Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Nephilim332    11/04/2016    1 recensioni
Sofia, una ragazza Milanese di appena 19 anni, ha una vita tranquilla: è bella, intelligente e il ragazzo più bello del suo corso di medicina stravede per lei. Ma la discesa all'inferno è facile, e lei lo capirà presto.
E' una storia a cui tengo tantissimo, per questo vi prego di recensirla e di farmi sapere cosa ne pensate. Per favore.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questa storia racconterò con un sospiro
Chissà dove tra molto tempo:
Divergevano due strade in un bosco, e io…..
Io presi la meno battuta,
E di qui tutta la differenza è venuta.

Robert Frost



A volte il tempo sembra scorrere così in fretta che quasi ti lascia indietro, in balìa della tempesta. Non riesci a capire se sia più forte il rumore del vento o lo scrosciare della pioggia, che batte costantemente e ripetutamente contro i vetri e i tetti delle automobili.

Non nego che ci sia un certo fascino nella tempesta, come in tutto ciò che fa paura. Come in un maremoto. In uno tsunami. In un uragano.

Se all’età di diciotto anni mi avessero detto che la mia mente, dopo aver percorso insieme al mio corpo una strada costellata di ostacoli, avrebbe iniziato a formulare pensieri del genere, non c’avrei creduto. Perché siamo portati a riflettere sulle cose solo quando sono ad un passo da noi; se sono appena un po’ più distanti dal punto in cui ci troviamo, cominciamo ad ignorarle, a ritenerle semplicemente irraggiungibili, come se fra noi e loro ci fosse qualcosa di più immenso del cielo. Siamo esseri dotati di ragione, ma che non sanno ragionare. Io non sono un’eccezione. Ho ragionato un’unica volta nella mia vita; ed è stata proprio quell’azione a condurmi alla fine del mio percorso, alla fine della mia vita. Ho ragionato; sono quasi morta. Sì, quasi. Non è una bella storia, ma è la mia. Piacere, comunque. Il mio nome è Sofia.

Durante l’autunno dei miei diciannove anni, iniziai a frequentare l’università. Scelsi la facoltà di medicina perché ho sempre coltivato il desiderio di aiutare gli altri concretamente, motivo per cui esclusi psicologia a priori. I primi esami andarono nel migliore dei modi: un ventisette e un trenta. Ricevetti i complimenti dai miei genitori, dagli zii, dagli amici di una vita.

Le cose iniziarono a cambiare dopo circa due mesi.

All’università, in aula, a due posti da me, sedeva un ragazzo con cui scambiavo qualche occhiata ogni volta che ne avevo la possibilità. Aveva gli occhi molto chiari, quasi trasparenti, e i capelli di un castano dorato. Ricordo ancora la prima volta che gli parlai: il suo sguardo rimbalzava dal professore al libro come una pallina da pin pong che passa da un lato ad un altro del tavolo. Mi venne da ridere e lui mi sentì; mi guardò e, con le labbra, articolai “394”. Trovò la pagina e mi ringraziò con un sorriso.

Alla fine della lezione il ragazzo si presentò. Il suo nome era Davide. Era alto e atletico, ma non era uno di quei tipi da palestra tutto muscoli e niente cervello, anzi. Lo trovai subito simpatico e affabile, il tipo di ragazzo che fa innamorare tua madre e sopprime gli istinti da omicida di tuo padre. Mi chiese se mi andasse un caffè; accettai. Iniziò tutto da lì.

In quattro mesi Davide mi fece provare così tante emozioni che non riuscirei a descrivere neanche se volessi. Con lui era sempre passione, adrenalina, una sfida continua. Inizialmente lo trattai con indifferenza. Per quanto fossi sicura di piacergli, non potevo rischiare di essere delusa ancora. Volevo dimostrazioni concrete, e lui me le diede: mi riempiva ogni giorno di frasi dolci e di regali, di rose rosse e lettere d’amore; per festeggiare il nostro primo mese mi portò addirittura in mongolfiera. Quella fu davvero una bella avventura: ricordo che pensai di poter toccare le nuvole e sentirne la morbidezza che in realtà non è una delle loro qualità; guardavo il cielo e pensavo che mi sarebbe piaciuto tanto poter volare ancora più in alto, fino al sole, senza scottarmi mai. Con Davide al mio fianco, magari, che mi guardava con quella dolcezza che ogni volta riusciva ad abbattere tutte le mie difesa senza alcuno sforzo. Tra le sue braccia mi sentivo al sicuro, protetta da tutto e da tutti.

