
noncuranza, sbuffando pazientemente.
“L’invidia
è una brutta bestia,” osservò quieto, quasi dolente.
Shisui
rise rumorosamente, maligno.
“Invidioso
di te? Starai scherzando! Non sono mica quel cretino di tuo fratello,”
ribatté altero.
“Sas’ke
non è invidioso,” lo contraddisse Itachi meccanicamente.
“E’ una cosa diversa.” Sbuffò disinteressato.
“Tu sei figlio unico, Shisui. Lascia
perdere.”
Lui
roteò gli occhi esasperato, portando il cavallo in avanti come
prestabilito.
“D’accordo,”
concesse maestoso. “Il cugino Inabi, allora.
Lui è invidioso come un cane morto. E se vuoi saperlo penso
c’entri col fatto che piaci alle ragazze, anche a quelle più
grandi.” E ridacchiò, scuotendo la testa. “A me sai quanto
frega. Finché Hanako non…”
S’interruppe
bruscamente vedendo il cugino, sempre impassibile, spostare ancora avanti
l’alfiere ignorando di nuovo le sue mosse. Inclinò la testa,
sempre più perplesso.
“Stavi
dicendo?” lo apostrofò Itachi solerte, come non notando la sua
sorpresa.
Shisui
si grattò il mento, scrutando febbrilmente la scacchiera. Sbuffò
rumorosamente e sventolò una mano. Di quel passo si sarebbe mangiato la
regina, perché Itachi non faceva niente?
Sbuffò
tra sé, tornando a osservare l’amico.
“A
proposito di ragazze,” iniziò malizioso. “Ho incontrato una
certa Naeko Uchiha ieri pomeriggio, mi ero
dimenticato di dirtelo.”
Sorrise
soddisfatto nel vedere la mano di Itachi bloccarsi a mezz’aria, mentre il
suo sguardo apatico rimaneva fisso sulla scacchiera.
“Beh?
Spero tu non intenda cominciare a dirmi di ogni volta che incontri una nostra
parente,” osservò l’ANBU laconico.
Shisui
ridacchiò perfidamente.
“Molto
convincente, se non fosse per quel rossore che…”
“Io
non sono arrossito,” protestò fermamente Itachi, quasi
scandalizzato.
L’altro
sbuffò, con aperta noncuranza.
“Perché
non sei umano, altrimenti l’avresti fatto. Ma io so leggere tra le righe,
Itachi, e so che mentalmente sei arrossito,” concluse, con un ghigno
vittorioso.
“Mentalmente…”
ripeté Itachi con aperto scetticismo.
Shisui
annuì ripetutamente, con convinzione.
“Ti
conosco, mascherina,” ridacchiò beffardo.
Questa
volta Itachi sollevò lo sguardo su di lui, sorridendo con quella che gli
parve amarezza.
“Già.
Mi conosci,” mormorò, assorto.
Shisui
sventolò la mano e si sporse in avanti, accorato.
“Naeko-chan mi ha detto che qualcuno ha praticamente smesso di rivolgerle la parola e quasi non
la guarda nemmeno più in faccia,” illustrò, con tono
complice, “Come se non esistesse. Ne sai nulla, tu?” aggiunse
innocentemente. Poi allungò rapidamente il braccio, muovendo un pedone
per ultimare la sua trappola.
Itachi
lo osservò inespressivo, serrando le labbra.
“Shisui…” iniziò stancamente.
“No,
me lo chiedevo perché, sai,” continuò lui, fingendo di
ignorarlo. Certe volte suo cugino aveva bisogno di un bello scrollone, altro
che complimenti a destra e a manca, “se tu conoscessi quel tizio che
è cotto di Naeko-chan e scoprissi che ha
smesso di degnarla della minima attenzione gli diresti che è un idiota.
O no?” s’informò coscienzioso, trattenendo un sogghigno
maligno.
“Shisui…” ripeté Itachi cercando di
arrestare la conversazione.
“Tu
stai spezzando il cuore di quella poverina. E il tuo. Perché ho un
cugino masochista?” concluse Shisui con
fermezza, indicandolo contrariato.
Itachi
socchiuse le labbra, con un’espressione esasperata, cupa e lontanamente
malinconica. Poi scosse la testa, sbuffò e rimangiò qualunque
affermazione fosse stato sul punto di esternare.
Allungò
la mano, quieto, e spostò un alfiere decisamente in avanti.
“Ma
che…?” sibilò Shisui
all’erta, anche se non ci capiva più nulla.
