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Autore: Honeymouth    15/04/2016    1 recensioni
Gli incubi hanno trascinato Pitchblack in un oscuro abisso. Il Signore degli Incubi è davvero scomparso per sempre, dilaniato dai suoi sottoposti? Oppure la sua mano aguzza tornerà per gettare nuovo scompiglio nel mondo degli uomini? Piuttosto che preoccuparsi per la salute dell’Uomo Nero, i Guardiani temono un suo ritorno e si preparano al peggio. Che cosa vorrà Pitchblack? Vendetta o risposte a domande che non sapeva nemmeno di avere dentro di sé?
Genere: Avventura, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«Ninna nanna, ninna oh, Questo bimbo a chi lo do? […] Lo darò all’uomo nero che lo tiene un anno intero.»

Filastrocca popolare italiana

Pitchblack ancora non credeva di stare per fare quello che stava per fare. Dopo l’ultima brutta esperienza, avrebbe dovuto essere estremamente codardo. Invece, la curiosità, la necessità di avere delle risposte fu più forte di qualsiasi incertezza. Del resto, si era introdotto nel regno di Dentolina già una volta in passato, non c’era motivo per dubitare che ci sarebbe riuscito anche questa volta. Certo, era stato aiutato ed aveva sfruttato un momento di distrazione della guardiana dei denti, ma credeva sufficientemente nelle sue capacità per non tirarsi indietro proprio in quel momento. Non si affidò agli incubi: sperava di poter trovare quello che cercava senza doversi confrontare faccia a faccia con la fatina dei denti e le sue piumate assistenti e non avere bisogno dei suoi tirapiedi. Da solo avrebbe celato meglio la sua presenza. L’incontro con quella ragazzina lo ossessionava. Era certo che non potessero esistere dei ragazzini così, tristi, sconsolati e disperati. Che qualcuno che credesse in lui, ma che di lui non avesse paura già c’era ed erano sempre di più. Erano bambini fiduciosi, allegri, entusiasti e indipendenti, dei piccoli esseri umani pieni di gioia e speranza. Avevano un atteggiamento così positivo verso la vita che era difficile potessero avere paura di qualcosa. A quell’età si sentono tutti così bene, in forze, in salute, che niente li preoccupa: si sentono invincibili. Immaginano di saltare fiumi di lava incandescente, di percorrere sentieri impervi, di scalare montagne verticali. Pensano soltanto a giocare e a divertirsi. Pitchblack li odiava, ma comprendeva la loro refrattarietà al suo potere. Quella ragazzina, invece, pur avendo un’idea così nera di se stessa e della vita, non aveva comunque paura. L’uomo nero voleva capire perché. Voleva capire perché le ricordasse qualcosa. Pitchblack per poco non si fece scoprire da un’assistente di Dentolina, in volo verso l’Australia. La piccola notò una fugace ombra nera che si muoveva, ma quando andò a controllare dietro al pinnacolo iridescente, non trovò nessuno. Pitchblack sospirò, guardandola allontanarsi, facendo capolino dal basamento inferiore. A testa in giù, cercò di orientarsi in quel luminoso dedalo di stalattiti vetrose e lampeggianti di luce. I colori erano abbaglianti, gialli, rossi, rosa. All’Uomo nero non piaceva quel posto: troppo vivo. La sua sagoma comparve su un’altra struttura di roccia e vetro, e poi su un’altra e un’altra ancora, saltando dall’una all’altra, di ombra in ombra, per arrivare al cuore del deposito. La prima volta che era stato lì, aveva rubato tutti i ricordi dei bambini, ma non aveva fatto molto caso a come erano stati catalogati. Per poco, nello spaesamento, non si fece scoprire di nuovo. Dentolina, dalla sua postazione, aveva notato un lampeggiare di