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Autore: VirtualInsanity    11/04/2016    1 recensioni
"Qualche giorno fa, in un libro dalla copertina lucida di novità, ma per qualche strano motivo logoro, esausto all'interno, una sola parola restava da leggere, e l'ho letta. Litost. Volevo insegnarti cosa significa, allo stesso modo in cui io avevo provato a insegnarlo a me: 'lo stato di tormento provocato dall'improvvisa realizzazione della propria miseria'. Volevo insegnarti a non capirlo."
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Volevo scrivere di Alec e Magnus dalla prima volta che li ho incontrati, ma dovevo essere pronta, anche se non capace, e ieri lo ero un po’ di più del solito. Purtroppo ho la cattiva abitudine di scrivere roba angst, chiedete scusa da parte mia alle vostre emozioni positive, tutte quante, e fatele tornare appena raggiungete l'ultimo punto di questo scritto, mi raccomando. Gli avvertimenti che ho messo dovrebbero essere in parte giusti, manco da tempo su efp, purtroppo. Comunque, tiene conto di tutti i libri. Questa qui sotto è una pseudo lettera che Alec Occhi Belli lascia a Magnus in vista della morte (ho la dote della sintesi!!). Spero che vi piaccia, perché ci tengo più di quanto il mio cuoricino voglia ammettere, e vorrei tanto sapere cosa ne pensate. Dopo andatevi a leggere una bella lemon, come minimo!
Un bacio, e buona lettura, 
Malù