“Non
è affatto così. Ho molte cose a cui badare in questo periodo, mi
affideranno una missione estremamente complessa e mio fratello sta cominciando
l’accademia,” scandì Itachi con voce profonda e controllata.
“Naeko-chan dice che…”
“…Ultimamente
sono strano e non le piace il mio sguardo, lo so. Guarda che me l’ha
detto. Il che dimostra che non è vero che non le parlo,” concluse
Itachi grave.
Shisui
passò alla mossa successiva, sbuffando insoddisfatto.
“Comunque
sia ci è rimasta male,” osservò con rimprovero.
Itachi
guardò le sue figure per qualche secondo, meditabondo, e poi la sua
torre mangiò un pedone bianco. Shisui si
strinse nelle spalle, l’elemento era sacrificabile.
“Mi
dispiace che ci sia rimasta male,” commentò Itachi lentamente,
guardandolo mentre lui finalmente intrappolava la regina nera. Alla prossima
mossa, niente lo poteva impedire, Shisui
l’avrebbe mangiata. Sorrise tra sé vittorioso, poi tornò a
badare alla conversazione.
“E’
che sembri strano anche me,” borbottò incerto. “Cioè,
non strano, sembri…uno che sta annegando,” precisò,
riflettendo attentamente su come rendere a parole la sensazione spiacevole che
Itachi gli trasmetteva in quel periodo.
Suo
cugino sorrise, con un sorriso affettuoso, amaro e estremamente sconfitto che
lui non capì.
“Perché
è vero, tu mi conosci, Shisui,”
mormorò, facendolo sussultare e sollevare la testa di scatto con stupore
per quell’ammissione di malessere. Itachi non gli lasciò
però il tempo di interrogarlo in merito, portò la mano avanti,
spostò l’alfiere e prima ancora di averlo posato sulla casella
voluta mormorò “Scacco matto.”
Shisui
balzò su esterrefatto.
“Cheee?” strillò incredulo, sbattendo ripetutamente
le palpebre mentre guardava la scacchiera.
Il
suo re, ancora immobile e incuneato tra i pezzi rimastigli, era sotto la
minaccia diretta dell’alfiere nero. Osservò febbrilmente lo
scenario e si rese conto di non poterlo più spostare: se l’avesse fatto,
la torre che Itachi aveva mosso poco prima l’avrebbe comunque mangiato.
Aveva
perso.
“Maledetto
infido…” grugnì stizzito, sdraiando il re bianco con una
manata. “Avevi calcolato le mosse che stavo facendo e ti sei regolato di
conseguenza. Molto astuto,” bofonchiò contrito.
“No,”
fece Itachi scuotendo la testa, “sei tu che sei stato prevedibile. Ti sei
tenuto troppo coperto indietro e hai attuato una strategia visibile,”
spiegò placido.
“E
quindi?” fece Shisui torvo.
“Quindi
mi è bastato adattarmi, che è un’altra cosa che tu non hai
fatto. Hai continuato il tuo schema senza più domandarti quale fosse il
mio, il che mi ha dato un grosso vantaggio. Poi ho attaccato e ti ho spiazzato,
perché le mosse migliori sono quelle ardite e completamente inaspettate,”
concluse Itachi, iniziando a riordinare i pezzi diligentemente. Shisui aggrottò la fronte, ragionando su quelle
poche parole del cugino. Si grattò una guancia, concentrato.
“Questo
è il modo in cui combatti,” commentò, esprimendo una
semplice consapevolezza.
“Non
c’è molta differenza tra una partita a scacchi e una battaglia
mortale,” confermò Itachi rigidamente, assorto. “Si basano
entrambe sui medesimi principi.”
“Hai
usato la regina per distrarmi, uno specchietto per le allodole,” continuo
Shisui, sistemando i suoi pedoni sulle caselle.
“Sì.
E ingannandoti ti ho fatto fare esattamente quello che volevo,” concluse
Itachi, giocherellando distrattamente con il laccio del proprio coprifronte.
Shisui
sorrise, risoluto.
“Rivincita?”
propose allegro.
Itachi
annuì, stringendosi nelle spalle.
Pomeriggio, 15:00
Shisui
sbadigliò per l’ennesima volta, insonnolito. Essere di ronda in
una giornata così calda, e per giunta senza aver dormito a sufficienza,
era sfiancante. Il torpore lo lasciava completamente intontito, rendendo i suoi
movimenti più lenti del solito e la sua attenzione blanda. In effetti,
la sua mente era concentrata su pressoché un unico pensiero:
vagheggiava, pigra, il momento in cui sarebbe andato a dormire, a sera.
