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Autore: Aisu Yuurei    05/04/2009    1 recensioni
Si viveva di spade, a Kyoto.
Krang osservava dalla cima di una collina lo spettacolo sanguinolento che riversava nelle strade della sua città.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era Edo: antica era giapponese durata dal 1603 al 1868, prese il nome dal Daimyo di quell’epoca, la capitale era Kyoto. Questa epoca fu caratterizzata da frequenti scontri tra samurai.

 

 

 

 

BLOOD BUTTERFLY

 

Si viveva di spade, a Kyoto.

Nel 1860 Krang osservava dalla cima di una collina lo spettacolo sanguinolento che riversava sulle strade della sua città. Da parecchi anni ormai l’era Edo dimorava in ogni casa, nell’anima di ogni umano, nel cuore di ogni essere vivente. Nessuno si sentiva in dovere di stare in disparte e tutti per motivi più o meno futili estraevano le katane ciarlando minacce al vento.

Lui era ancora troppo piccolo, suo padre gli aveva detto che una volta compiuti i dieci anni sarebbe stato pronto, si. Peccato che il suo papà morì prima.

Non avevi la certezza di esistere a quel tempo, non avevi la certezza di comprendere il tuo posto nel mondo. In quel periodo, nessuno si preoccupava di interessarsi al prossimo, impegnati com’erano a trafiggere e stroncare inutilmente vite umane.

Uno scempio. Uno spreco. Un sacrilegio. C’erano tante espressioni che venivano in mente a quel bambino che osservava i cadaveri spiaccicati sul terreno arido, con quell’espressione di terrore sul volto che sarebbe rimasta in eterno fino a che le intemperie non avessero angustiato loro il viso, allora sarebbe rimasto il ghigno dello scheletro a far compagnia ai vermi solitari.

Le urla che udiva ogni notte non appartenevano quasi mai a corde vocali vagamente umane, quelle erano urla di bestie tristi, desiderose di un obiettivo per conciliare e dare un senso alla loro vita. Dare un senso alla loro vita togliendola agli altri. Quel bambino che sentiva la mamma piangere davanti a una foto sbiadita di suo marito, biasimandolo per non essersi fermato in tempo, per non aver pensato all’agonia e al terrore che ora regnava intorno a lei come un velo trasparente, nero.

Krang entrò silenziosamente nella stanza, il suo passo da bambino era felpato e cinse in un piccolo abbraccio la sua mamma, cercando di dare a lei tutto l’affetto di cui era capace. La donna, invece, singhiozzò sommessamente e lo cullò per tutta la notte, sussurrandogli parole dolci come solo lei sapeva fare.

Fuori l’ululato del vento accompagnava l’eco dei passi dei sopravvissuti, che putrefatti da un odio incancellabile, avevano gettato la loro ingenuità nelle fiamme dell’inferno e bruciavano, bruciavano, bruciavano.

La porta di una casa mal ridotta si spalancò, una donna urlante uscì in strada e, sgolandosi, urlò.

<< Aiutatemi, aiutatemi per favore, mio figlio sta morendo. Vi supplico qualcuno mi aiuti!!>>

Si inginocchiò convulsamente e si mise il volto tra le mani, Krang la stava osservando dalla finestra polverosa e avrebbe fatto di tutto pur di aiutarla, ma cosa poteva fare un bambino di nove anni? Si rese conto che provava per quella donna una pietà immane, una tristezza pari ai grani del deserto. Sentiva che se il figlio di quella donna fosse morto, lui non se lo sarebbe mai perdonato e preso da un moto di disperazione gli cadde una lacrima dai grandi occhi a mandorla. Fu in quell’istante che le sue iridi videro qualcosa nel tumulto del vento che sollevò polvere ai piedi della donna, una chiazza si mosse e in un istante scomparve. Fu in quello stesso istante che davanti alla porta spalancata apparse una piccola boccetta di vetro adornata da un ornamento sconosciuto, circondata da una cordicella rossa. Lo strano liquido che conteneva assumeva a tratti un colore verdognolo per poi diventare violaceo. Krang rimase interdetto per alcuni minuti, con il labbro tremante e il cuore che batteva all’impazzata, non per la boccetta, ma per la cosa che vi volteggiava sopra, libera come quel vento che continuava a soffiare, come gli uccelli che stridevano tra le nuvole minacciose, come quell’urlo che gli uscì dalla gola.

Sopra quella boccettina volteggiava una farfalla, un enorme farfalla insanguinata.  