Nel Simposio, Platone racconta di un tempo in cui, sulla terra, oltre che agli uomini e alle donne, esisteva un altro tipo di essere umano: l’androgeno. Gli androgeni erano esseri tondi aventi caratteristiche sia maschili che femminili. Erano molto potenti, e ciò li spinse a tentare la scalata all’Olimpo. Zeus, per punirli, li divise a colpi di saetta. Divisi, gli androgeni persero gran parte del loro potere, e da allora sono alla ricerca costante della loro unità. Io avevo trovato la mia metà; l’anima gemella; la parte mancante del mio cuore. Lo dissi a Davide, un giorno, e lui mi sorrise; lo stesso sorriso che aveva usato quattro mesi prima nell’aula dell’università. Poi mi disse di amarmi e l’unica cosa che riuscii a fare fu baciarlo, perché lo amavo anche io. Lo amo anche io. Nonostante tutto.

Passò un anno in un battito di ciglia o in uno sbatter d’ali di farfalla. Per il nostro primo anniversario Davide decise di portarmi a Parigi, la città dell’amore. Fu bellissimo vederlo tentare di farsi capire dai francesi, lui che, da studente di medicina, parlava l’italiano e conosceva a stento qualche parola inglese. Il panorama, poi, era stupendo: il sole brillava su di noi, e la città era così bella nella sua semplicità che me ne innamorai. Mi baciò sotto la Tour Eiffel, e tra un bacio e l’altro non smise mai di dirmi “Ti amo”. In francese, ovviamente. Risi tanto, e notai che le persone intorno a noi, nonostante avessero quasi tutte un partner al loro fianco, ci guardavano con occhi sognanti. Forse il nostro amore era così forte e genuino che chiunque ne avesse un assaggio ne restava affascinato. O forse eravamo solo noi che, accecati dai nostri sentimenti, vedevamo il mondo più bello di quanto non fosse.

Tornati dal nostro viaggio, decidemmo che fosse l’ora di conoscere le rispettive famiglie. Ai genitori di Davide andai subito a genio. Il padre, Michele, è medico; sua madre, Giovanna, avvocato. Si conobbero durante un processo: lui fu chiamato come teste, e lei cercò di estorcergli informazioni che potessero avvalorare la sua tesi ad ogni costo. Alla fine del processo, il primo e l’unico che Giovanna perse, Michele le chiese di uscire e lei lo mandò a quel paese. Dopo cinque mesi si sposarono. I miei genitori non sapevano neanche che avessi un ragazzo, quindi quando lo videro e seppero che stavamo insieme da un anno, rimasero un po’… interdetti, sì. Ad ogni modo, dopo qualche minuto di confusione, lo invitarono in casa ed iniziarono a parlarci. Mia madre lo riempì di dolcetti; mio padre iniziò ad adorarlo quando si rese conto che era milanista (a Milano c’è sempre il rischio di incontrare un ragazzo che tifa Inter). Gli chiesero di restare per cena e lui accettò.

Che idillio, eh? Una studentessa e uno studente di medicina con ottimi voti; lui che la riempie di regali, tra cui gite in mongolfiera e viaggi a Parigi; lei che lo ama da morire; entrambi che vanno d’accordo con i rispettivi genitori. Ho detto che la mia non è una bella storia, vero? E infatti non lo è.

Questo era solo l’inizio.

Io e Davide riuscimmo a conseguire la laurea a venticinque anni. Demmo una grande festa in cui si riunirono tutti i nostri parenti; fra la schiera di quelli di Davide, mi colpì uno dei suoi numerosi cugini: Roberto. Aveva degli occhi color nocciola che stregavano, e denti bianchissimi che sembravano splendere in contrasto con la pelle olivastra. Ovviamente, non gli dedicai particolari attenzioni: per quanto potesse essere interessante, ero già innamorata. Alla festa non c’erano i miei genitori. A causa di un malore improvviso, papà aveva chiesto alla mamma di portarlo in ospedale per dei controlli veloci. La festa finì; loro non arrivarono. Provai a chiamarli centinaia di volte, ma entrambi i cellulari erano spenti. Preoccupata, tornai a casa. Non avrei mai pensato di trovare mia madre singhiozzare sulla spalla di mio padre.

