Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: johnlockhell    10/04/2016    4 recensioni
La scoperta del segreto di Mary è l'ennesimo trauma che la vita non ha risparmiato a John Watson. Anche dopo il ritorno a Baker Street, si trascina depresso nella routine quotidiana sotto il peso della consapevolezza che tutto quello in cui spera si distruggerà. Sherlock non può più sopportare di vedere l'amico, la luce dei suoi occhi, in questo stato afflitto. Nonostante le emozioni e interazioni umane non siano il suo forte, per farlo reagire e rimettere le cose a posto è pronto a ricorrere a qualsiasi espediente. Ma Londra non lascia mai un attimo di respiro, e c'è sempre un crimine da risolvere dietro l'angolo. [Pairing: Johnlock, accenno di Warstan]
Dal Capitolo 6: “Quello che intendo dire, è che sei tu a farmi questo effetto. Sei sempre e solo tu, John.”
Dal Capitolo 8: Aveva fatto un sogno assurdo quella notte, e il vago ricordo del sogno, la sua immagine sfocata, non si cancellava dalla sua testa. Aveva sognato di baciare Sherlock.
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 8 – Wildest Dreams

 

Durante il viaggio a bordo dell'automobile della polizia, Lestrade aggiornò Sherlock e John sulle dinamiche del nuovo caso che aveva scosso Scotland Yard, facendo il punto della situazione.

“Un rapimento?!” sbottò Sherlock dal sedile anteriore della vettura accanto a Lestrade, lasciando dietro John da solo anche questa volta. “Ci hai fatto scomodare solo per un banale rapimento?”

“Ma mi stai ascoltando?” gli rispose a tono Lestrade, “non sappiamo ancora se si tratti di un rapimento o meno.”

La situazione era infatti più complessa di come cercasse di banalizzarla Sherlock, scocciato e ancora scosso dagli eventi della nottata. Lestrade aveva riassunto velocemente i fatti accaduti il giorno prima: il figlio minore di una famiglia della media borghesia londinese era scomparso nel nord di Londra nel primo pomeriggio, o almeno quello era il momento in cui la madre si era accorta della sua assenza dal giardino della raffinata casa in stile vittoriano in cui vivevano in Wellington Street, nei pressi di Regent's Park. Ma non era ancora chiaro se il bambino si fosse allontanato volontariamente, se fosse rimasto vittima di un incidente, se fosse stato avvicinato da qualcuno. L'ultima ad averlo visto era la sorellina di qualche anno maggiore, che stava giocando col bambino fino al momento della sua scomparsa, e che adesso era completamente chiusa nel silenzio.

“Per favore,” ribatté Sherlock, “il figlio piccolo di una famiglia agiata scompare, è sempre un rapimento.”

“Cosa avete scoperto finora?” chiese John a Lestrade, facendo capolino fra i sedili.

“La madre è completamente sconvolta e di nessun aiuto, la sorellina è sotto shock,” spiegò l'ispettore, “in poche parole, nulla.”

“E quale sarebbe la novità?” bofonchiò sarcastico Sherlock.

“Abbiamo mandato i cani da soccorso fuori nel quartiere per cercare di fiutare il bambino,” riprese Lestrade, “ma per ora non ci sono stati risultati e, visto che la tempestività è vitale per ritrovare la persona scomparsa in questi casi, ho pensato di ricorrere anche ad un altro tipo di fiuto.”

“Idea comunque inutile,” controbatté Sherlock, alzando gli occhi al cielo e inclinando la testa verso il finestrino, “visto che è un rapimento.”

John stava sghignazzando nel sedile posteriore. “Vedi Lestrade,” disse sorridendo, “il problema di usare Sherlock come segugio è che non puoi tenerlo al guinzaglio.”

Con un leggero sobbalzo, arrivarono davanti alla palazzina privata a mattoncini e intonaco, e l'auto si fermò lungo il marciapiede. I tre uomini uscirono dalla macchina, sbattendo le portiere quasi all'unisono. Dentro la villetta, al di là del giardino all'inglese e delle basse siepi che lo circondavano, si potevano scorgere un paio di figure in movimento dietro le tende che offuscavano le tipiche vetrate esagonali in stile vittoriano. Sherlock, John e Lestrade varcarono la soglia del giardino e iniziarono a percorrere il vialetto. Alla sua fine, potevano scorgere che la porta era già aperta.