Già immaginava di sprofondare la faccia nel cuscino e gli pareva quasi
di sentire il piacevole tepore del lenzuolo sulla schiena.
“Di’,
ce la fai a camminare o devo lasciarti qui?”
Shisui
sorrise distrattamente a Inabi, fermo qualche metro
più avanti e intento a guardarlo con vago scherno. Sbatté un paio
di volte le palpebre e scrollò le spalle, accelerando il passo.
“Perché
cavolo dobbiamo farle sempre, queste ronde?” borbottò annoiato.
“Non succede mai un cavolo di niente, tanto. Lo zio Fugaku
ha ragione, qui ci prendono tutti per i fondelli.”
“Non
stare a urlare tanto, idiota,” lo riprese il più vecchio,
superiore. Gli voltò le spalle, arrampicandosi sul camminamento
più alto delle mura di cinta di villaggio. Shisui
lo imitò con un balzo, gettando poi l’occhio su Konoha. Come
previsto, il villaggio era placidamente sopito nella calura estiva. C’era
poco movimento e un silenzio generale, sporadicamente disturbato da qualche
voce svagata e dal rumore di porte e finestre che si aprivano e si chiudevano.
“Come
volevasi dimostrare,” commentò sbuffando.
“La
scoperta dell’acqua calda,” concesse Inabi,
avanzando con un sorriso affilato. “Presto le cose cambieranno,”
mormorò poi, assorto.
“Grazie
al cielo. Quando Itachi…” confermò lui con un picco di
vivacità, tenendogli dietro.
“Shisui,” lo interruppe seccamente Inabi.
“Tu parli troppo.”
“Ma
sei tu che…” ribatté lui risentito, sventolando una mano.
“Smettila
di fare nomi!” soffiò Inabi severamente.
“Ma
sono mio zio e mio cugino, eh,” fece notare lui, noncurante.
L’altro
scrollò la testa con una smorfia aspra, balzando avanti senza più
parlare. Shisui si affrettò a sua volta ad
avanzare, di malavoglia. L’unico evento significativo che gli pareva di
poter registrare era che, tra gli alberi lungo le mura, una leggera brezza
soffiava delicata, producendo un delizioso fruscio.
E
che, nonostante quell’idilliaca quiete, continuava ad osservare le ombre
scure che i rami proiettavano sul terreno e sui muri con vago malessere. Non
c’era nessun valido motivo, eppure, l’ombra…
Pomeriggio, 17:00
“Abbiamo
finito, no?” biascicò Shisui
sistemandosi i capelli raccolti, distrattamente.
Inabi
lanciò un’ultima occhiata intorno, tentennando un assenso. Shisui sospirò sollevato e indietreggiò di un
passo, sorridendo.
“Ci
vediamo in giro,” affermò sollevando la mano, prima di girare i
tacchi.
Si
cacciò le mani in tasca, svogliato, osservando distratto le punte dei
propri piedi che si alternavano avanti, mentre camminava. Aveva un sandalo
più allentato dell’altro e un’unghia sporca di terra. Ma non
aveva più impegni, perciò avrebbe potuto concedersi un bel bagno
rilassante. Sorrise soddisfatto, pregustando il felice momento, proprio un
secondo prima che un braccio comparso alla sue spalle circondasse con decisione
il suo collo. S’irrigidì, per poi ridacchiare debolmente.
“D’accordo,”
mugolò, arreso. “Mi hai beccato, ero sulle nuvole.”
La
stretta si allentò e poi lo lasciò del tutto mentre il volto di
Itachi, inespressivo, entrava nel suo campo visivo.
“L’ho
notato,” commentò questi, distaccato.
Shisui
si passò la mano tra i capelli, con un sorriso vagamente vergognoso.
“Un
poliziotto all’erta, mh?”
sogghignò divertito. “Ho finito il turno, tu hai da fare?”
Itachi
lanciò uno sguardo impenetrabile lungo la via, muto.
“Sì.
Sas’ke,” spiegò poi, criptico. “Possiamo vederci dopo
cena,” ipotizzò, dopo un altro breve silenzio.
Shisui
storse il naso, scettico.
“Non
credo che mio padre sarebbe contento se me ne andassi in giro anche
stasera,” osservò logico.
Itachi
continuò a fissare la strada quasi in tralice, prima di spostare
finalmente gli occhi su di lui con quella che gli parve remota riluttanza.