occhi e aveva stretto i suoi, cercando di vedere meglio. Tuttavia, quella sfuggente apparizione fece appena in tempo ad essere notata che subito si era dissolta. Dentolina sentì dentro di sé una strana sensazione. Le piume sul suo capo si drizzarono, come in allarme. Intanto, Pitchblack osservava il movimento delle fatine. In quell’apparente caos, tutto era dominato dalla logica. Non ci mise molto ad individuare la zona in cui conservavano i ricordi della stessa regione geografica di Joey e ci mise ancora meno a trovare il suo contenitore. C’era poco movimento in quell’area, in quel momento della giornata: erano tutti svegli a casa di Joey. La parte asiatica invece, era in totale fermento. Qualche fatina disoccupata, per il termine del turno, vagava comunque da quelle parti. Pitchblack non voleva correre rischi. Lanciò una scheggia di sabbia nera verso l’area Europea, per distrarre le fatine. Il frammento si schiantò contro la griglia decorativa di un pinnacolo roccioso poco distante. Le fatine, preoccupate, corsero immediatamente a vedere che cosa fosse successo. Pitchblack, veloce come la notte, si avvicinò ai ricordi ed estrasse il contenitore di Joey. Lo afferrò e si nascose. Appena in tempo: qualcuna di loro aveva capito che c’era qualcosa che non andava, per via delle tracce lasciate dalla scheggia d’incubo; stavano correndo ad avvisare Dentolina. Passarono proprio sopra il nascondiglio dell’Uomo nero. Appena si furono allontanate, la nera creatura le distanziò, nascondendosi ai margini della caverna che ospitava il palazzo. Aprì il cilindro. Quello che accadde dopo nemmeno Pitchblack l’avrebbe immaginato. I ricordi di Joey fino all’incontro nella foresta lo colpirono per la loro diversità: c’era una bambina felice, sulle spalle del padre, che rideva serena in una giornata di sole. Era festosa, allegra e piena di fiducia. Aveva tanti amici. I ricordi lieti iniziavano a confondersi con urla e pianti di paura e di tristezza. La madre e il padre di Joey, figure quasi indistinte attraverso la fessura di una porta, litigavano furiosamente. Una giornata di pioggia, di lampi e tuoni, durante la quale Joey, nel panico, dopo aver rotto un vaso che giaceva sul pavimento, in frantumi, correva per tutta la casa, rincorsa da un padre fuori di sé dalla rabbia, che la voleva punire picchiandola a sangue, se lei non si fosse rifugiata sotto al letto e la madre non si fosse messa in mezzo. I lampi dei fulmini cambiarono natura, sembravano luci che esplodevano direttamente negli occhi di Pitchblack. Il frammento di un altro ricordo lo investì. Era diventato un ragazzino che correva in una vecchia casa di legno, in affanno, pieno di terrore, inseguito da un uomo grande e grosso. Si rifugiava sotto al letto, insieme alla sua sorellina più piccola che piangeva per la paura. Tutto era fumoso ed indistinto, di un grigiore cinereo. Credette di trovarsi nella sua tana, ad un certo punto, se un altro ricordo di Joey non si fosse sovrapposto. La bambina piangeva di tristezza perché delle amichette l’avevano presa in giro. Sotto un forte sole di marzo, tutti gli altri ragazzini ridevano e giocavano, rotolandosi nell’erba, mentre Joey li guardava da lontano, triste, stringendo il suo orsacchiotto. Un altro ricordo, privo di colori e di dettagli distinguibili si agganciò a quello che aveva appena visto. Il ragazzino di prima guardava con rabbia altri bambini, meditando vendetta per i loro soprusi. Pitchblack sentiva la testa esplodergli. Lasciò cadere il cilindro dei ricordi di Joey. L’Uomo nero si afferrò la testa con entrambe