“Non mi stupisce che si siano persi un bambino, se si dimenticano anche la porta aperta,” commentò ironico Sherlock, lanciando un'occhiata di traverso a John.

John soffocò una risata sonora con difficoltà. Come Sherlock riuscisse ad avere quel tempismo perfetto per le battute sconvenienti era il vero mistero della sua personalità. John buttò una veloce occhiata di rimando verso Sherlock sorridendo, per inviargli telepaticamente qualcosa a metà fra un rimprovero e una pacca di approvazione. Ma quello che vide lo spiazzò.

La faccia di Sherlock non era affatto divertita. Il detective era pungente e sarcastico come al solito, non c'era nulla di strano nel suo comportamento e nelle sue frecciatine, ma i suoi occhi erano così tristi. John aveva colto per un secondo una tale desolazione negli occhi di Sherlock che contrastava completamente con il resto del suo atteggiamento, e non capiva da dove venisse. Sherlock era stato strano negli ultimi giorni a momenti, ma anche lui lo era stato, l'intera situazione lo era. E anche in questo momento c'era un pensiero fisso che attanagliava la mente di John fin dal risveglio, una strana immagine confusa. Come fare a capire se ci fosse qualcosa di serio che non andava in Sherlock? La stranezza non poteva essere un indicatore, perché, in tutta sincerità, quand'era che Sherlock non era strano?

La pozza di tristezza dagli occhi di Sherlock scomparì immediatamente appena notò lo sguardo del dottore, a cui rispose con un leggero sorriso. Anche John rialzò le estremità cadenti dalla sua bocca per ricambiare il sorriso, ancora confuso. Era davvero impressionante come cercasse di farlo ridere anche quando portava dentro di sé una tale pena, pensò John.

I tre uomini raggiunsero il portone di ingresso, ma prima di avvicinarsi Sherlock rallentò, facendoli esitare qualche passo indietro e studiando attentamente lo zerbino e lo spiazzo davanti alla porta. C'erano un paio di tracce di fango sul lastricato, e quelle che sembravano essere delle piccole impronte di scarpe sporche di terra sullo zerbino, mezze cancellate dalle suole delle altre persone che ci si erano strofinate contro entrando nella casa. Sherlock inarcò la schiena e si inchinò leggermente per osservarle con attenzione maniacale. Poi si rialzò e raddrizzò, e si voltò verso i due colleghi che lo stavano accompagnando. Il suo sguardo era completamente neutro adesso, notò John, anzi, c'era quella solita punta di determinazione e sfida che aveva sempre quando un caso iniziava a intrigarlo. Adesso la sua concentrazione era completamente sulla risoluzione del mistero.

“Non è un rapimento,” annunciò Sherlock ai compari.

Lestrade li superò e spinse la porta socchiusa, aprendola completamente. Quando misero piede nell'ingresso, il rumore dei tanti agenti di polizia che affollavano ogni angolo dell'abitazione, sebbene appena udibile da fuori, li investì. C'era personale di polizia in ogni dove, alcuni tecnici della scientifica stavano scendendo dalla scala che portava al piano di sopra, presumibilmente alla ricerca di indizi e tracce biologiche; a destra dell'ingresso, nel salotto che vi si affacciava, si vedevano altri agenti intenti a prendere appunti e a parlare con una donna magra dai capelli scompigliati seduta in modo precario su una sedia di legno, a poca distanza da una ragazzina altrettanto magra, e da una donna anziana che oscillava su una sedia a dondolo con aria assente.

“Come ti aspetti che possa trovare qualcosa,” si lamentò Sherlock con Lestrade, “adesso che tutti i possibili indizi sono già stati compromessi dai tuoi uomini?”

La donna scompigliata, evidentemente la madre del bambino scomparso, lanciò un'occhiata verso i nuovi arrivati, con un misto di speranza e profonda paura degli occhi. Lestrade, Sherlock e John raggiunsero il salotto ed entrarono nella stanza, dietro agli altri poliziotti che stavano perquisendo mobili e oggetti alla ricerca di qualche informazione in più sul bambino. Al loro ingresso, la donna si alzò dalla sedia di scatto.

“Ci sono novità?” chiese, con voce rotta e incerta, le labbra tremanti fra le rigature lasciate dalle lacrime. Si aspettava di sentire qualche tragica notizia dall'ispettore.