Il suo urlo consistette in uno sfregamento di corde vocali, non riusciva a muovere neanche un muscolo del suo corpo. Intanto la donna aveva smesso di piangere e stava ora alzandosi dal terriccio, aveva un espressione totalmente vuota e i suoi occhi sembravano privi di colore. Spento, era anche il suo volto esangue, sembrava infatti un corpo morto, privo di calore. Krang non ci pensò due volte, uscì di casa affrontando quel vento gelido, aggirò la donna immobile ed afferrò la boccetta, nel momento stesso in cui poggiò le sue piccole dita sul vetro la farfalla insanguinata scomparse o per meglio dire si dissolse in mille frammenti. Lui non ci badò, era più importante il bambino, così si precipitò dentro casa e si fermò davanti alla soglia osservando la creatura sdraiata su quel letto spoglio, privo di speranza alcuna. Il bambino sorrideva a Krang, gli volgeva uno sguardo pieno di gratitudine, quasi come se sapesse già quello che doveva fare. Quello sguardo lo fece tremare da capo a piedi, però non si perse d’animo e corse a donare quel liquido che rappresentava l’ultima speranza. Avvicinandosi sentì uno strano odore, pungente e sgradevole, qualcosa di simile al ferro. Sempre avvicinandosi, non notò la macchia rossa che si estendeva nella piccola coperta marrone che giaceva sulle gracili gambe del bambino, Krang non vide nulla. Non pensò a nulla. Lo fece e basta.

Versò tutto il contenuto nella sua bocca, delicatamente. Le iridi del bambino si rilassarono, Krang ne fu sollevato, anche le sue manine smisero di tremare e sembrava stesse bene, sorrideva. Quello, però, fu il suo ultimo sorriso. Morì qualche istante dopo.

La boccetta si infranse nel legno del pavimento, le gocce di colore cangiante si mischiarono ai cocci e a Krang quell’immagine sembrò un cuore spezzato, proprio come il suo. Aveva ucciso un bambino, aveva rubato una vita. Così, di colpo si sentì perduto nelle tenebre, perduto nell’oblio di un incubo. Non riuscì a muoversi fino a che non sentì la presenza nell’atrio della donna che poco prima si disperava. Lo fissava, senza particolare interesse, come si fissa un mobile o un tappeto. Lo fissava, ma sembrava guardare oltre, guardava attraverso Krang, guardava il suo bambino, il suo bambino morto.

Krang emise un verso strozzato, era sicuro che la donna avrebbe dato la colpa a lui e Dio solo sa cosa avrebbe potuto fargli. Intanto la donna si mosse, ma nella direzione opposta a lui, si diresse, infatti, verso la stanza da letto in cui aveva condiviso innumerevoli notti con suo marito, dove il loro amore si era consumato, dove avevano concepito il loro bambino. In quella stanza estrasse dal pavimento la spada di Georg, colui che l’aveva salvata dal baratro della disperazione, colui che ce l’aveva rigettata senza pietà. L’estrasse e se la conficcò nel petto, senza una parola, senza un respiro. Morì, e lo fece in silenzio.

Krang scappò. Corse via, fuggì da quella realtà che lo aveva sconquassato dal profondo dell’anima. Urlò e pianse e cadde e si rialzò. Rimase senza fiato e allora  si fermò a contemplare l’immagine rilassata e cristallina del lago, quel lago che rifletteva gli alberi, il sole, la luna, le stelle, ma anche l’infelicità dell’uomo.

Dapprima non lo vide, poi quando i suoi occhi appannati ricominciarono a vedere chiaro, distinse nel buio di quella notte una sagoma esile, immobile e di spalle. Portava una lunga giacca nera, stretta in vita e larga immediatamente sotto. I suoi capelli erano anch’essi neri come il carbone e tutto il suo corpo emanava mistero. Il vento scompigliò il suo soprabito e Krang si sentì talmente catturato da quell’uomo che per un attimo desiderò di rimanere così per sempre. Dopo un tempo indefinito l’uomo si mosse, brandendo per le mani un oggetto lungo e scuro, Krang pensò fosse una croce ma non poteva giurarlo, quel pensiero però lo fece rabbrividire. Lo vide armeggiare con l’oggetto e gli sembrò che lo stesse piantando nel terreno, così morso dalla curiosità uscì dai cespugli e si diresse verso di lui a passo svelto. Gli andò dietro e seppe che lui sapeva. Non ci fu bisogno di domandare nulla.