le mani: la sentiva pulsare in maniera dolorosa, mentre schegge di ricordi gli si conficcavano nel cervello, causandogli altre fitte lancinanti. Stringeva gli occhi, nel tentativo di scacciare quelle immagini dagli occhi. Si trovò ad urlare, senza rendersene conto. «PITCHBLACK!» Quel nome riuscì in qualche modo a interrompere il flusso di scene che gli lampeggiavano davanti agli occhi. Intontito, non vide arrivare il colpo. Venne sbalzato via dalla piattaforma su cui si trovava, andando a sbattere sulla parete di un pinnacolo. Cadendo in verticale, rotolò sull’ombrello colorato che faceva da pavimento, finendo bocconi sul suo margine. La testa aveva iniziato a girare vorticosamente, colori e forme si sfocavano e si intrecciavano le une alle altre. Sentì, più che vedere, Dentolina, che si era gettata in picchiata su di lui. In un gesto istintivo parò il colpo successivo con la sua falce di sabbia, che si dissolse in una nube di polvere, mentre lui veniva scagliato nuovamente lontano e verso il basso. Cadde sulla piattaforma inferiore di un’altra torre a stalattite. Cercò di richiamare la sua arma, ma non ci riusciva, confuso e debole com’era. «TEMPO!» urlò, senza sapere dove guardare. «Tempo, tempo, tempo, per favore tempo!». Dentolina, che era un’anima buona – forse anche troppo buona – si era bloccata a mezz’aria, lei con un molto nutrito gruppo di sue assistenti, ma rimanevano in guardia, mentre Pitchblack cercava di rialzarsi. L’Uomo nero barcollò per un istante sul posto, rigirò gli occhi all’indietro e poi… cadde di schiena con un tonfo sordo, a braccia e gambe aperte e ben distese. «È… morto?» chiese Dentolina perplessa alle sue amiche. Le fatine che erano con lei squittirono incredule e alzarono dubbiosamente le piccole spalle. Dentolina strinse le labbra. Piano piano, fluttuò fino al punto in cui Pitchblack era caduto. Aveva gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e sembrava decisamente deceduto. Diede un’occhiata ad una delle sue fatine, con uno sguardo interrogativo, che lei rimandò pari pari. Dentolina allungò la mano, puntando l’indice verso la mascella di Pitchblack. Strinse le labbra. Con la punta del dito gli toccò la guancia. L’Uomo nero aprì improvvisamente gli occhi. «AH!» Dentolina strillò spaventata, sussultando e indietreggiando in volo. «Non sono ancora morto.» disse Pitchblack, constatando un fatto. «Tu… devi… Devi andartene subito! Altrimenti…» «…Altrimenti cosa? Mi caverai tutti i denti a forza di pugni?» rispose lui, ma stranamente senza nessun tono ironico. La fatina dei denti rimase interdetta, ma per il motivo opposto rispetto all’altra occasione durante la quale Pitchblack si era introdotto nel suo regno: invece di rimanere colpita dalla sua battuta pungente, si spaventò all’idea che avrebbe potuto effettivamente seguire il suo suggerimento. «…N… No! Io non sono così! Non sono come te! Ti butterò fuori di qui a forza, se necessario, m... Ma non… ecco…» «Non vuoi farmi del male?» completò lui, alzando la testa e ghignando sarcasticamente. «Dammi ancora un minuto.» disse, alzando debolmente un braccio e indicando il numero con l’indice. «P…Per cosa?» chiese Dentolina. «Per alzarmi. Non mi sento più le gambe.» replicò Pitchblack, con tono piatto e lo sguardo stralunato. «Oh…» fece lei, quasi mortificata per esserci andata giù così pesante. Si spostò per poterlo guardare meglio negli occhi. Pitchblack rimaneva disteso a terra, in un atteggiamento apatico in modo bizzarro. Poi, diventando paonazza, ancora in atteggiamento di guardia, interpellò nuovamente l’Uomo