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Autore: silviaoceanomare    14/04/2016    0 recensioni
L’amore è un sentimento bilaterale, ambivalente; può salvarti e dannarti, benedirti e maledirti.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Una volta, in una città del sud dell’Italia, non si sa come e in quali circostanze, Antonio e Clelia, due ragazzi come tanti, figli di contadini e contadini a loro volta, si incontrarono e, prima o poi, si innamorarono. 
Si sposarono, nonostante il periodo difficile, la guerra che incombeva in quegli anni, le scarse risorse di bisogni di prima necessità, dopodiché ebbero dei figli. Ai tempi si venivano a formare famiglie numerose, non esistevano i preservativi, la spirale, la pillola del giorno dopo o qualsiasi altro metodo contraccettivo di oggi. L’azienda agricola esigeva di manodopera nei campi, sennò poi come lo portavi il pane a casa? Per questo i pargoletti che loro misero al mondo furono ben undici.
Salvatore, il più grande, due pezzi di cielo negli occhi, era anche il più sensibile, il più protettivo. Sapeva anche essere spiritoso, trovava sempre il modo di prenderti in giro ma di una presa in giro che non era maliziosa: lui ti prendeva in giro perché ti voleva bene. 
Sapeva anche essere spiritoso, sì, ma non era il più spiritoso della famiglia: ad animare le serate e le feste c’era Donato, uno dei suoi dieci fratelli, uno dei più grandi dopo di lui. A Natale Donato era quello che si riempiva il bicchiere con qualsiasi cosa e se la beveva; in questo modo incuteva il disgusto a chi assisteva alla scena, specie alle due sorelle, solo per il piacere di farsi una risata. Di solito, capitava che prendesse la buccia del mandarino e della noce e che se la mettesse nel bicchiere insieme al vino, per poi bersi tutto e, le più piccole della famiglia, le gemelle Dora e Pia, erano assai schizzinose: alla vista di quello che faceva Donato, infatti, erano capaci di scappare in bagno a vomitare. 
Donato, però, era anche il più furbo e sin da piccino si dimostrò tale. Ai tempi si cresceva in fretta, più di quanto non accada oggi, perché, viste le circostanze (spesso anche le donne andavano insieme ai mariti a lavorare nei campi) era necessario acquisire un senso di responsabilità che era quasi istintivo; le femmine erano la copia in miniatura delle proprie madri, si prendevano cura dei fratelli minori allo stesso modo, mentre i maschi andavano a lavorare sin dall’infanzia ed era di consuetudine che fossero i genitori a ritirare la loro paga. E così faceva Antonio, quando Donato lavorava da un artigiano e ne imparava il mestiere: si partiva alla fine della settimana e andava a ritirare i soldi. 
Il problema è che (e in questo consisteva la furbizia di Donato) quando arrivava dall’artigiano e gli chiedeva la paga, questi gli rispondeva che Donato se l’era fatta anticipare il martedì passato, il che significava che ormai, di quei soldi, non se ne sentiva più neanche l’odore cartaceo delle mille lire!
Quando il più furbo della famiglia si esibiva nei cenoni di Natale, facendo ridere mamma Clelia al punto che le sue mutande non riuscivano a rimanere asciutte, tutta la famiglia (genitori compresi) già si era trasferita al nord e Salvatore, Donato, Dora, Pia e tutti gli altri avevano anche fatto in tempo a formare ognuno la propria, di famiglia.
Anche Vincenzo, più giovane di Salvatore e Donato, due pezzi di cioccolato negli occhi, aveva formato la sua. Si sposò con Tina ed ebbe due figli: Toni e Rosi, due ragazzi che ben presto avrebbero visto la propria vita tramutarsi in una tragedia greca.
Pure Vincenzo era uno dei figli di Antonio e Clelia, ma quello che lo distingueva dai suoi fratelli non era la sensibilità, il senso di protezione, lo spirito, l’astuzia o lo sdegno. Quello che lo distingueva non era semplicemente la mancanza di volontà verso il sacrificio (poiché non ebbe mai la voglia di lavorare, tuttavia non fu l’unico tra tutti loro), ma anche quell’insolita tendenza nel voler scegliere la strada più corta e piena di sassi pur di non percorrersi qualche chilometro in più senza correre il rischio di inciampare. 
E Vincenzo inciampò tante volte pur di arrivare prima, il che lo fece arrivare prima degli altri per davvero, sì, ma nel posto sbagliato. Furono tanti, infatti, i posti sbagliati che Vincenzo frequentò, vie sbagliate che lo portarono a persone altrettanto sbagliate, imbrogli che lo fecero inciampare per sempre senza la possibilità di potersi rialzare, solo di rimanere a terra con i piedi insanguinati. 