Il mio papà aveva un tumore al fegato in fase terminale; gli restava una settimana di vita. Quando mi chiamò per dirmi addio, mi disse che aveva sempre creduto in me, che sapeva che avrei fatto la cosa giusta.

Io e Davide parlavamo di matrimonio, di figli, di una veranda dove avremmo preso la limonata ad ottant’anni, circondati da decine di nipotini. Dopo la morte di mio padre, non ne parlammo più. Al funerale di mio padre non smisi mai di piangere. Caddi in ginocchio davanti alla bara nera: mi sentivo lacerata dal dolore; fu quasi come se mi avessero strappato il cuore dal petto. Davide non mi abbandonò mai, ma certi dolori non possono essere né descritti, né placati, né cancellati. Quello fu solo il primo passo verso il mio Inferno.

Dopo appena due mesi dalla morte di mio padre, rincontrai Roberto, il cugino di Davide che mi aveva tanto colpita, in un bar in centro. Mi offrì una birra e parlammo per molto tempo. Non so perché, ma stare con lui, in qualche modo, mi confortava. Ma era un tipo di conforto molto diverso da quello che mi donava Davide: Roberto riusciva, in qualche modo, a distrarmi. Capii subito che era l’opposto di Davide: non aveva un briciolo di bontà in corpo.

Era proprio ciò che mi serviva.

Lo rividi il sabato dopo, e quello dopo ancora. Davide non lo sapeva, ovviamente.

Alla fine, io e Roberto uscimmo allo scoperto, rivelando a tutti che ci frequentavamo da circa tre mesi. Rimasero tutti sconcertati, ma non dimenticherò mai il dolore impresso negli occhi di Davide, che mi guardava come se avesse perso la cosa migliore della sua vita. Adesso, a distanza di due anni, posso dirvi che in realtà non ho mai smesso di amarlo, ma sapevo che non potevamo più stare insieme. La fiaba era finita; ora stavo leggendo un libro dell’orrore.

Di Roberto non sapevo nulla, neppure l’età precisa. Il rapporto che avevo con lui era esattamente l’opposto di quello che avevo avuto con Davide. Quest’ultimo mi aveva sempre rispettata, sorpresa e amata. Per Roberto ero solo un oggetto, non contavo nulla. E neanche lui contava nulla per me; ci ignoravamo per gran parte del tempo che passavamo insieme, non parlavamo di futuro, non provavamo neanche a volerci bene. Se dovessi descrivere cosa era Roberto per me direi che era semplicemente l’ostacolo che avevo piazzato fra me e Davide. Non avevamo mai neanche fatto sesso, e questo lo urtava terribilmente. Non ero vergine, ma nella mia vita ero stata soltanto con Davide. E non volevo che le cose cambiassero.

Ma le cose cambiarono, e non per mia volontà.

Roberto mi violentò.

Fu terribile. Mi spinse contro la parete e cominciò a riempirmi di botte mentre mi urlava contro epiteti orrendi. Mi spogliò e mi costrinse ad aprire le gambe, poi entrò dentro di me con una brutalità così intensa che mi si ruppe il respiro. Piansi. A lui non importava, e a me non importava sembrare una donna forte.

Dopo aver compiuto l’atto, mi guardò negli occhi e sorrise con cattiveria; subito dopo mi diede uno schiaffo e mi sputò in faccia.

Non sono nessuno per dire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Non sono Dio, e non sta a me giudicare. Ma ciò che mi aveva fatto Roberto non poteva essere giusto. Perché esistono uomini così? Perché ci trattano come oggetti da usare e poi gettare via? Ve lo dico io: perché li scegliamo noi. Io avevo scelto di stare con quel mostro per non far soffrire il ragazzo che amavo davvero. Avevo fatto del male a Davide solo per salvarlo.
Salvarlo da me stessa.

Restai immobile contro la parete della camera da letto di Roberto. Ero completamente nuda, tremavo come una foglia e piangevo. Passarono delle ore prima che riuscissi a trovar e la forza di rivestirmi e di lasciare quella maledetta casa.