Nero. «S-Si può sapere che ci fai qui?!» Pitchblack girò leggermente la testa verso di lei, ruotando gli occhi nella sua direzione, ma non rispose nulla. Sembrava perfino depresso. «Si può sapere che ti prende? A quest’ora avresti fatto almeno dieci battute ironiche!» urlò Dentolina, irritata non tanto per il fatto che lui fosse lì, a quel punto, ma che avesse un comportamento tanto strano. «Ti scoccia abbassare la voce? Hai degli acuti tremendi e io ho mal di testa.» fece lui, per tutta risposta. «Scusa, scusa, mi dispiace!» disse Dentolina. Poi scosse la testa e mormorò: «Ma che sto facendo?» Puntò l’indice con decisione su di lui. «Pitch, è l’ultima volta che lo dico, vattene subito…» «Vattene subito o chiamo la polizia!» ripose l’Uomo Nero, motteggiandola. Dentolina, suo malgrado, arrossì. Stava per rispondere qualcosa, ma lui la precedette. «Me ne vado, me ne vado. Non ti agitare.» aggiunse Mister Boogeyman, tirandosi su a fatica e con un movimento che ricordava una mummia che risorga dal regno dei morti. Dentolina si irrigidì, quando lui si rimise in piedi. Pitchblack, con calma, si spolverò il vestito con noncuranza e tranquillamente fece due passi. Dentolina non lo perdeva d’occhio. «Bu!» fece Pitchblack all’indirizzo di Dentolina, la quale sobbalzò e si ritrasse istintivamente, mentre le fatine si nascondevano dietro di lei. Pitchblack ridacchiò, per poi sparire nell’ombra e ricomparire sulla piattaforma adiacente. «Sei capace di mettermi a tappeto, ma riesco ancora a spaventarti, Dentolina! Avresti dovuto vedere la tua faccia!» ghignò maligno Pitchblack, per poi darle le spalle. «Sei sempre il solito Pitchblack! Non cambierai mai!» lo sgridò Dentolina, furiosa. «Cambiare? Per fare cosa? Dovrei davvero desiderare di essere diverso da quello che sono? Dovrei fare come Jack Frost? Vendere la mia libertà o la mia identità per un posto da guardiano? Non sto al guinzaglio di nessuno, io» replicò Pitchblack, pieno di rancore. «Jack Frost non sapeva chi era, prima di diventare un guardiano» uscì detto a Dentolina, che, nonostante le apparenze, non era una alla quale piaceva lasciare all’avversario l’ultima parola. «Io so bene chi sono» disse Pitchblack, scandendo bene le parole. «Ne sei sicuro?» Dentolina lo guardava con uno sguardo stranamente fisso. «Perché sei venuto qui, Pitch?» chiese. «Che te ne importa?» sbottò lui, aggrottando le sopracciglia nude. «Senti, è stata un’amabile chiacchierata, sei la migliore tirapugni verbale con la quale abbia mai avuto il piacere di conversare, ma ho dei grossi, grossissimi impegni in agenda, tutti molto urgenti. Mi piacerebbe sbrigare qualche altro piano diabolico prima di cena, se non ti dispiace.» disse lui, con un sorriso cattivo e mellifluo, voltandosi nuovamente per andarsene. «Pitch, aspetta!» Dentro di sé, Dentolina sapeva che quello che stava per fare era un grave errore, ma era un’anima tenera, un po’ ingenua e abbastanza sicura di sé da non vedere in Pitch una minaccia. Pitchblack la guardò, con un sopracciglio inarcato, aspettando, paziente.
«Ehm… Magari… ecco… Io potrei… insomma… avere i tuoi ricordi conservati nella sezione segreta» Dentolina disse le ultime parole tutte d’un fiato, come se dovesse sputarle fuori prima di cambiare idea. Pitchblack rimase impassibile, in silenzio, per alcuni istanti che sembrarono eterni. «Non sapevo tu avessi una sezione segreta» constatò, alla fine. «Beh… È segreta.» spiegò Dentolina. Ci fu una lunga pausa, durante la quale l’Uomo Nero parve riflettere. «Mmm… Ha… senso» ammise Pitchblack. «Vogliamo andare?» chiese lei.