Vincenzo non ha mai avuto la voglia di lavorare ma, non si sa come, è sempre riuscito a procurare il lavoro agli altri. Nel corso degli anni, infatti, riuscì a comprare una fattoria, un bar, dei tir e a dare da lavorare ad amici e parenti. Era un uomo dalle giornate tranquille e dalle serate movimentate, gli piaceva fare la bella vita (come a tutti, del resto), non si preoccupò mai di poterci rischiare la pelle; frequentava locali lussuosi, gente importante, passava le serate nei casinò in compagnia di uomini ricchi e varie donne, tra cui una: una modella, nient’altro oltre a questo, si sa. Sennonché, pare, da lei abbia avuto un figlio illegittimo che chiamarono Francesco.
A Vincenzo non dispiaceva fare quello che faceva o forse, sì, gli spiaceva farlo ma probabilmente non gli dispiaceva abbastanza da smettere, perché si diceva dentro di sé che quello fosse l’unico modo per guadagnarsi da vivere, bene e in fretta; e al diavolo i rischi, i sentimenti, al diavolo la morale.
La morale, quella che invece faceva pesare a sua figlia, Rosi, alla quale raccomandava in modo insistente che sarebbe dovuta essere una brava moglie: quella che deve portare rispetto al marito, quella che deve accondiscendere al suo volere per il bene della famiglia, dei suoi figli. Vincenzo era uno che predicava bene, ma che razzolò male: e per questo ci rimise.
Così, un giorno, accadde qualcosa di sconvolgente, ma prima di parlarne è bene che io mi preoccupi di dichiarare un fatto: un giorno lui comprò un’automobile e la intestò a Salvatore, il fratello maggiore. Se io mi limitassi a dichiarare questo fatto senza specificare le conseguenze che ebbe, apparentemente non sarebbe un particolare essenziale per la mia storia; purtroppo, invece, direi sia la scintilla che fece scoppiare l’incendio.
Accadde qualcosa di sconvolgente, un giorno. Successe a casa di Salvatore, due pezzi di cielo negli occhi. 
Successe che nessuno suonò al citofono, o bussò alla porta, eppure entrò qualcuno e non di soppiatto, e non senza far rumore, e non senza mettere a soqquadro quell’appartamento. Accadde senza avviso. 
Accadde che la polizia arrivasse a casa e arrestò Salvatore. Lo accusarono di traffico di droga. 
Nella macchina a lui intestata, acquistata qualche tempo prima da suo fratello Vincenzo, trovarono un’ingente quantità di stupefacenti. Fu così che si scoprì, effettivamente, quali carte Vincenzo stesse giocando. 
E, si sa, facendo riferimento al concetto di moderazione secondo Aristotele, l’uomo virtuoso non è né quello vile, né quello spavaldo; l’uomo virtuoso non è né quello smoderato, né quello limitato. L’uomo virtuoso è quello coraggioso, quello moderato. 
Giocando col fuoco ci si rischia di bruciare, e Vincenzo stava sfidando l’ironia del destino. 
In ogni caso, Salvatore fu rilasciato e poté quindi ritornare a casa dalla sua famiglia. Vincenzo, nel frattempo, non si sa come, sta di fatto che rimase illeso da quest’evento di cui fu colpevole. Ma, come si suole dire, la vita alle volte ti sorprende senza che tu possa essertela andata a cercare; altre, invece, lo fa all’improvviso proprio perché tu sei andato a infilarle il dito nella piaga.
Toni era un ragazzino per certi versi ribelle e trasgressivo, facilmente condizionabile e attratto dal pericolo dovuto alla curiosità (naturale alla sua età, d’altronde, perlopiù per via del quartiere in cui abitava e dei coetanei che frequentava); per altri versi, invece, era molto fragile e sensibile, affezionato a suo padre in modo speciale.
Fu quest’affetto smisurato per suo padre a dargli il colpo di grazia. L’amore è un’arma a doppio taglio. 
L’amore è un sentimento bilaterale, ambivalente; può salvarti o dannarti, benedirti o maledirti.
L’amore per suo padre, prima benedì Toni, poi lo maledì. L’amore per suo padre portò Toni a seguirlo ovunque, anche lungo la strada della perdizione, lungo la strada della dannazione. Una strada apparentemente priva di pietre taglienti, ma in realtà piena di ghiaia che anche se la pelle non te la apre, te la buca un poco alla volta; che anche se i tagli non li vedi, il sangue inizia a uscire piano per poi non smettere se non all’ultima goccia.
Non fu la stessa, la strada in cui si perse Vincenzo e poi suo figlio Toni, ma strade di quel tipo hanno tutte la medesima meta. 
Prima toccò al padre, poi al figlio. Al padre ingannarono fuochi fatui, luci e bagliori che da lontano gli parvero stelle cui far riferimento la notte, quando diviene molto difficile orientarsi. Li raggiunse, convinto di poter volare nello spazio, invece si bruciò le mani.
Al figlio, infine, ingannarono morte speranze, siringhe e polveri che da vicino gli parvero medicine con cui curarsi da una malattia di cuore che, di fatto, è incurabile. Se ne servì, convinto di poter guarire; in realtà non fece che ammalarsi del tutto.
Vincenzo, o per meglio dire, quel che ne rimase, lo trovò un uomo che stava percorrendo la strada a passi moderati, in una corsa di resistenza col sudore tra la pelle e la stoffa dei vestiti.