“Potrebbe
non venirlo a sapere,” suggerì, lentamente.
Shisui
socchiuse le labbra, preso in contropiede, ed accennò un sogghigno.
“Giusto.
Se me lo chiede gli dirò…gli dirò che devo sostituire qualcun
altro di ronda,” imbastì, sornione.
“Chi?”
domandò Itachi, atono.
Shisui
scrollò le spalle.
“Gli
dirò che non l’ho chiesto.”
Itachi
rifletté per qualche secondo, immobile, poi lo fissò ancora
intensamente. Shisui ricambiò lo sguardo con
leggera interrogazione negli occhi, sul punto di chiedergli che avesse per la
testa, ma l’altro accennò un vaghissimo sorriso fittizio,
annuendo.
“Alle
otto e mezza?” propose.
Shisui
annuì.
“Al
fiume,” precisò, come se ce ne fosse stato bisogno.
Sera, 21:37
Shisui
sbuffò nuovamente, irritato: si erano detti che si sarebbero visti alle
otto e mezza e di Itachi non c’era ancora traccia; se non fosse arrivato
entro altri dieci minuti se ne sarebbe tornato a casa.
Tirò
forte un sassolino nell’acqua frusciante, piegando il gomito per dare al
lancio la giusta angolatura di modo da far rimbalzare la pietra. Quella
saltò due volte e poi si perse tra l’erba buia, sulla riva
opposta.
Shisui,
seduto sul bordo del fiume, sollevò la testa a guardare la luna nel
cielo. Entro qualche notte sarebbe stata perfettamente piena, ma mancava ancora
un ultimo spicchio per avere un cerchio perfetto. Fu in quel momento che giunse
alle sue orecchie un tramestio di passi e di rami smossi, poi la sagoma di
Itachi sgusciò fuori dal sottobosco, arrestandosi sul limitare della
stretta spiaggia sassosa. Con quel buio Shisui non
poteva distinguerlo bene ma gli parve che, nel vederlo, Itachi storcesse il
viso in una sorta di smorfia.
“Alla
buon’ora!” esclamò spazientito. “Perché ci hai
messo tanto?” aggiunse con accusa, muovendo il piede che ciondolava a
pelo d’acqua. Guardò alcune minuscole onde formatesi per lo
spostamento d’aria, tornando a dargli le spalle. Poi lo sentì
inspirare rumorosamente.
“Suppongo,”
iniziò Itachi con voce bassa e lenta, dolente, “che una parte di
me sperasse di non trovarti più qui, che te ne fossi già
andato.”
Shisui
sgranò leggermente gli occhi, sorpreso. Non lo capiva, era sempre
più strano.
“Per
quale demenziale ragione, scusami? Eravamo d’accordo che…”
protestò esterrefatto.
“Mi
dispiace.” La voce di Itachi si sovrappose alla sua, suonando fremente e
quasi gutturale. “Non sai quanto
mi dispiace. Ma non ho scelta, capisci?” domandò febbrilmente,
mentre Shisui si voltava di nuovo a guardarlo sempre
più confuso. “Se ci fosse qualcosa…qualunque altra
cosa… Io non posso permettere che succeda. Di nuovo infiniti massacri, e
fiamme e urla, per chissà quanto tempo. Devo pensare a lui. Mi capisci
non è vero, Shisui?” ripeté, e il
tono sofferto e quasi folle si fece carezzevole e affezionato come non era mai
stato, nel pronunciare il suo nome.
“D-di cosa stiamo parlando, Itachi?”
“Mi
dispiace, Shisui. È come se morissi anche io.
È esattamente la stessa cosa,” continuò Itachi, cupo e
tormentato. “Perdonami. So che non il diritto di chiederlo, ma perdonami
se puoi.”
Shisui
sgranò gli occhi e si mosse con un momento di ritardo: Itachi era
più rapido e più pronto di lui. Ebbe appena il tempo di vedere il
corpo del cugino scomparire da dove si trovava e non servì a niente
cercare di schivare il colpo, neanche attivando istintivamente lo sharingan: Itachi
era troppo veloce. Gli fu addosso all’istante, scaraventandolo a terra. La
testa di Shisui cozzò forte contro un sasso, stordendolo,
un lamento di dolore gli sfuggì dalle labbra e soffocò in un
gorgoglio disperato quando la mano di Itachi, con violenza, si strinse dietro
il suo collo e con uno strattone poderoso gli cacciò la testa nel fiume.