“No,” la rassicurò Lestrade, “ma ho portato qualcuno che può aiutare,” disse facendo segno verso Sherlock e John.

Sherlock stava già ispezionando tutta la stanza e registrandone ogni dettaglio, visibilmente infastidito dal via vai degli uomini della polizia e dagli sforzi che doveva fare per cancellarli dal suo campo visivo.

“Tutti questi uomini e non state facendo nulla di concreto,” esalò esasperata la donna, ricadendo sulla sedia, “che differenza possono fare altri due?”

“Noi non siamo come gli altri,” rispose Sherlock, avvicinandosi a lei senza guardarla in volto, con aria distratta perché impegnata a squadrarla da capo a piedi e catturare ogni possibile indizio su di lei. Ma sembrava semplicemente una normale madre sconvolta. “Sono il consulente investigativo Sherlock Holmes,” si presentò alla donna, “e questo è il mio... collega, John Watson.”

John sorrise leggermente alla donna, dal margine della stanza, dove era rimasto a fianco di Lestrade per lasciare Sherlock fare il proprio lavoro. Colse quella piccola esitazione nella voce di Sherlock, e se ne chiese il motivo. Dal punto di vista di Sherlock, non c'era nessuna parola che potesse riassumere il loro rapporto, e chiamarlo collega era davvero troppo riduttivo.

Sherlock tese la mano alla donna, studiandole per la prima volta gli occhi. “Lei è la signora...”

“Larson,” rispose la donna, accettando la mano. “Scusate ma non capisco come potreste essere d'aiuto. È già stata allertata la scuola, i cani sono fuori a cercarlo, e non sta servendo a niente...”

“Devo parlare con sua figlia,” la interruppe Sherlock, lasciandole la mano.

La signora Larson gettò un'occhiata dietro di sé alla ragazzina seduta in disparte, con gli occhi verso il pavimento, che non aveva accennato un minimo cambiamento all'ingresso dei nuovi ospiti.

“È sotto shock per la scomparsa di suo fratello,” spiegò al detective, “non ha detto una parola da ieri.”

“Non è un problema,” fece Sherlock, superandola e avvicinandosi alla bambina, “io parlo abbastanza per due persone.”

All'avvicinarsi di Sherlock, la bambina si alzò e scappò a nascondersi velocemente dietro la sedia a dondola con la donna anziana dallo sguardo vuoto, sua nonna.

“Non preoccuparti, devo solo farti un paio di domande,” cercò di tranquillizzarla Sherlock, che non si poteva proprio definire un esperto con i bambini, “non servirà neanche che tu risponda, posso capire anche senza parole.”

Sherlock segui la bambina e cercò di raggiungerla dietro la sedia a dondolo, tendendo una mano verso di lei. Ma un colpo brusco lo fermò.

La donna anziana sulla sedia aveva sferrato un colpo violento verso Sherlock con il braccio, alzandolo in aria e cercando di sbatterlo forte con il pugno chiuso contro la faccia del detective. Fortunatamente, con i suoi riflessi pronti e l'allerta alta, Sherlock era riuscito ad intercettare l'attacco e a portare una mano a difesa del volto, ma era rimasto non di meno sorpreso dal gesto inaspettato della vecchia, che fino ad un secondo prima sembrava completamente inerme. Adesso, invece, il suo viso era completamente trasfigurato in una maschera di odio, con gli occhi spiritati e tutti i muscoli contratti in un'espressione minacciosa. Non accennava a riabbassare il braccio stretto nella presa di Sherlock, anzi lo scuoteva e dimenava cercando di liberarsi e di scagliare un nuovo colpo, con una forza che il detective non aveva previsto potesse animare una donna così anziana.

“No, mamma,” la signora Larson corse subito in contro alla vecchia, “non fare così, va tutto bene.”

John era istintivamente scattato in avanti al gesto di attacco verso Sherlock, e adesso stava muovendo un passo indietro riassumendo la sua precedente posizione. Appena la signora Larson raggiunse l'anziana madre e le prese il braccio, sfilandolo dalla mano di Sherlock, questa si calmò, e torno allo stato inerme e vegetativo di prima. Il suo volto tornò vuoto e spento, il suo braccio divenne molle e ricadde al suo fianco. Era come se la signora Larson le avesse spento l'interruttore.