Alla TV dissero qualcosa, sui giornali scrissero qualcosa; informarono dell’accaduto, ne diffusero notizia. Qualcuno conservò l’articolo in un cassetto, qualcun altro si ripromise di dimenticare l’accaduto come se davvero fosse possibile.
Dimenticare che una sera Vincenzo cenò fuori di casa, come spesso accadeva; che cenò in compagnia di qualcuno, qualcuno di losco o qualcuno di cui era illecitamente innamorato. Dimenticare che poi pagò il conto e probabilmente si ridiresse verso casa. Ma, soprattutto, dimenticare che fu lì, lungo il tragitto verso casa, che qualcuno lo colse di sorpresa e lo prese a calci e a pugni, mentre tutto il dolore faceva capolino dal primo all’ultimo osso. 
Man mano che s’infiltrava qualcosa – il dolore, qualcos’altro vi filtrava – l’anima, e Vincenzo era spacciato: non si torna indietro una volta addentrati in quei sentieri, non si può indietreggiare dopo aver fatto qualche passo di troppo.
Vincenzo era stato pestato a sangue perché aveva disobbedito a uno dei dieci comandamenti: desiderò una donna altrui, e questo gli costò la vita. Ciò che la Bibbia dice esser stato dettato da Dio, in fondo non è che ciò che caratterizza la natura umana, che è avida e crudele, che di umano non ha nulla, se non quel poco che è presente nelle persone deboli, quelle che subiscono le persone crudeli.
Non fu possibile per niente dimenticare, dopo quel che accadde anche a Toni, qualche tempo dopo. Non passò molto tempo, infatti, tra una disgrazia e l’altra.
Dopo la morte del padre, Toni uscì completamente da senno. Smise di andare a scuola, di frequentare la gente, di preoccuparsi per il proprio futuro, di interessarsi a tutto tranne che a una cosa: l’eroina. 
L’eroina, che lo fece finire agli arresti domiciliari. L’eroina, che lo condannò per sempre ad un’unica sentenza: “Per te questo viaggio si conclude qui. Hai sofferto troppo, e troppo dolore non rende la vita una vita vera, perché questa, per te, è una vita troppo artificiosa e dura. 
Alla prossima, se l’avremo.”
L’eroina, che a ogni dose in più corrispondeva un battito di ciglia in meno, un soffio di respiro in meno. L’eroina, che lo fece diventare siringhe e polveri e non un eroe, non l’eroe di se stesso.
Nessuno poté salvarlo: né sua madre, né sua sorella o qualche amico, qualche conoscente. Niente poté salvarlo, nemmeno l’affetto tremendo che provava per suo padre. 
Suo padre, che adesso non c’era più. Che senso avrebbe avuto continuare ad andare avanti senza suo padre, Vincenzo, due pezzi di cioccolato negli occhi, quello che l’aveva benedetto e maledetto al tempo stesso?
“A ucciderlo fu l’effetto dell’eroina…” potreste chiedere conferma.
“No. A ucciderlo fu l’affetto tremendo che provava per suo padre” vi risponderei.
L’amore è un sentimento bilaterale, ambivalente; può salvarti e dannarti, benedirti e maledirti.
Questa volta non saprei dire chi fu a trovare Toni, o per meglio dire, quel che ne rimase, ma vorrei che anche a voi fosse noto un aneddoto che gli riguarda.
Qualche tempo prima che l’ultima dose poté sottrargli l’ultimo battito di ciglia, l’ultimo soffio di respiro, accadde che, nonostante fosse costretto a rimanere rilegato in casa per via degli arresti domiciliari, decise comunque di uscire. Si calò dalla finestra e, camminando sui tetti dei palazzi, raggiunse la casa di qualcuno che non si dimenticò mai di lui.
Lui suonò al citofono, le chiese di aprirgli; lei gli aprì e, una volta arrivato davanti alla porta, lo fece entrare.
“Chissà” iniziò d’un tratto Toni, osservando la cucina di quella casa seduto davanti al tavolo da pranzo, “quante ore di lavoro ci vorranno per potersi permettere una cucina del genere…”
Lei, Rita, sorrise – dentro intanto si allagava. “Quanto vorrei non fosse capitato a te, tutto questo, Toni…” pensava, probabilmente. Le piangeva il cuore e l’anima, dallo strazio, le si dimenava dentro senza darsi pace. Proprio come suo padre, era la più sensibile.
Suo padre, che dopo tali perdite cadde in depressione. Non fu facile riprenderlo. 
Non fu facile riprendersi, non è facile riprendersi dalla perdita di tante piccole parti di te che, una dopo l’altra, se ne vanno.
L’amore è una forza ancestrale che tiene uniti quelli che lo provano. Ne dipendi irrimediabilmente. A ogni conquista personale corrisponde una conquista collettiva; a ogni perdita personale, corrisponde una perdita collettiva.
L’unione fa la forza: l’amore. 
L’unione fa anche la debolezza: l’amore. 
L’amore è sia forza, sia debolezza. L’amore ti salva, l’amore ti uccide.

   
 
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