Stupiti, vero? E perché? Ve l’avevo detto che stavo percorrendo la via che conduce all’inferno.

I mesi seguenti furono un enorme buco nero: non mangiavo, restavo chiusa in casa, non rispondevo a nessuna telefonata. Avevo il labbro inferiore gonfio; un occhio nero e un lungo graffio su una guancia. Mia madre a stento mi parlava, delusa dal mio comportamento. Non sapeva della violenza che avevo subito da parte di Roberto; nessuno lo sapeva. Credevano tutti che l’avessi lasciato, un’altra delle mie innumerevoli stronzate. Avrei tanto voluto alzare la cornetta e chiamare Davide, l’unico che sapevo mi avrebbe capita e confortata come aveva sempre fatto; l’unico che avrebbe notato le mie ferite sia fisiche che psichiche e le avrebbe curate. L’unico che avrebbe cercato Roberto fino in capo al mondo e lo avrebbe ammazzato, se fosse stato necessario. Iniziai a piangere e darmi della stupida: ero sempre stata una persona egoista, ma avevo lasciato Davide credendo di compiere un gesto altruista: non volevo che la mia autodistruzione distruggesse anche lui. Si vuole sempre il meglio per chi si ama, no? Avevo fatto la cosa giusta per lui, non mi importava di me stessa.

Iniziai a prendere degli antidepressivi, un giorno, ma mi sentivo sempre peggio. Esagerai con i farmaci ed andai in overdose.

Seguendo il consiglio dei medici, che mi dimisero solo quando il mio corpo fu totalmente ripulito dalle pillole che avevo assunto come una droga, mi rinchiusero in una clinica psichiatrica, che in realtà è solo un altro nome per definire i manicomi che, teoricamente, non esistono più. Le pareti erano tinteggiate di bianco; le mattonelle del pavimento erano bianche; i letti avevano lenzuola bianche e i pazienti, me compresa, indossavano camici bianchi.

Mi venne quasi da ridere, alla vista di quei poveri malati di mente che restavano in silenzio, alcuni osservando il vuoto, altri dondolandosi avanti e indietro con le gambe strette al petto.

I due anni che ho passato chiusa qui dentro non mi hanno giovato affatto. L’unico raggio di sole delle mie giornate sono state le visite settimanali di Davide. Non gli parlavo mai, non perché fossi, alla fine, davvero diventata matta, ma solo perché se lo avessi fatto gli avrei chiesto scusa, lo avrei implorato di portarmi fuori di lì, gli avrei ripetuto “ti amo” infinite volte. E lui mi avrebbe portato a casa, e mi avrebbe perdonata, e mi avrebbe amata come non ha smesso mai di fare. Il punto è che io non lo meritavo, non lo merito. Avevo fatto tanto per salvarlo, non potevo mandare tutto all’aria. Un giorno, a maggio, Davide mi raccontò una storia:

C’era una volta un ragazzo, un idiota colossale, che un giorno, ad una delle sue lezioni di medicina, non riusciva proprio a capire di cosa stesse parlando il professore. Una ragazza, bellissima, con gli occhi di un blu notte che dentro ci potevi vedere le stelle, lo aiutò, indicandogli la giusta pagina da seguire. L’aveva già notata da tempo, ma non aveva mai trovato il coraggio di parlarle. Al termine delle lezioni, le chiese di andare a prendere un caffè, ma già sapeva di essere stato fottuto da quegli occhi e sapeva che si sarebbe innamorato come non pensava sarebbe mai potuto succedere. Lei accettò e per il ragazzo fu la giornata più bella di sempre. Lei non beveva caffè, così lui le ordinò un frappè al cioccolato; mentre lo beveva gli raccontava la storia della sua vita, le piccole delusioni subite a causa dei suoi ex ragazzi, di amiche che l’avevano delusa, di altre che invece le erano state accanto fino ad allora. Il ragazzo non parlava, ma non perché non avesse niente da dire; semplicemente, amava il suono della sua voce. E delle cose che si ama, non ci si stanca mai.”

Piansi tanto, alla fine del racconto, e capii l’intenso dolore che provava Davide sia perché glielo leggevo negli occhi, sia perché era l’eco del mio. Quel giorno non resistetti: mi avvicinai a lui lentamente e gli circondai le braccia con il collo; lui mi sollevò un po’ da terra e sentii i singhiozzi scuotergli il petto.