Il laghetto tranquillo sul fondo della caverna era illuminato dalla luce del sole. Pitchblack strizzava gli occhi, un po’ infastidito, la testa che ancora un po’ gli doleva. «Ci siamo» disse Dentolina. «Senti, Dentolina, ripensandoci, non credo che sia il caso…» iniziò a dire l’Uomo nero, ma Dentolina non voleva sentire ragioni. «Seguimi!» ordinò, tuffandosi dentro il lago. Pitchblack sospirò, rassegnato. La seguì, facendo un passo in avanti, le braccia dietro la schiena, in una posa imperiale e rigida. All’interno dell’acqua del lago, Pitchblack continuava a cadere, come se invece di trovarsi nell’acqua, si trovasse a galleggiare nell’aria e stesse lentamente, ma costantemente, precipitando verso il fondale. Tutto intorno a loro era azzurro e cristallino. Toccò lievemente il terreno con un piede e gli sembrò di riacquistare tutto il suo peso. «Qui conservo alcuni contenitori un po’… particolari» spiegò Dentolina. Pitchblack si guardò intorno. Nell’atmosfera azzurra, blu cobalto e verde acqua, emergevano scintillanti, in un grande cilindro d’ottone, una ventina di contenitori, un paio dei quali evidentemente corrosi dal tempo. «In che senso, particolari?» fece lui. «Ecco… insomma… importanti e… incompleti» disse lei. «Sono delle… sinfonie speciali, diciamo. Qui conservo le storie più incredibili che mi sia mai capitato di conoscere… i bambini loro proprietari non sono ormai più bambini. Riesco sempre a recuperare tutti i denti, anche quando un bambino non riesce a metterli sotto il cuscino o ne perde qualcuno. Tuttavia, di uno in particolare, invece… ecco… non so proprio il dente dove sia.» Dentolina guardò Pitchblack di sbieco, arrossendo visibilmente. Lui la fissava con una certa irritazione. «Vuoi dirmi che non hai tutti i miei ricordi?» «Ecco… no. Ne manca uno.» Pitchblack alzò gli occhi al cielo con l’aria di chi se lo stava aspettando, un colpo di scena simile. «Ecco il perché della sezione segreta.» commentò lui. «Se si sapesse in giro che ti è sfuggito un dente…» «Senti, non è del tutto colpa mia, ok? E…Ero ancora molto giovane! E l’archivio non era all’altezza!» disse Dentolina, piccata. «Un paio di questi sono stati i miei primissimi bambini. Allora non avevo neanche un’assistente, non ero nemmeno un guardiano!…» La fatina dei denti s'interruppe e sembrò immergersi nelle memorie di un tempo lontano. Pitchblack iniziò a guardare i contenitori. In uno di quelli riconobbe il contenitore di Jack Frost. Aveva delle incrostazioni causate dal freddo del Polo Nord. Dentolina non lasciava mai niente in sospeso. A parte quell’unico dente, della cui perdita lei si vergognava moltissimo. Si fermò davanti al ritratto di un ragazzino con i capelli e gli occhi neri e la faccia un po’ cattiva: un bambino arrabbiato e vendicativo. Era un contenitore molto vecchio: segni di ossidazione lo ricoprivano e sembrava essere stato maneggiato molte volte, forse nel tentativo di Dentolina di recuperare anche l’ultimo dente. «Questi contenitori sono quelli che contengono i ricordi più gioiosi, ma anche i più tristi…» soggiunse Dentolina, parlando più a se stessa che a Pitchblack. «…Forse è per questo che ho smesso di…» continuò, interrompendosi bruscamente. L’Uomo nero prese il cilindro metallico tra le sue mani. I ricordi gli tornarono in mente come se fossero avvenuti il giorno prima. Era un bambino piccolo e viveva in una casa di legno, con il tetto di paglia, in mezzo ad una fitta foresta di abeti, in una valle in pendenza, con declivi scoscesi, burroni e fiumi. C’erano vaste praterie intorno alla foresta e strade in terra battuta che attraversavano il villaggio. Più lontano, al di là di una fila di colline, Pitchblack sapeva che c’era il mare. Suo padre era un uomo violento e crudele. Tanti lo erano in quell’epoca oscura e priva di pietà verso i deboli, ma qualche padre riusciva a trattare amorevolmente i propri figli. Non il suo. Jonah – era quello il suo nome – correva a nascondersi sotto il letto, cercando di proteggere la