Shisui
annaspò e ingoiò acqua, tossendo spasmodicamente. Si
dibatté, scalciando alla cieca mentre il cuore quasi gli scoppiava per
il terrore. Singhiozzò sommerso e bevve ancora, strozzandosi. Con una
forza che nemmeno sapeva di avere, puro istinto di sopravvivenza, si
divincolò colpendo con le braccia un obiettivo che non riusciva più
a vedere, senza preoccuparsi né di taijutsu
né di ninjutsu ma soltanto cercando di
liberarsi.
La
presa di Itachi si allentò per un istante e Shisui
riemerse con uno scatto brutale, il suo torace si squassò per la tosse e
il ragazzo vomitò acqua con conati rumorosi. Tremava di panico e
incredulità e aveva la vista appannata, un terrore gelido in ogni nervo.
Gemette rauco cercando di arretrare, intravide la sagoma del cugino sovrastarlo
di nuovo e scalciò, incespicando nello strisciare indietro.
“Ita…” gorgogliò atterrito. Non ebbe
tempo di dire altro, Itachi gli fu ancora addosso e lo afferrò per i
capelli, mormorando qualcosa che lui non comprese oltre il velo della paura e
della vista ottenebrata. Reagì d’impulso e sfilò il kunai dal guaino con tutta la velocità che gli riuscì
d’usare, ma le dita di suo cugino si strinsero sul suo polso
strappandogli un nuovo lamento, piegarono il suo braccio indietro e lo spinsero
di nuovo verso l’acqua. Shisui oppose tutta la
resistenza possibile, piegò un ginocchio per colpire il fianco di Itachi
e lo prese di striscio, sbilanciandolo leggermente. Fece per scattare lontano,
verso gli alberi, ma Itachi lo bloccò gettandosi su di lui di peso.
“Non
rendermi…le cose ancora…più difficili,” stridette con
voce spezzata dallo sforzo, assurdamente supplice.
Shisui
gemette roco, dibattendosi.
“P…perch…?” esalò intontito. Poi
tentò di lanciare un Katon, ma aveva ingoiato
troppa acqua ed era fradicio, spaventato. Ruggì frustrato, quindi un
colpo violento alla testa gli oscurò la vista e si sentì
trascinare inesorabilmente verso la riva. Urlò, sapendo finalmente di
stare per morire, ma la voce non gli sgorgò dalla gola serrata.
Lanciò un ultimo calcio senza nemmeno accorgersene, tanto inatteso che
colpì il cugino. Itachi si piegò in due ma non si fermò
per un solo istante e lui avvertì il dolore del suo gomito che gli si
abbatteva in mezzo alla schiena, percepì il gusto ferrigno del sangue
sulla lingua e si afflosciò stremato in avanti, mentre Itachi da qualche
parte emetteva un singhiozzo come un grido di sofferenza, lo stesso grido che
non riusciva a sgorgare dalla gola di Shisui.
“Perché
posso sceglierne uno solo,” lo avvolse il mormorio atroce e straziato del
cugino, un attimo prima che l’acqua lo circondasse.
Trattenne
il fiato, si divincolò, serrò le labbra cercando di tirare su la
testa ma era tutto inutile: Itachi era troppo forte. Quando ogni riserva
d’ossigeno fu esaurita senza che la morsa su di lui si fosse allentata –
la mano stretta sulla sua nuca tremava tanto che lo sentiva persino lui –
le sue labbra si spalancarono e l’acqua lo invase, implacabile. Pianse
lacrime che si persero nel fiume intorno ad esse nel momento in cui i suoi
polmoni cedevano.
All’ultimo,
mentre il nero lo ingoiava, Shisui capì.
L’ombra aveva sopraffatto
Itachi.
____________________________________
Ahm.
Eccoci qua, al termine di momenti di scoppiettante allegria.
Sono
soddisfatta di questa storia, lo dico senza false modestie. Naturalmente
avrebbe potuto essere molto migliore, ma anche così non mi sembra male.
Lo dico perché mi piacerebbe molto avere la vostra opinione: so che non
siete minimamente tenuti a darmela, ma se aveste due minuti da sprecare ve ne
sarei davvero riconoscente.
Che
altro… Beh, si dice che il primo omicidio sia il più difficile di
tutti. Ho voluto attenermi a questa massima, che peraltro non intendo
verificare.
Probabilmente
la ricostruzione non ha molto senso. Me ne scuso.
Hasta.
suni