Armi. Il tuo nome ha lo stesso codice dei miei doveri: le sue leggi, la sua patria, il suo linguaggio, la mia caduta, il suo pericolo, la mia caduta. Ero una storia in attesa, scritta dalla fine, sconvolta dalla brutale essenza "di questo mio eterno incespicare". Non ti ho mai raccontato di come le maniere delle ombre erano stati di assedio nella mia stasi, prima di te, né di come la mia tenerezza fosse un fatto tutto tuo, nato e allevato dalla sagacia dei tuoi anni, e dei tuoi cuori sparsi in essi. Posso sentire, adesso, come prima di te fosse prima di me, dell'esistenza di un'ingiustizia casuale che ci ha permesso di vivere il poi senza sapere del mai, neppure tu, che eri l'oriente in una notte ancora spenta. Hai le dita sulle mie clavicole, dando le spalle al futuro e alle menzogne delle aspettative, mentre scopro l'argento tra i miei capelli per la prima volta, e gli occhi hanno il velo d'acqua degli alibi mondani; mi ricucisci un arto, mentre le ossa si ritraggono e la pelle si allunga senza inghiottirne l'eccesso, narrandomi di quando hai cercato di curare Mozart, quasi trecento anni prima, “perché meritava di ruggire ancora”. Quanto l'ho invidiato, Magnus: è già morto, mentre io sto ancora aspettando.
Non ti ho mai detto quant'è stancante non ringiovanire, e di quant'è bello vederlo accadere in te. Avrei potuto dire incantevole, magnifico, estasiante, eppure è semplicemente bello, in quel prestigio infedele che fu sottratto al termine. Come a noi. Non credo che te lo dirò mai, in ogni caso. Le mie omissioni erano le tue scoperte preferite, e chissà se te le avessi dette cosa sarebbe cambiato. Penso che non mi importi, penso che essere in te basti per nascondere solo ciò che non è nostro, e quindi una grande parte di niente. 
Ho pagato il mio sangue quando Edom ti ha trascinato nelle ali di tuo padre, quando Tessa ha calato dignitosamente le palpebre sulle lacrime ormai sepolte di Will, quando ho pregato che mi rifiutassi e schiacciassi, che la devastazione mi insegnasse ad invecchiare per meritarti, che il bianco delle mie vene sfumasse nel nero della disfatta di Raziel. Ora il tempo non c'è, non c'è, non sa di qualcosa.
Fermati un attimo, Magnus, aspetta. Non me, non ce ne sarebbe motivo, i tuoi passi sono io: aspetta il tempo. Io lo faccio spesso, quando Max e Raphael imparano a lottare, le gambe un po’ più lunghe di ieri, quando la luna ti restituisce per un attimo la magia di non possedere nessuna magia, quando guardo me stesso e la quiete mi ridà mio fratello. Vagabondo tra ciò che sento di saper sentire, in certe cose che vedo nascere e subito morire, in tutto ciò che questa terra riesce a finire. Qualche giorno fa, in un libro dalla copertina lucida di novità ma per qualche strano motivo logoro, esausto all'interno, una sola parola restava da leggere, e l'ho letta. Litost. Volevo insegnarti cosa significa, allo stesso modo in cui io avevo provato a insegnarlo a me: ‘lo stato di tormento provocato dalla improvvisa realizzazione della propria miseria’.  Volevo insegnarti a non capirlo. Cosa è la miseria? Può essere una cosa qualsiasi, Magnus, qualsiasi, a te non è dato saperlo, perché se non lo sai non la eviti e non la incontri: la annulli. Perché il contrario di qualcosa è spesso più forte della cosa stessa, e tu sei tutto ciò che litost non sarà.
Mi alleno a non dimenticare, allora, a non permetterlo a te, quasi sempre come un ladro. Le tue strade, ricordale per me, ti dico nel momento in cui sono certo che puoi capirmi senza sentirmi, l'impronta dei tuoi anelli sul mio stomaco quando facciamo l'amore, ricordala per me, le insicurezze di Isabelle, conservale per me, le anime di Jace, tienile per me, le vite dei nostri figli, guidale per me, il mio cinta proteggilo per te, perché per me non ce ne sarà più quando sarà troppo.
Ti guardo pensarmi, da dietro le lame di egocentrismo di casa nostra, sto salendo le scale, la porta fa di te il suo più bel dipinto, il respiro mi comprime, mi cola fin sotto i piedi inciampando nei singhiozzi della stanchezza. Tu lo senti. Ma non ti alzi, non mi vieni incontro, non mi accompagni, per farmi capire che ce la faccio, che il passato - che sono io, quello che passa, quello che sta passando - non si sta esaurendo, ma è forte, più forte del fuoco di un amante e della sua compassione. Che sono più forte di te, intanto che la realtà rimanda ancora. Sono più forte di te. Non ho mai voluto esserlo, in realtà, nonostante lo sia stato più di quanto avrei dovuto. Più forte di te per te, l'alfabeto dei miei drammi, le combinazioni dei miei segreti, le favelle degli angeli che siamo diventati, più profani di questi attimi alla deriva. 
Ciao, Magnus, sono Alec, tuo marito, sono io in questa banalità che crolla e finge di non sapere. Sto scrivendo sul tuo corpo quello che questa carta non potrà dare, sto tracciando una mappa senza conoscere i confini, sulle sporgenze della tua vita che è la cronaca di quella che un giorno vorrei fosse la mia, per darle un seguito, un senso, una via. Stai sorgendo in me, quando continuo a impararti a memoria e l'ultimo verso mi sfugge, come sfugge il miracolo azzurro delle stregonerie dalle tue mani sottili, mentre gridi e laceri il mio nome. Piangi con l'incostanza dell'oceano, tra le cosce bagnate d'acqua e di freddo, nascosto dovunque io possa trovarti.
Come fanno, Magnus? Come fanno a vivere, essere, esistere, tutti o alcuni, fuori o al di là, ancora una volta o senza fiato, via da qui o legati stretti, a vedersi morire negli altri?
Gli anni sorreggevano gli spettri, i Cacciatori, i Nascosti, e noi facevamo pratica con l'eterno, scordando di essere ancora tutto questo. Abbiamo peccato in tante cose, in alcune così tanto che non ci è stato permesso di tornare indietro, ma siamo e continuiamo ad essere nella sicurezza che solo gli errori irrimediabili possono dare, laddove la felicità ci scruta con gelosia e incanto. So che posso amarti senza respirare, che la guerra era quando non ti amavo ma respiravo meglio, e non mi spaventa nulla della fine se non tu. Il modo in cui costituisci un problema, soltanto il mio, in cui indossi il colore del mio sguardo per poter combaciare solo con lui, in cui mi ami e ci aiutiamo ad amare, in cui fingi lealtà ad un destino che ancora mi vuole. Come posso risolvere l’ignoto? Diventare, l'ignoto.
Mancherai come la conoscenza a chi non sa più imparare, come tutti a chi non ha nessuno, come la bellezza alla bellezza, “come Magnus Bane è mancato ad Alexander Gideon Lightwood”, diranno. Sarai le parole in chi non ha mai parlato, per me, quando ti dissi guarda, Sommo Stregone, abbiamo avuto il coraggio di contenderci la vita, e mordendomi una guancia, "Vinco io", mi dicesti, e vincesti tu per davvero. Hai vinto tutto tu, amore mio. Ma una cosa sono riuscito a rubartela: la perdita. Voglio perdere io, Magnus, lasciala a me, tieniti tutto, ma lei no, non puoi perdermi, non devi, e non lo farai. 
Prepara i ragazzi, la mia famiglia, i posteri a cui la nostra avventura sarà affidata antica e preziosa come una runa solo nostra, e prepara me, che ho i sogni fragili e modi ingenui. Come posso non lo so, non ho voglia di scoprirlo, accadrà, e tu sarai sempre in tempo per non permetterle di appartenermi quanto te. Poi, mi raccomando, basta così. Tienimi come una cartolina da lontano, sul comodino dei ricordi, soffiami via la polvere della nostalgia e amami in un rifugio da cui puoi entrare e uscire quando vuoi. Non ti lascio altri che te stesso, perché sei l'unica cosa che vorrei darti, e l'unica di cui vorrei avessi cura come fossi io. Sii anche Alec, per me. Magari meno paranoico, e senza abiti bucati, ma non eccedere nel glitter, ti prego. 
Un'ultima cosa, e poi lascio lo studio ai tuoi eccentrici incantesimi: ricordati così. Adesso, è lunedì, la tempesta si sta quietando tra le vene d’acciaio di Brooklyn, tieni i polsi poggiati contro le mie spalle ancora forti, zampillano l’energia della giovinezza ventitreenne, il mento appuntito tra i miei capelli, il motivetto della canzone sui culi del nostro primo appuntamento che accompagna la tua risata, ricca come polline, il pigiama maculato bianco e viola, il profumo invadente di sandalo che si distende tra la mia carne e la tua mentre mi chiedi cosa sto scrivendo, cosa sto osando vivere senza di te. “Del mondo”, ti sto per rispondere, dacci un attimo solo. 
Non avrei voluto vivere altrimenti, Magnus, te lo giuro. Amami, io non ho saputo fare altro. 
Fino alla fine, e oltre l'inizio,
Tuo Alexander.

Non volevo l'immortalità. Volevo, poi, solo ancora, ancora, ancora, ancora te.
   
 
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