Sapevo di essere orrenda, con i capelli biondo scuro che somigliavano ad un nido e le occhiaie violacee sotto gli occhi, ma non importava né a me né a Davide. Rimanemmo così, con i cuori che battevano in sincrono, per un tempo lunghissimo. Ad un certo punto, mi sussurrò la cosa più dolce che mi abbia mai sentito uscire dalla sua bocca, e di cose dolci me ne ha dette tante: “Sei sempre la mia anima gemella” disse “e so che non puoi smettere di amarmi, così come io non posso smettere di amare te.”

Non gli risposi neanche quella volta, ma gli sorrisi. Non sorridevo così dal nostro viaggio a Parigi.


Ero costretta a vedere ogni santo giorno una psichiatra. Mi faceva tante, troppe domande. Un giorno, stanca di sentirmi ripetere che non collaboravo, le dissi ogni cosa. Tutto, dal principio alla fine.

Il mio declino era iniziato dalla morte di mio padre, l’uomo che mi leggeva le favole, che mi portava in spalla, che mi ripeteva ogni giorno quanto fosse fiero di avere una figlia che sarebbe stata una dottoressa, capace di salvare decine, forse centinaia di vite. Eppure io, sua figlia, non ero riuscita a salvarlo. La mia tesina di laurea riguardava proprio la malattia che aveva ucciso mio padre: un tumore al fegato. Mi ero laureata con 110 e lode, cazzo! Avrei dovuto scorgere i sintomi, aiutarlo, donargli qualche anno di vita in più, magari. O anche qualche mese. Ma ero troppo occupata, troppo presa dai miei impegni e dalla mia storia d’amore. Sapevo che in realtà non era colpa mia, che il destino di mio padre era già stato scritto e che non avrei mai potuto curarlo, ma mi sarei sentita sempre colpevole. Sempre. Per questo non avevo cercato lavoro; per questo avevo lasciato Davide, che avrei contagiato irreparabilmente. Avevo cercato di farlo soffrire stando insieme al sangue del suo sangue affinché mi odiasse. Poi Roberto mi aveva violentata, e Lucifero mi aveva accolta, dopo una lunga discesa, nel suo mondo. Ma Davide non mi ha mai odiata. Tutti i miei tentativi di allontanarlo hanno sempre fallito.
Ricordo che la dottoressa mi guardò con un’espressione a metà fra il sorpreso e il dispiaciuto. Io non trapelavo alcuna emozione, ormai troppo distaccata dalla schifosa realtà che mi circondava. L’unico punto fermo restava il mio Davide, che rimaneva lo stesso nonostante i tempi cambiassero. Nonostante io cambiassi. Eppure non riuscivo a sopportare che per colpa mia stesse rinunciando al suo futuro. Non aveva intenzione di innamorarsi di nuovo né di avere figli. Aveva cancellato l’idea di bere limonata in veranda circondato dai nipoti. Sapevo che l’unico suo desiderio era starmi accanto, anche se ciò implicava vedermi una volta a settimana in uno stato pietoso in un luogo ancora più pietoso. Non merito quel ragazzo, poco ma sicuro. Lui è e sarà sempre l’emblema della bontà, ma devo liberarlo, sciogliere i nodi che lo tengono legato a me.

Siete arrivati fin qui, eh? Complimenti. La mia storia era abbastanza tragica come avevo preannunciato? No? Oh… ma non è finita qui.

Avevo detto di essere quasi morta, ricordate?

Ho 28 anni. Sono nel bagno della stanza 394. È la stanza di un ragazzo che ha assistito all’omicidio di sua madre e che, da allora, continua ad avere incubi che lo conducono in strani stati di trance.

Ogni sei mesi Laura, una donna di circa cinquant’anni che ha più problemi di tutti noi rinchiusi qui dentro, viene a tagliarci i capelli. È molto sbadata, e ieri sono riuscita a sottrarle un paio di forbici mentre lei continuava a lamentarsi della sua misera vita. Si lamentava della sua vita con una ventottenne rinchiusa in manicomio!

Sono accanto alla vasca da bagno; la porta è bloccata da una sedia malridotta. Sento delle grida al di là di essa, ma sono voci che non mi sono per niente familiari.