“Mi dispiace,” si scusò verso Sherlock, “mia madre ha l'Alzheimer, a volte ha degli scatti violenti, e la presenza di tutte queste persone la agita e disorienta. Non intendeva farle del male.”

“Ah,” pensò a voce alta Sherlock, “le malattie degenerative, difficile dedurre dei comportamenti così imprevedibili, interessante.”

La bambina uscì da dietro la sedia a dondolo, con l'aria ancora più bastonata di prima, come se si sentisse in colpa per l'episodio e uscisse allo scoperto per scusarsi. Sherlock abbassò lo sguardo per incontrare quello della ragazzina.

“Vogliamo ritrovare tuo fratello,” le disse piano, “non è quello che vuoi anche tu? Puoi aiutarci?”

La bambina non rispose, e Sherlock non era la persona adatta per farla aprire e parlare, la sua scarsa empatia umana era appena sufficiente per gli adulti. Quindi decise di aggirare il problema con le sue straordinarie doti di analisi.

“Ok,” convenne il detective, “dov'è che andate a giocare di solito tu e tuo fratello?” chiese alla bambina studiandone la reazione, “dov'è che stavate giocando prima che scomparisse?”

La bambina non rispose, ma volse velocemente gli occhi per guardare fuori dalla finestra, per un istante.

“Sì, in giardino, lo so,” Sherlock dedusse la muta risposta della bambina, “ma dovete giocare anche da altre parti,” disse, indicando le scarpe sporche della bambina, “non ti sei sicuramente sporcata di fango nel prato perfettamente curato di casa tua, quindi dove?”

La bambina aveva abbassato gli occhi alle scarpe, e non sembrava volerli rialzare né lasciar trasparire alcune emozione.

Sherlock si chinò ulteriormente e la afferrò per le spalle. “Dove?!” le chiese più veementemente, scuotendola leggermente.

“Sherlock!” lo ammonì John dall'altro lato della stanza, muovendosi velocemente verso di lui, “lasciala stare!”

Ma Sherlock aveva già ottenuto tutto quello che le serviva. Scossa, la bambina aveva gettato lo sguardo per un secondo verso alcuni fogli sparpagliati sopra il tavolino all'angolo della porta, abbastanza a lungo perché Sherlock intercettasse l'occhiata e capisse. Lasciò andare la bambina e si fiondò subito verso i fogli: dei disegni a pastelli, realizzati dall'incerta ma creativa mano della bambina.

“Ehi, stai bene?” domandò John alla bambina, che aveva raggiunto attraversando la stanza, e che adesso guardava negli occhi, inginocchiato di fronte a lei, “Non preoccuparti, è tutto a posto.” John le accarezzò i capelli con una mano.

Avere a che fare con quella bambina lo faceva pensare. Di lì a poco lui stesso sarebbe diventato padre, e non era interamente sicuro di come questo lo facesse sentire. La notizia lo aveva reso incredibilmente felice, e fare famiglia era sempre stato uno dei suoi desideri. Ma adesso le cose si erano così complicate. Che futuro avrebbe potuto avere suo figlio con una madre come Mary, e senza di lui? Non sapeva come comportarsi per riaggiustare la questione. Il rancore per Mary era acceso di una mancanza e nostalgia che gli corrodevano il fegato come gli era capitato solo un'altra volta nella vita. Doveva mettere davanti a tutto gli interessi del bambino, e garantirgli una famiglia unita e serena? Doveva cercare di costruire questa famiglia serena anche se le basi erano incerte e precarie? Doveva cercare di ritrovare quello che amava di Mary, anche se gran parte della sua persona gli sarebbe stata sempre sconosciuta, o avrebbe dovuto leggere la chiavetta USB e scoprire completamente chi aveva sposato, col rischio di non volerla più rivedere? Sicuramente non poteva fingere di non avere un figlio, e fargli pesare gli errori della madre e le vicende che erano accadute fra loro. Ma come poteva conciliare le cose? Doveva perdonare Mary? Sarebbe stato un buon padre? Non era sicuro di avere i requisiti necessari, con la sua dipendenza da adrenalina, lo stress postraumatico, e i suoi scatti d'ira. Non si sarebbe mai permesso che suo figlio soffrisse, però. Dopotutto, era sangue del suo sangue, era la cosa più importante.

