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Autore: Honeymouth    30/03/2016    2 recensioni
Gli incubi hanno trascinato Pitchblack in un oscuro abisso. Il Signore degli Incubi è davvero scomparso per sempre, dilaniato dai suoi sottoposti? Oppure la sua mano aguzza tornerà per gettare nuovo scompiglio nel mondo degli uomini? Piuttosto che preoccuparsi per la salute dell’Uomo Nero, i Guardiani temono un suo ritorno e si preparano al peggio. Che cosa vorrà Pitchblack? Vendetta o risposte a domande che non sapeva nemmeno di avere dentro di sé?
Genere: Avventura, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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PREMESSA

La seguente fanfiction contiene numerosi riferimenti ad altre opere, tra cui quelle da cui è stato tratto il film “Rise of the Guardians” (“Le 5 leggende”), ovvero “The Man on the Moon” e “Guardians of Childhood”. Tuttavia io non ho letto questi ultimi e ciò che ho elaborato è il frutto di una catena di pensieri che, per questioni di logicità, ha finito inevitabilmente per sovrapporsi, in alcune dinamiche inerenti alla trama, all’opera originale. Questo aspetto è emerso in seguito, quando gran parte della struttura narrativa era già stata elaborata. Voglio assicurare che qualsiasi eventuale somiglianza, sia con le opere originali (a cui comunque questa fanfiction, per via indiretta, fa riferimento), sia con qualsiasi altra fanfiction presente, non è voluta. Tale fanfiction, in fin dei conti, oltre che narrare una storia, è un pretesto per parlare di altre tematiche, alcune di esse piuttosto delicate. Questa fanfiction è cronologicamente posta dopo la fine del film "Le 5 leggende". Buona lettura.




«Children have You ever met the Bogeyman before? No, of course You haven’t for You’re much too good, I’m sure.»

“Hush, Hush, Hush, Here comes the Bogeyman”, canzone del 1932 scritta da Lawton, Brown, Smith, Lang e Benson. È stata poi registrata da Henry Hall e la sua orchestra, con la voce di Val Rosing.

La catapecchia abbandonata aveva un aspetto sinistro e scheletrico. Il tetto di paglia, sfondato, sembrava una bocca sdentata, le pareti in asticelle di legno ancora in piedi sembravano pezzi di stoffa stracciata e stinta, corrosa dal tempo e nera di muffa. All’interno, le travi erano marcite ed erano cadute in pezzi. I pavimenti erano stati lacerati dallo scorrere degli anni. Solo il telaio di un vecchio letto in massello ancora si distingueva tra le macerie. Emergeva dalle ombre e si delineava, vivido, sotto la luce della luna piena. Un raggio di luce filtrò attraverso le assi spezzate e colpì l’oscurità che si trovava al di sotto, incontrando degli occhi aperti, che guardavano fisso negli abissi della morte, spalancati eppure ciechi. Il nero stinto dell’iride si chiazzò di bianco, al passaggio di quel raggio di luce lunare e la creatura si risvegliò dal suo sonno eterno.

Il fondo dell’abisso era buio e silenzioso. Pitchblack sembrava morto, disteso sulla terra grigia. Teneva gli occhi chiusi, mentre lungo il collo, sotto la pelle, una sostanza nera e viva sembrava pulsare. L’aspetto era rivoltante e pareva essere doloroso: vene nerastre e violacee, lucide, che sembravano composte da una sostanza simile al petrolio, ma mescolata con granelli e schegge di sabbia vetrosa si muovevano sottopelle. Pitchblack gemette e girò la testa da un lato, digrignando i denti. All’improvviso, aprì gli occhi, gli occhi di una bestia crudele appostata nell’ombra, piena di fame e di odio. A fatica, con movimenti rigidi, senza riuscire a muovere il collo, si mise a sedere. Piegò la testa all’indietro e urlò, un grido lacerante, colmo di dolore e disperazione. Il buio calò più profondo, e poi, come un’onda, defluì lasciando solo ombre e incubi in fuga. Gli occhi abbaglianti, come quelli di animale notturno, saettarono in tutte le direzioni. Pitchblack, curvo su se stesso, teneva scoperti i denti aguzzi, cercando qualcosa o qualcuno su cui sfogare la sua furia. Ma non c’era niente intorno a lui: solo il grigiore spento del suo covo, ricolmo di ombre frementi.