sua sorellina, mentre la madre cercava di dar loro tempo di scappare. Suo padre riusciva sempre a raggiungerlo, a tirarlo fuori dal letto e a picchiarlo, mentre la sorella piangeva disperata, accucciata nel buio, sotto il giaciglio. I ragazzini del villaggio non lo lasciavano in pace: era scontroso, timido e riservato, e per questo era il bersaglio preferito degli scanzonati e dei prepotenti. Il padre trovava quell’atteggiamento un buon motivo per fargli altro male, così Pitch decise di fare scherzi spaventosi agli altri bambini, perché almeno loro lo lasciassero in pace. Avendo nel padre un buon maestro, prima di aver perso il suo primo dente, aveva già burlato due ragazzini di sette anni, sfidandoli ad una prova di coraggio e facendoli scappare a gambe levate da una casa abbandonata. Aveva catturato dei corvi e quando i due erano entrati nell’abitazione, li aveva liberati, con grande schiamazzo e puro terrore dei due. Quando aveva perso il suo primo dentino e aveva mostrato orgoglioso al padre la piccola gemma che aveva ricevuto in dono, il padre lo aveva malmenato, accusandolo di averla rubata. A niente valsero le parole di Jonah “Pitch” Black, che assicurava di averla trovata sotto il cuscino al posto del dente che gli era caduto durante la notte. Perdere un altro dente da latte fu l’effetto della punizione ricevuta. Pitch giurò di tenere nascosto il regalo successivo – se mai fosse arrivato – e di usarlo per comprarsi un nuovo temperino. Ricordò che il padre lo sorprese ad utilizzare l’attrezzo, gli chiese dove l’avesse preso, lo picchiò accusandolo di averlo tolto a qualcuno e glielo sequestrò. A Natale, Pitch non riceveva nessun regalo. “Sei un bambino cattivo, non te li meriti!”. Un anno, Pitch fece tutto quello che poteva per essere un bravo bambino. Il padre, poco prima di Natale, iniziò a sorridergli in modo inquietante. “Sei stato bravo, quest’anno, Pitch” gli disse. “San Nicola potrebbe farti un bel regalo” aggiunse. Jonah aspettò con ansia il fatidico giorno, desiderando ad alta voce che il santo gli portasse un paio di guanti di pelle morbida. Alla mattina, scese di corsa giù dalle scale e vicino al camino trovò il suo regalo, avvolto in un telo. Lo scoprì e i guanti c’erano, ma erano vecchi, rotti, screpolati, con i buchi sulle dita e odoravano di muffa e di stantio. Il padre rise alla sua faccia delusa e continuò a ridere per giorni e giorni. Non fece mai più nessuno sforzo per essere un bravo bambino. Continuò a spaventare gli abitanti del villaggio e divenne un adulto maligno e rancoroso. Tutti davano la colpa a lui per qualsiasi cosa e lo usavano per far rigare dritto i loro figli. “Se non fai il bravo chiamo Pitchblack e te la vedrai con lui!”. Lui rideva sempre quando veniva a sapere di quei ricatti. Non era uno strumento che serviva a sistemare le mancanze dei genitori, ci pensassero loro ad educare i loro figli. Eppure, suo malgrado, spesso si ritrovava a rimettere in riga proprio i più scapestrati, i più ribelli e i più prepotenti. I ricordi finirono. In realtà non c’era quasi niente che, in qualche modo, non sapesse già. Ricordava tutto già prima, ma l’intensità delle emozioni che aveva provato nello scoprire il contenuto delle memorie di Joey non si era manifestata. Aveva la sensazione mancasse qualcosa. «Ero un giovane talento, non c’è che dire» disse Pitchblack, con un sorriso sardonico, all’indirizzo di Dentolina, occultando abilmente gli altri sentimenti che lo attraversavano: rabbia, rancore, odio. Quei ricordi avevano riaperto una vecchia ferita, accendendo una nuova vivida luce su tutto il male che aveva dovuto subire, dai suoi coetanei, da suo padre. Non c’era stato niente di positivo nella sua esistenza. O forse sì? «Non c’è un modo per recuperare i ricordi persi?» chiese l’Uomo nero, senza preavviso. Dentolina si riscosse dai suoi pensieri. «Se… Se troviamo il dente mancante, sì. Ma è passato tanto tempo e per riuscirci, penso che avremo bisogno di aiuto.» «Tu che cosa suggerisci?»