Ma, anche in questo momento, con l'indifesa ragazzina che avrebbe dovuto attivare il suo istinto paterno, la sua mente cercava in ogni modo di divagare per non affrontare i conflitti interni che avrebbe dovuto risolvere, e al più presto. Fuggire dai problemi e dai pensieri scomodi era così facile. Doveva fare uno sforzo immane per riuscire a pensare da padre alla sua prossima, e sgangherata, famiglia, perché c'era un altro pensiero fisso, un'altra immagine che gli occupava la mente, e lo deconcentrava da qualsiasi altra cosa. Aveva fatto un sogno assurdo quella notte, e il vago ricordo del sogno, la sua immagine sfocata, non si cancellava dalla sua testa. Aveva sognato di baciare Sherlock.

Poteva ancora sentire le sensazioni di quel sogno, ma non era stato un sogno vivido, tutta la scena era offuscata, come se la sua memoria non potesse accedervi. Ricordava solo la dolcezza delle labbra di Sherlock, e non solo era estremamente sconveniente in quel momento: era esattamente quello che non gli serviva in mezzo a tutti i dilemmi mentali che già aveva da dipanare. Era solo un sogno strano come ne capitano tanti, non poteva significare nulla di particolare. Eppure non riusciva a smettere di pensarci, e non capiva perché. Era un chiodo fisso che lo tormentava da ore. Non era bizzarro che avesse sognato di baciare il suo migliore amico, e che non fosse la prima volta che capitava? Era da parecchio che non gli succedeva, però, doveva ammettere. Non ci aveva mai dato troppo peso, capita a tutti di sognare di fare cose strane con i propri amici di tanto in tanto, no? Soprattutto in alcuni momenti di solitudine e frustrazione. Era una cosa normale, non poteva dargli più importanza di quello che avesse, non era neppure reale. Ma continuava a pensarci, come non gli capitava mai, nemmeno con gli incubi. Di solito alzandosi tutto svaniva, ma non quel bacio. E continuava a pensarci nella maniera sbagliata. Come se volesse rivivere il sogno. Come se volesse provare di nuovo quel bacio.

“Quand'è che sua figlia ha fatto questo disegno?” chiese Sherlock alla signora Larson mostrandole un foglio colorato, e frantumando la scia di pensieri di John, che si rialzò e tornò concentrato sugli eventi del caso.

“Uhm... non saprei,” rifletteva la donna, “ieri? L'altro ieri? È solo un disegno, cosa importa?”

“Importa tantissimo,” la corresse Sherlock, avvicinandosi a lei e porgendole meglio il disegno. “Immagino che questa sia sua figlia,” indicò una piccola figura con le codine nel disegno, “e questa sia lei e sua madre” aggiunse puntando a due figure femminili più alte, una con capelli bianchi e bastone da passeggio, “e da quest'altro lato ci sono suo figlio scomparso e... suo marito?”

“Sì,” confermò la donna, “mio marito gestisce un'importante industria a Manchester, sta tornando proprio adesso, appena gli ho detto dell'accaduto. Lavora tutto il tempo per non farci mancare nulla,” sospirò, “da quando mia madre si è ammalata e io ho lasciato il lavoro per accudire lei e i bambini. Tutti quegli sforzi e nonostante tutto...” la sua voce iniziava a tremare.

“Sì sì ma non si distragga,” la bacchettò Sherlock, completamente preso dalla decodifica delle immagini, facendola tornare a guardare il disegno, “questo cosa rappresenta? Alberi, non avete alberi alti in giardino, quindi cos'è, un parco? Ovvio, Regent's Park è a dieci minuti da qui. Ci vanno spesso a giocare i bambini?”

“Qualche volta,” annuì la donna, “ce li porto nel fine settimana. Siete andati al parco da soli senza dirmi nulla?” chiese la signora Larson, senza riuscire a farlo suonare come un rimprovero, alla figlia, che anche questa volta non proferì parola.

“E questa curva cosa significa?” Sherlock proseguì con la sua analisi, “una piega, un dosso, una montagna... una collina!” esclamò alla fine, balzando per la stanza preso dall'eccitazione.

“Una collina?” chiese perplessa la signora Larson, “non ho mai portato i miei figli in collina.”

“Oh ma non è vero,” la contraddisse John, gli occhi accesi dalla stessa eccitazione di Sherlock, orgoglioso di riuscire a seguire il suo ragionamento, “c'è una collinetta proprio a fianco di Regent's Park!”