La bambina poteva avere circa otto anni. Aveva corti capelli neri, a caschetto, un viso tondo con al centro un naso piccolo, grandi occhi grigio acciaio, che quel giorno sembravano neri per via del crepuscolo e per i vestiti che portava, una felpa e un paio di pantaloni corti, entrambi neri. Stringeva tra le braccia un orsacchiotto di peluche, consumato sulle zampe e sulle orecchie. «Joey! Joey!» una voce femminile, in lontananza, la chiamava, ma la ragazzina proseguì nella sua marcia, con una luce di ferrea determinazione negli occhi. I piccoli piedi calpestavano le foglie secche, facendole scricchiolare come se fossero state ossa rotte. «Papà!» mormorò la ragazzina, sentendo un fruscio alle sue spalle. Si guardò intorno. Nella luce di quel tardo pomeriggio autunnale e carico di nubi, le forme e i colori si confondevano e apparivano meno accesi e distinti. Tutto era ombra e grigia foschia. «Papà!» chiamò sussurrando, come se non volesse farsi sentire dalla madre che la cercava, ma allo stesso tempo farsi sentire da lui. «Joey? Dove sei?» La voce della donna era molto distante, la bambina poteva a malapena sentirla. Continuò ad andare avanti, facendosi strada tra gli alberi neri di muschio e tra i sassi ricoperti di fragili licheni. Davanti a lei, notò un’ombra muoversi. «Papà?» chiese alla figura in movimento, a una ventina di metri da lei. Iniziò a correrle incontro. «Papà!» Quello che si trovò di fronte, nella radura, seduto su un masso, in mezzo a foglie morte e circondato da alberi che sembravano soldati di vedetta o magri e affilati giudici, non era suo padre. Era una creatura dalla pelle grigiastra, i capelli neri come il carbone e il fumo dei camini, una figura che sembrava ammantata da una notte senza luna. L’entità alzò lo sguardo: due occhi che sembravano due pallide lune la fissavano. Sembrava stanco. Il braccio destro pendeva floscio, la mano sinistra, che fino a poco tempo prima aveva retto la fronte aggrottata, si muoveva lentamente, come se ogni movimento gli costasse una grande fatica. La bambina fissò il collo di quella strana persona. Delle sottili linee nere lo attraversavano. «Sei ferito?» chiese, parendole segni di graffi. Il volto di Pitchblack si contrasse in una strana espressione, un misto di sofferenza e di stupore. «Tu, puoi vedermi?» domandò, per tutta risposta. «Sei l’uomo nero?» disse la bambina, implicando una risposta positiva alla domanda di Pitchblack. Il Signore degli Incubi sorrise in modo crudele e poi rise. «Ovviamente. Ti sei persa, bambina?» disse, già pregustando lo sguardo di terrore nel volto di Joey. «No, affatto. Stavo cercando il mio papà. Fa la guardia forestale. La mamma dice che è un uomo cattivo, quindi, se tu sei l’uomo nero, forse lo conosci oppure lo hai visto. Si chiama Robert, è alto… come… Come quell’albero là!» disse, indicando l’arbusto ai margini della radura con il ditino, stringendo a sé l’orsacchiotto. «Ha gli occhi e i capelli castani. Ti somiglia molto, a parte la pelle, gli occhi e i capelli.» concluse la bambina, fissando senza paura Pitchblack. Quest’ultimo era rimasto senza parole e non si era nemmeno accorto di stare molto meglio: era meno debole e sofferente, ma aveva dimenticato di prestare attenzione alle sue condizioni. Aveva alzato interdetto un sopracciglio, il sorrisetto gli era svanito dalla faccia. Che ironia: la prima bambina che credeva di nuovo in lui, era una che non ne aveva paura. Era stufo di trovarsi in quella situazione: perdente ancora prima di aver cominciato la partita. Mise una mano sulla faccia, spossato dalla frustrazione. «Allora, l’hai visto il mio papà?» Joey guardava Pitchblack con la determinazione di chi non ammette il silenzio al posto di una risposta. L’uomo nero la squadrò. Si alzò e si avvicinò alla bambina, che non si spostò di un passo. L’ombra di lui ormai incombeva su di lei, ma niente, le gambe non le tremavano, il respiro non accelerava, gli occhi non si sgranavano. «Se vedessi un uomo da queste parti, non vivrebbe per raccontarlo.» disse Pitchblack, con un sorriso cattivo, abbassando la testa verso di lei e scoprendo le zanne bianche e aguzze. Joey distolse lo sguardo, riflettendo corrucciata. «Cosa vuoi dire?» domandò, alla fine, con le lacrime agli occhi. «Che tuo padre io non l’ho visto, e se l’avessi visto l’avrei ucciso.» aggiunse, facendo un passo avanti. Joey arretrò e deglutì, lo sguardo un po’ appannato. «Io sono solo una bambina.» si ritrovò a dire, lo sguardo triste, ma stranamente non terrorizzato. «Io non uccido i bambini.» disse Pitchblack. «Dimmi ragazzina… Hai qualche programma per il prossimo anno?»