Stupidi infermieri ficcanaso.

Avvicino le forbici al polso sinistro, ma poi sento una voce che mi fa sobbalzare. È Davide. Continua a gridarmi di non farlo, continua a ripetermi che mi ama, che mi salverà lui. La sua voce mi scalda il cuore; sto sorridendo, perché sto compiendo quest’azione proprio perché è mia speranza salvarlo. Lui non potrà mai salvare me.

Taglio con decisione prima il polso sinistro, poi, con qualche difficoltà, quello destro. Il sangue comincia a scorrere a fiotti. Non so come e con quale forza, ma riesco ad utilizzare il liquido rosso per lasciare un messaggio a Davide.

Nel frattempo, vedo scorrermi davanti tutti i momenti belli della mia vita: evidentemente Dio ha deciso di cancellare quelli brutti perché ne avevo vissuti troppi e troppo spesso. Vedo me e il mio papà al parco, lui che mi lancia in aria e poi mi riprende fra le sue braccia. Ad un certo punto mi sussurra: “Sapevo che avresti fatto la cosa giusta.”; vedo la mia mamma, che amo ancora tanto nonostante non abbia capito quanto dolore covassi dentro, guardarmi mentre mi chiede di perdonarla. Certo che ti perdono, mamma, come tu hai perdonato me infinite volte. Rivedo le amiche di infanzia che mi hanno accompagnata per quasi tutta la mia vita, che avrebbero dovuto essere presenti il giorno del mio matrimonio e al battesimo dei miei figli. E poi vedo Davide, ma non è un ricordo. È una visione. Dio esiste, e posso assicurarvi che mi sta facendo un enorme regalo: mi fa vedere un pezzo di futuro, un futuro
che non potrò vivere in prima persona. Davide è accanto ad una bambina in una culla; lei piange e lui cerca di farla sorridere.

La chiama Sofia.

Non è sua figlia; l’ha adottata.

Ha gli occhi blu e i capelli sono un groviglio biondo scuro. È identica a me.

Non riesco a dirvi quanto sia felice in questo momento. Davide deciderà di far entrare una donna nella sua vita, una piccola bimba a cui donerà tutto l’amore che ha sempre riservato a me. Amerà quella che sarà sua figlia a tutti gli effetti, quella che dirà essere figlia sua e della sua anima gemella. E lei amerà lui, perché non si può non amare una persona così bella, la cui essenza brilla più di quella degli Arcangeli. Riesco a percepire che fra loro è stato amore al primo sguardo, e non riesco a non pensare che sono riuscita a realizzare il mio scopo: ho salvato Davide. I mezzi che ho usato per raggiungere tale fine sono discutibili, ma cosa importa? Sarà felice; non avrebbe potuto esserlo con me. Per quanto lo ami, sapevo da tempo che il nostro percorso si sarebbe concluso qui. Non eravamo destinati ad invecchiare insieme, ma era nostro destino amarci con ogni parte di noi stessi. E l’abbiamo fatto entrambi. Perciò so che mi perdonerà subito dopo aver compreso che ogni azione apparentemente priva di senso aveva come fine ultimo donargli la vita che meritava. E non è da trascurare che anche quella piccola bimba sarà felice. Riesco quasi ad immaginarla fra le mie braccia, mentre Davide guarda entrambe. Non accadrà mai, ma sto morendo, e voglio che sia questa l’ultima cosa che vedo.

Quando l’ultima goccia di sangue fuoriesce dal mio polso sinistro, sono ormai morta. Cerco di sorridere; adesso posso dire che ho ritrovato la felicità perduta anni fa. La mia vita era diventata un fardello troppo grande da portare, ma sono stata una stupida a pensare che Davide non mi avrebbe salvata; lo ha fatto e come. Osservo per un secondo le due parole scritte col mio sangue, perfettamente visibili sul pavimento bianco:

ANIMA MIA”.

Addio.









NOTE DELL'AUTORE
So che molti di voi odiano scrivere recensioni, ma credo che se siete arrivati fin qui sono riuscita a trasmettervi qualcosa con questa storia. Mi piacerebbe tanto leggere le vostre opinioni, uno scrittore ne ha sempre bisogno. Vi ringrazio, baci. 💝
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Nephilim332