Pasqua era passata da circa sei mesi, ma Calmoniglio diceva che ne mancavano soltanto sei alla prossima: così era già in fermento, provava nuove miscele di colori, nuove decorazioni, curava le piantine che sarebbero sbocciate a pasqua, generando le loro uova. Stava facendo degli esperimenti perché uscissero dal bocciolo con il guscio già colorato. Per questo qualche ovetto saltellava di qua e di là. A quanto pare uscire dall’incubazione con il colore già applicato dava qualche effetto collaterale: le uova rosse erano bollenti, quelle blu erano pigre e appena potevano si distendevano sull’erba a dormire, le gialle non smettevano un solo secondo di ballare il tip tap, le verdi correvano di qua e di là, cercando un nascondiglio, per poi cambiarlo subito dopo, le viola non facevano altro che incespicare e cadere. Queste ultime non riuscivano a fare molta strada, prima di rompersi da sole. Il coniglietto di pasqua voleva che la festività successiva fosse memorabile. La precedente, del resto, era stata un fiasco totale e ancora a Calmoniglio quella sconfitta bruciava. Ad un certo punto si sentì il rumore di qualcosa che si rompe e un suono viscido subito dopo. «Urgh…» fece una voce, alle spalle del coniglietto di Pasqua. «…Devo aver appena pestato un uovo…» Calmoniglio drizzò le orecchie, spalancò gli occhietti e si voltò, furibondo. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. «Pitchblack…» ringhiò. Se qualcuno non l’avesse visto in quel momento, non avrebbe mai detto che un coniglio potesse essere così minaccioso, ma Calmoniglio era grosso e in quel momento si sentiva molto cattivo. «Ehi, ciao Calmoniglio! Calmati, calmati, siamo venuti qui in pace!» disse una vocetta dolce. Distratto com’era dalla presenza di Pitchblack, Calmoniglio non aveva notato Dentolina, che ora gli svolazzava davanti, nel tentativo di rassicurarlo. «Tu… l’hai portato tu qui!?» esclamò, costernato, il volto che si contraeva in una smorfia di delusione e rabbia. «Ehm… posso spiegare…» «Non c’è niente da spiegare, Dentolina! Quella… COSA…» e guardò con disgusto Pitchblack (l’Uomo nero aveva l’espressione di chi si trovi perfettamente a suo agio) «…ha distrutto la Pasqua e ci ha quasi sconfitto, o te lo sei forse dimenticato?» «A giudicare dalle botte che Dentolina mi ha dato non se l’è dimenticato, no…» si intromise Pitchblack. «Non sto parlando con te!» gli gridò Calmoniglio di rimando, puntandogli il dito contro. «Senti, Calmoniglio, ascolta… Lo so che non ti fidi, non mi fido neanch’io, ma, ti assicuro, lo giuro su tutti i dentini del mondo, in questo momento…» e abbassò la voce in un sussurro «…non è in grado nemmeno di stendere una mosca…» «Guarda che ti sento lo stesso.» fece Pitchblack, inarcando le sopracciglia, comparendo improvvisamente lì, di fianco a loro. «Ti credi spiritoso? Forza, andiamo, fatti sotto!» lo incitò Calmoniglio, con aria bellicosa, e in quel momento sembrava davvero un canguro pugile sul ring. «Non credo che sia il caso…» fece Dentolina. «Dentolina ha ragione, i vecchi conigli devono stare attenti ai loro acciacchi» «A chi hai dato del vecchio?» «Su, su, andiamo, cerchiamo di stare calmi…» «Ha cominciato