Joey non capì come aveva fatto a trovarsi lì. Ricordava vagamente che tutto era diventato buio all’improvviso. Quando un po’ di luce era tornata, il paesaggio era cambiato. Non era nemmeno più un paesaggio. Piccola com’era, a Joey parve una caverna con molte scale e molte gabbie come quella in cui in quel momento era rinchiusa. Era grande abbastanza perché si potesse sedere o raggomitolarsi, ma era stretta come solo una trappola sa essere. Un occhio più adulto avrebbe visto in quel posto una sorta di labirintica, oscura e angosciante stanza della relatività, un posto dove la porta d’uscita è allo stesso identico istante anche quella d’entrata, dove uscire significa rientrare, in un circolo impossibile da rompere. Un luogo dove, come negli incubi più terrificanti, più tenti di correre avanti, più rimani inchiodato nello stesso posto, dove dopo una porta, se ne apre sempre un’altra, all’infinito. Un posto fuori dal tempo e fuori dalla razionalità. Un abisso senza fine che a spirale scende sempre più in basso, un pozzo che arriva in un universo parallelo, isolato ed emarginato. Joey riuscì solo vagamente ad intuire di che natura sia la tenebra che avvolgeva quel non-luogo, ma era troppo piccola per riuscire a comprenderla appieno. Alle volte, è meglio rinunciare a comprendere l’impossibile e accettarlo per quello che è. Così fece Joey. Tutto era strano, ma Joey ignorò l’incomprensibile e si concentrò sulla situazione presente. «Hai paura?» chiese una voce. Joey non rispose. Non ne aveva, ma si sentiva piena di tristezza. Pitchblack emerse dalle ombre: sembrava essere costituito dalla loro stessa sostanza. «Non rivedrai mai più la tua mamma.» disse, sorridendo. Joey stava per mettersi a piangere. Strinse l’orsacchiotto più forte e si sforzò di inghiottire le lacrime. «Allora era vero che non avevi visto il mio papà.» disse lei, con la voce rotta. Pitchblack la guardò e per un istante esitò. «Io non dico mai bugie.» disse l’Uomo nero con un sorriso tagliente che in realtà voleva dire l’esatto contrario. Joey gli lanciò un’occhiata corrucciata, con l’aria di chi abbia capito che l’avversario sta cercando di truffarlo. «La mia mamma dice che tu dici sempre le bugie. Io credo alla mia mamma.» replicò Joey, risoluta. «Oh, davvero?» chiese sardonicamente Pitch «Dimmi un po’, e come fai a sapere che la mamma non ti abbia mentito?» «La mamma non lo farebbe mai! Lei mi vuole bene!» si arrabbiò Joey. Pitchblack sorrise per l’ennesima volta, con aria canzonatoria. «Uh, che sguardo assassino! Che paura che mi fai! Sto tremando dalla testa ai piedi!» Joey si zittì e continuò a fissarlo con gli occhi pieni di furia omicida: essendo molto piccola, quell’atteggiamento non le dava un’aria minacciosa, ma piuttosto buffa. Lei pensava di dargli filo da torcere, ma Pitch rideva di lei, sapendo che non poteva fargli niente, a parte fissarlo a morte. Una cosa però irritava l’Uomo nero: che la ragazzina non avesse nessuna paura, né di trovarsi lì, né di lui. Non aveva chiesto la mamma, non aveva chiesto di riportarla a casa, né si era messa a piangere o a frignare. Invece di stringersi al suo orsacchiotto, l’aveva lasciato cadere sul fondo della gabbia e rimaneva lì, in piedi, a guardare Pitchblack con uno sguardo di sfida. «Tu non mi fai paura. Mio padre è più spaventoso di te.» proclamò lei. Nella sua testa, pensava di farlo