“Primrose Hill!” esclamò Sherlock, estatico. “Ecco dove si trova suo figlio, a Primrose Hill!”

La frenesia si trasmise immediatamente lungo tutta la stanza, e Sherlock, John e Lestrade furono subito in movimento. Lestrade sfilò il telefono di tasca, pronto a dare nuove direttive. “Dì ai tuoi uomini,” lo intimò Sherlock, “di portare i cani intorno a Primrose Hill per setacciare la zona!”

“È quello che sto facendo!” gli rispose Lestrade, già con l'orecchio al telefono, mentre si apprestava ad uscire dalla stanza.

“Con la volante della polizia,” rifletteva Sherlock ad alta voce con John, mentre seguivano Lestrade fuori dalla stanza verso l'uscita, “dovremmo essere lì in poco più di cinque minuti.”

“Aspettate, vengo con voi!” gli urlò dietro la signora Larson, congedando sua figlia con un bacio sulla fronte. “Fai la brava, sta' con i signori della polizia, e tieni d'occhio la nonna,” la salutò, “io torno presto, vado a riprendere tuo fratello!”

La signora Larson corse fuori dalla stanza e dalla casa dietro a Lestrade, Sherlock e John, per evitare che partissero senza di lei. I suoi occhi adesso erano accesi da una nuova speranza. Mentre quelli di sua figlia sembravano ancora più scuri.

I tre uomini e la donna si strizzarono dentro l'auto della polizia di Lestrade e partirono alla volta di Primrose Hill, con Sherlock sempre nel sedile anteriore che lanciava ragionamenti e considerazioni incauto dell'effetto che potessero avere sulla signora Larson seduta dietro di lui, la cui tremula speranza mista a paura era rivelata dalla vibrazione del piede contro il tappetino dell'automobile, che John colse dalla posizione accanto a lei; ma nonostante il momento di tensione, il primo pensiero di John era sempre puntato ai metodi non convenzionali con cui poteva far chiudere il becco a Sherlock usando la sua bocca.

Come predetto da Sherlock, raggiunsero l'entrata del parco che ospitava la collinetta nel giro di cinque minuti o poco più, fortunatamente il traffico di Londra era stato clemente. Mentre scendevano dalla macchina, i quattro poterono già notare dentro la recinzione del parco i cani della polizia che si trascinavano dietro altrettanti agenti arrivati qualche momento prima di loro. Entrarono anche loro dentro al parco, e procedettero per qualche secondo lungo a vialetti e stradine per arrivare all'accesso alla collinetta. Eccola che si ergeva imponente davanti ai loro occhi, il pendio di Primrose Hill, di fronte ad una lunga e rada distesa erbacea, a cui lati la vegetazione si infoltiva gradualmente, ospitando arbusti e vegetazione sempre più folta con l'allontanarsi dal centro della piana. John notò che il terreno era perfettamente compatibile con quello richiesto da Sherlock, perché fra l'erbetta selvatica e diradata c'erano ampie chiazze di terra e fango su cui la figlia della Larson poteva essersi sporcata le scarpe. Anche Sherlock stava guardando il fango con occhio più analitico, forse già confermando con il suo microscopio mentale che la composizione del fango era esattamente la stessa di quello trovato sullo zerbino.

Raggiunto il centro della distesa erbosa, gli agenti della polizia slegarono e rilasciarono i cani per mandarli ad eseguire la propria attività di ricerca, e questi partirono subito spediti verso la vegetazione e la boscaglia ai margini del prato della collinetta, annusando già qualcosa di sospetto. La signora Larson si gettò subito dietro di loro, non riuscendo più ad aspettare con la sua apprensione di madre. Lestrade la seguì di corsa, un po' per impedire che si cacciasse nei guai e un po' perché non fosse di intralcio alle indagini, andando a salutare i suoi colleghi della polizia. Anche John si stava subito lanciando verso i poliziotti per seguire da più vicino il centro dell'azione, ma Sherlock lo fermò.

“Vieni,” gli disse, prendendolo per la spalla e indicando la collina, “saliamo.”

Sherlock prese ad arrampicarsi su per la collina di buon passo e John, dopo un attimo di perplessa esitazione, lanciando un'altra occhiata verso la polizia e i cani, gli andò dietro. Sherlock saliva spedito come se non avvertisse neanche la pendenza, sempre lesto e prestante nonostante non sembrasse allenarsi, o riposarsi, mai; John invece era abbastanza fiaccato, forse aveva davvero accumulato qualche chilo di troppo dal matrimonio, e lo stile di vita sregolato delle ultime settimane non aiutava.