lui!» disse Pitchblack, anche se era palesemente falso. «PITCHBLACK, FINISCILA!» urlò Dentolina, gonfiandosi tutta, drizzando tutte le penne che aveva sul corpo, raddoppiando la sua stazza e allargando gli occhi già grandi, mentre le pupille si stringevano. Aveva un aspetto così spaventoso che Pitchblack, memore di quanto potesse essere tosta la fatina, sgranò gli occhi, si ritrasse istintivamente e si zittì. Calmoniglio, dal canto suo, aveva tirato indietro le orecchie e ritratto le zampe. Guardava Dentolina come si guarda una bomba pronta ad esplodere. Dentolina sospirò e poi disse, rivolta all’Uomo Nero: «Lascia parlare me, va bene?» «Va… bene.» rispose lui, esitando. «Calmoniglio, possiamo andare a parlare un po’ più in là, ti dispiace?» Il coniglietto di Pasqua scosse la testa, dicendo: «No, no, nient’affatto!» Quando si furono allontanati abbastanza, lasciando Pitchblack a guardarsi intorno con aria annoiata, Calmoniglio disse: «Dovrò ricordarmi di non farti mai arrabbiare, sai.» «Calmoniglio… ci serve una mano» «Ci? A te e a Pitchblack, intendi? Non ho nessuna intenzione di aiutare quello là, di qualsiasi cosa si tratti» «Dobbiamo ritrovare il suo ricordo mancante. Si comporta in modo un po’ strano… io credo che se ritrovasse quell’ultimo ricordo magari potrebbe… non lo so… cambiare il suo modo di vedere le cose» Calmoniglio diede un’occhiata a Pitchblack. «Cambiare? Quello là? Io non credo proprio» replicò il coniglio, recisamente. «Sì, lo so, sembra impossibile, ma… tentare non nuoce, non credi? Non nutrivi grandi aspettative neanche in Jack Frost» «Jack Frost era una canaglia, ma non ha mai tentato di aggredirci, né di eliminarci. Non c’è paragone. Pitchblack è un nemico e tu, Dentolina, come al solito sei troppo buona» Calmoniglio incrociò le braccia e la squadrò con aria severa. «Ti prego, Calmoniglio… Fallo per me, almeno! Ogni dente perso è per me una sconfitta» disse lei, cercando un ultimo appiglio per convincerlo. «Non ti costringerò a farlo, se non vuoi… Ma per la nostra amicizia…» «Oh, e va bene!» Calmoniglio si arrese. Il problema delle creature buone è che lo sono troppo. Sempre. «L’importante è che lo portiamo lontano da qua. La sua presenza qui dentro mi irrita» fece Calmoniglio. «Dentolina, sei sicura che il nostro tenero coniglietto ci potrà dare una zampa?» chiese Pitchblack, subito dopo, facendo un velato riferimento all’aspetto adorabile di Calmoniglio durante l’ultima epica battaglia. «Senti, brutto mascalzone, non so chi tu ti creda di essere, ma devi sapere che IO, oltre ad essere un mago nel nascondere le uova, sono anche un drago nel trovarle! Lo vedi questo naso?» e lo indicò, muovendolo a destra e a sinistra. «È in grado di fiutare qualsiasi cosa!» «Bene, cosa preferisci annusare, per ritrovare la traccia? Le mie ascelle o i miei piedi?» buttò lì Pitch. Calmoniglio prese aria nei polmoni, puntò il dito contro l’Uomo Nero e stava per rispondergli qualcosa, ma Dentolina prevenne tutti e due. «AHI!» gridò Pitchblack, mentre Dentolina teneva, come in trionfo, tra due dita, una ciocca di capelli che gli aveva appena strappato.
   
 
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