arrabbiare e di farlo smettere di ridere. Cosa che in effetti successe. Il sorriso soddisfatto dell’Uomo nero gli morì in faccia, e il suo volto si contrasse in un’espressione contrariata. «Nessuno… NESSUNO… è più spaventoso di me!» sibilò lui, in faccia a Joey, comparendole davanti, a pochi centimetri di distanza, all’improvviso, svanendo e ricomparendo dall’ombra. Joey non batté ciglio. Puntò i suoi occhi scuri in quelli dell’Uomo nero. Pitchblack scoprì le zanne, in un ghigno serafico, ritrovando un’apparente calma. «Allora… ti credi una tosta, eh?» «Io sono una bambina cattiva. E i bambini cattivi sono dei duri.» spiegò lei, con una certa aria strafottente. «Tu saresti una bambina cattiva? E che cosa hai fatto per esserlo, sentiamo? Hai detto brutte parole al tuo orsacchiotto?» disse lui e mentre lo diceva il suo tono di voce era quello che assumono i ragazzini quando vogliono sottolineare la tua stupidità. «Voglio bene ad un uomo cattivo.» rispose lei, senza fare una piega. «Se voglio bene ad una persona cattiva, devo essere cattiva anch’io. Per questo mi hai portato via.» aggiunse, con una certa urgenza, come se avesse voluto dimostrare una tesi incontrovertibile, ma avesse avuto paura che l’altro non sarebbe stata ad ascoltarla se non si fosse sbrigata a spiegarsi. Pitchblack alzò un sopracciglio, con l’aria di chi non abbia mai sentito delle assurdità simili in vita sua. «Guarda che io non faccio distinzioni tra buoni o cattivi. È una cosa che non mi interessa.» disse lui. «Oh.» fece la bambina, quasi con un’aria delusa. Abbassò il capino e si sedette accanto all’orsacchiotto, facendo ondeggiare la gabbia. Non disse nient’altro, rimase lì, seduta, in silenzio. Pitchblack non era mai stato una creatura paziente e in quel momento si sentiva anche piuttosto debole. Si massaggiò l’attaccatura del naso, in un gesto di frustrazione e sospirò. «VUOI COMPORTARTI COME UNA RAGAZZINA QUALUNQUE!?» urlò all’improvviso, colpendo la gabbia con un pugno. Joey sobbalzò e sgranò gli occhi, ma non ebbe nessun’altra reazione. Divenne solo molto triste. «…Me lo diceva sempre anche il mio papà.» Tirò su con il naso e non disse nient’altro. «Argh!» fece Pitchblack, alzando lo sguardo al cielo, esprimendo tutta la sua rabbia con dei gesti che volevano dire “ma perché proprio a me”. Le voltò le spalle, mise le mani sui fianchi, come per valutare la situazione. «Non vuoi proprio tornare a casa? Neanche un po’?» chiese poi, quasi costernato dalla prospettiva che avrebbe dovuto tenersela lì per chissà quanto tempo. Joey fece spallucce, in segno di diniego. I bambini non li sopportava, non avrebbe saputo curarli. Lui era capace di spaventare e basta, era quello che gli riusciva meglio. Non sarebbe stato capace di tenerla lì per un anno intero, come le aveva detto. Avrebbe potuto usare qualche trucchetto per far sembrare che invece di qualche ora fossero passati mesi – la manipolazione del tempo era una delle sue specialità – ma già così aveva i nervi a fior di pelle. L’unica cosa che gli piaceva nei bambini era quando gli si dipingeva in faccia il terrore. Gli sembrava di essere in uno dei suoi incubi: tutti i bambini che riuscivano a vederlo, non avevano paura di lui. Gli sembrava una condanna assurda, quella, un contrappasso tremendo. Iniziò a camminare nervosamente, avanti e indietro, con le mani dietro la