Raggiunsero la cima, e si trovarono davanti un piccolo spiazzo circolare popolato di persone, fra turisti intenti a fare picnic per terra e giovani seduti sulle panchine. Un ragazzo e una ragazza si stavano baciando su una di quelle e John ricordò in quel momento che Primrose Hill era il luogo prediletto dalle coppiette per gli appuntamenti romantici, e tutto questo non aiutava i suoi pensieri.

“Perché siamo saliti quassù,” chiese John a Sherlock, “quando i cani sono andati da tutt'altra parte?”

Sherlock si era girato e stava guardando lontano, ammirando il panorama. “Avevo bisogno di vedere qualcosa di bello,” rispose. Tutta Londra era davanti ai loro occhi, e le cime di edifici e grattaceli brillavano nel sole del mezzogiorno svettando sopra la vegetazione del parco. Era una vista incantevole.

“Perché?” chiese insistente John.

“Ho un brutto presentimento,” ammise Sherlock.

“Sei Sherlock Holmes, tu non hai presentimenti,” lo corresse John, “tu sai le cose e basta.”

Stavano l'uno accanto all'altro con il sole in faccia a guardare il paesaggio che si stendeva a perdita d'occhio, ma lo sguardo di John tornava sempre indietro. Nonostante la bellezza della città davanti a lui, i suoi occhi erano più interessati a cercare di spiare il volto dell'uomo che aveva di fianco. John finiva per girare impercettibilmente la testa e lanciare un'occhiata alle labbra di Sherlock, così carnose e definite.

Perché non riusciva a smettere di pensare a baciare Sherlock? Non andava bene. A John piacevano le donne. John ne era certo, questo non era in dubbio, per tutta la sua vita il gentil sesso era stato la sua spiccata preferenza. Questo non era mai stato in discussione, perché la sua passione per il fascino femminile era ovvia e palese, e fin troppo spesso ne era rimasto soggiogato prima di incontrare Mary, che per lui era la donna più bella che esistesse. Allora perché stava desiderando di baciare il suo migliore amico? John non si era mai identificato come niente che non fosse eterosessuale, lui era perfettamente normale. Anche tutte le volte che la sua mente aveva corso più di lui e gli aveva fatto immaginare scenari indecenti nei sogni o nelle fantasticherie ad occhi aperti, che coinvolgevano Sherlock o altri conoscenti, non aveva mai preso sul serio la cosa, sicuro nelle proprie certezze dal maggior numero di riscontri riguardanti l'attrazione verso il polo femminile, e certo che capitasse a tutti di fare pensieri piccanti che non avrebbero poi voluto mettere in pratica. Questa volta però era così difficile scacciare questo nuovo pensiero, e stava scuotendo le fondamenta delle sue convinzioni. Era possibile che esistessero delle eccezioni alla sua sessualità? Era possibile che fosse attratto dal genere femminile, e da Sherlock? Stava solo fraintendendo i profondi sentimenti di affetto che provava verso il compagno per qualcos'altro? Dov'era esattamente che si poteva tracciare il confine fra amicizia e qualcosa di più? Quello che lo legava a Sherlock era un sentimento così intenso che non aveva nulla di diverso dall'amore, ma John non aveva mai pensato che potesse prendere la sfumatura tipica di una relazione romantica, semplicemente perché non era il lato che a lui interessava, però adesso non ne era più così sicuro. Forse le cose potevano cambiare, evolversi nel tempo. D'altronde, anche la sua analista una volta aveva detto che la sessualità era qualcosa di fluido, che non era mai bianca o nera, che c'erano delle zone grige e delle eccezioni comunque valide. E chissà perché aveva deciso di parlargliene, poi.

John non era bravo con sentimenti ed emotività, e non era tipo da scavarsi dentro più di tanto per cercare di decodificarli, preferiva reprimerli in un angolo e lasciarli nell'oblio. La sua terapista sapeva benissimo quanto fosse difficile tirargli fuori di bocca qualsiasi ammissione, qualsiasi confessione, quando molti di quei quesiti non li aveva mai elaborati in prima persona. Ma questa volta, John doveva capirci di più. E per farlo, doveva investigare oltre. Doveva tentare la prova definitiva.