schiena, borbottando e mugugnando tra sé e sé. Gli incubi che lo avevano quasi distrutto, facendolo diventare uno di loro, una creatura di sabbia, soltanto uno dei tanti brutti sogni che tormentavano i bambini, se n’erano andati, ma lui si sentiva ancora debole e avvilito. Aver incontrato Joey gli sembrava l’ennesimo smacco, come se tutte le forze terrestri si coalizzassero contro di lui. Pensava addirittura che quella potesse essere una mossa dei Guardiani per condurlo nella trappola definitiva. Razionalmente, però, non aveva senso: se aveva ragione, era stata quella bambina a salvarlo dall’oblio perpetuo, credendo in lui. La guardò. Joey se ne stava lì, nella gabbia, tranquilla e triste. «Mi dici perché non hai voglia di tornare a casa?» chiese, irritato. Joey alzò lo sguardo. «La mamma non mi capisce. E mi sento sola a casa. Vorrei che il mio papà tornasse a casa, ma la mamma non vuole perché è stato cattivo con noi.» rispose, alla fine. «Pensavo di trovarlo, nella foresta, anche se la mamma ha detto che il papà era lontano. Ho pensato, magari si è sbagliata. Qualche volta la mamma si sbaglia.» continuò. Pitchblack rimase in silenzio. Era già capitato che qualcuno gli togliesse l’ultima parola, ma quello era un caso molto strano e diverso da tutti gli altri. «Tuo papà è stato cattivo con te e la tua mamma, ma lo vuoi lo stesso a casa?» disse lui, un po’ perplesso dalla contraddittorietà di quelle affermazioni. «È sempre il mio papà! Non era così cattivo prima! Ci divertivamo tanto insieme. Io gli voglio bene, anche se mi fa paura.» rispose lei, con una grande tristezza nella voce. “Così non va” pensò Pitchblack. La ragazzina doveva essere terrorizzata, non triste. Un bambino triste è la cosa peggiore che può capitare a una creatura sovrannaturale come lo era anche lui: uomo nero o guardiano, un bambino triste o deluso è la cosa peggiore. Un bambino triste non ha nemmeno paura. Che cosa può fare l’Uomo nero con qualcuno che non prova altro che tristezza? Pitchblack si grattò il collo, a disagio. Poi si strofinò la testa, passandosi una mano tra i capelli e poi sulla nuca. Sospirò, vinto. «Ti riporto a casa.» disse, scuotendo la testa. Joey non disse niente.

Le luci della casa erano accese e la madre di Joey molto preoccupata. L’aveva chiamata e l’aveva cercata in giardino e nella foresta vicina, senza ottenere risultati. Aveva iniziato a chiamare i vicini, preoccupata, chiedendo se per caso fosse a casa da loro. Era la terza telefonata che stava facendo, quando il campanello suonò. Corse alla porta e la spalancò, trafelata. Davanti a lei c’era Joey, con il suo orsacchiotto preferito in braccio. «Joey! Oh, cielo, meno male!» strillò la madre, sollevata, e la abbracciò stretta. «Non farlo mai più! Hai capito? Mi hai fatto preoccupare a morte!» la rimproverò, continuando a stringerla a sé. «Dai, andiamo a letto…» disse, la voce piena di gioia, sollievo e tenerezza, facendola entrare in casa. Sbirciò fuori, prima di chiudere la porta. La sera era calata velocemente e tutto era nero. Le sembrò di scorgere una sagoma nera e degli occhi luminosi, al di là della staccionata, per un istante. L’impressione passò e la donna, scuotendo la testa, chiuse la porta. Pitchblack, al di là del recinto, rimase per qualche momento a guardare la casa e poi svanì.
   
 
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