Girandosi qualche millimetro in più verso Sherlock, abbassò gli occhi lungo il suo colletto e la sua giacca. John cominciò ad immaginare di levargliela, di sbottonare la sua camicia e di sfilargliela di dosso. Si figurò il corpo nudo di Sherlock davanti agli occhi, pensando a come sarebbe stato scorrere le dita sulla sua pelle. Come lo faceva sentire questa visione? John non ne era completamente sicuro, ma era un'immagine mentale che non gli dispiaceva e che non lo infastidiva. Non sapeva se gli sarebbe piaciuto davvero abbracciare Sherlock in quel modo, forse era un passo troppo lungo, uno slancio troppo eccessivo per le sue pulsioni non ancora ben tarate, ma i suoi occhi tornarono alle labbra del detective. Adesso John sapeva che il suo sogno era venuto dal desiderio di provare.

Sherlock continuava a guardare il panorama imperterrito, inconsapevole delle elucubrazioni del compagno, e la vista della città sembrava renderlo molto malinconico. Cosa avrebbe fatto John con questa nuova consapevolezza? Dopotutto, era un uomo sposato, e di lì a poco sarebbe diventato padre di famiglia. Questo tassello non poteva integrarsi nel quadro della sua vita, però non voleva gettarlo al vento.

Dai piedi della collina iniziò a salire il rumore intenso dei latrati dei cani, seguito da un incomprensibile vociare, rotto da un prolungato e straziato urlo femminile.

“È il nostro segnale,” fece Sherlock a John, cominciando a correre giù per la collina.

Tornati sulla piana, Sherlock e John corsero verso la boscaglia, seguendo la scia delle voci per orientarsi, e arrivando finalmente alla temuta scena: fra un diradamento degli alberi, il corpo esanime di un bambino giaceva nella terra, circondato dai cani e dagli agenti di polizia, mentre la signora Larson soffocava le grida contro il cappotto di Lestrade, gli occhi sconvolti.

“John...” lo invitò Sherlock ad avvicinarsi al corpo e analizzarlo, “è stato un incidente, è stato ucciso?” gli chiese di confermare le risposte che già immaginava.

John si inginocchiò accanto al corpo del bambino. “A giudicare dall'ecchimosi digitale sulla pelle del collo, è stato strangolato,” rispose.

A quelle parole, la signora Larson lanciò un gemito ancora più forte, sprofondando la faccia nell'abbraccio di Lestrade. “I segni di strangolamento sono leggeri, però,” continuò John, guardando le tracce più da vicino, “non sono stati impressi con particolare forza.”

“Cosa intendi?” lo sollecitò Sherlock.

“Sembra sia stato strangolato con poca intensità,” chiarì John, “certo, abbastanza per soffocarlo, ma il trauma cutaneo è leggero e ridotto. Come se fosse stato strozzato da una persona debole o da una persona non nel pieno della propria forza, sicuramente non un adulto, magari proprio un altro bam-”

“Sono stata io!” urlò la signora Larson, liberandosi dalla presa di Lestrade e interrompendo la spiegazione di John.

“Cosa dice? Non ha senso,” la contraddisse Sherlock.

“Stia zitto, è così!” urlò di nuovo la donna, “Dio mio, sono stata io a uccidere mio figlio!”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: Le cose che si è disposti a fare per amore.

 

***

 

Nota dell'autore: Capitolo più lungo del solito, spero non vi dispiaccia, ma volevo cercare di ispezionare per bene la psicologia di John e quello che gli sta passando per la testa, così da iniziare a conoscere anche il suo punto di vista, e allo stesso tempo dovevo incominciare il nuovo caso e delitto. Fra l'altro, il capitolo è stato scritto a più riprese fra i fumi della febbre, quindi spero che abbia senso, ma non ci giurerei. Grazie mille ai miei fedeli recensori CreepyDoll, mikimac, emerenziano, adlerlock, Hotaru_Tomoe e ilovehismusic che mi supportano sempre con i loro adorabili e acuti commenti, che sono davvero preziosi per me, e un abbraccio anche a tutti gli altri che seguono la storia. Fatemi sapere che ne pensate dei nuovi sviluppi e se l'intreccio del nuovo caso vi stuzzica. A presto! :)

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: johnlockhell