Capì allora in quel momento che quella scia nera che le sue iridi avevano percepito, era lui. Ancora incapace di parlare, il bambino si adagiò alla riva del lago, osservando le stelle e sperando che dopo la sua morte una di loro lo accogliesse nella grande famiglia, che si riuniva puntualmente ogni notte. Mentre l’uomo s’inginocchio davanti a quella croce di fortuna, con quei capelli che gli coprivano gli occhi e rendevano quel viso famelico, buio e solitario. Krang non poté che piangere per lui.

Si svegliò nel suo letto, madido di sudore e pensò che tutto ciò che aveva vissuto fosse stato solo un mero sogno, ricordava chiaramente solo quell’uomo che lo aveva colpito così profondamente. Scese in cucina e diede un bacio alla sua mamma.

<< Buongiorno piccolo, dormito bene?>> chiese dolcemente lei.

<< Si, mamma.>> mentì docilmente lui.

La mamma gli volse un sorriso benevolo e tornò alle sue faccende.

<< Scusa mamma, non ho molta fame stamattina, potresti prepararmi solo una ciotola di riso?>>

<< Ma certo, caro.>>

Andò alla finestra, doveva capire se quello era stato o no un sogno e c’era solo un modo.

<< Oh Krang, stamattina si diceva che i vicini sono stati trovati entrambi morti, il bambino era deceduto a causa di una ferita d’arma da taglio, e sua madre si era trafitta con la spada del padre, chissà come deve aver sofferto poverina... che peccato, mi stavano tanto cari.>> una punta di amarezza toccò le parole della donna che si affrettò a nascondere gli occhi rossi.

Krang, dal canto suo, rimase senza fiato. Non lo diede a vedere, questo è certo, ma si sentiva il corpo molle e le gambe cedergli sotto il peso della consapevolezza che nulla di quello che aveva vissuto era stato un sogno e Dio solo sa come fosse ritornato a casa quella notte.

<< Già, peccato.>> riuscì a sussurrare.

Poi mangiò di fretta il riso insipido e con una banale scusa uscì di casa. Era spaventato a morte, ecco com’era. Sentiva che se avesse rivisto quella gigantesca farfalla sanguinolenta sarebbe impazzito. Ne era praticamente certo. Allo stesso tempo, però, capiva che se non avesse rivisto quell’uomo il suo cuore sarebbe impazzito al posto suo.

Si diresse correndo verso quel lago, cadendo parecchie volte a causa della brina calata nella notte, si sbucciò le ginocchia, ma non importava. Nulla più aveva alcuna importanza in quel momento. Non riusciva a spiegarselo, ma la tristezza che aveva avvertito in quell’uomo quella notte era stata immane, qualcosa che va oltre l’umana comprensione. Sembrava che quell’uomo non avesse mai sorriso o gioito in vita sua, non era riuscito a guardare dentro i suoi occhi ma il solo osservarlo lo aveva agghiacciato, sentiva attrazione e nello stesso tempo ripugnanza, ma soprattutto, sentiva pietà.

Arrivò senza fiato e, deluso, vide che il lago risplendeva della luce del sole mattutino, annoiato dal guardare il mondo ogni santo giorno. Annoiato di vivere la sua esistenza guardando quella palla girare e girare e girare. Pensava che quando quella palla azzurra si fosse fermata probabilmente anche lui sarebbe morto e solo in quel momento il sole sarebbe stato felice.

Krang aspettò per ore e ore, rannicchiato nella riva ad osservare le libellule volteggiare, i rospi poltrire, i cervi abbeverarsi, gli scoiattoli correre e traendo dalla loro vita la più pacifica beatitudine, loro erano liberi, lui no. Non più ormai. Era quasi sera, e il sole si dileguava, sempre in religioso silenzio, sempre annoiato. Con  passo andante anche gli animali del bosco si ritiravano per la notte e a Krang non venne assolutamente in mente che la sua mamma fosse in pensiero per lui. Non gli importava, in quel momento contava solo quell’uomo. Arrivò persino la notte e Krang, stanco ed affamato, stava per addormentarsi, quando un brivido orribile gli percorse la schiena facendogli rizzare tutti i capelli. Fu allora che percepì la sua presenza accanto a lui. Fu allora che tremende sensazioni lo pervasero e fu allora che volle morire.

Non aveva il coraggio di voltarsi, non aveva il coraggio di muovere neanche un misero muscolo, respirare era l’unica cosa che faceva automaticamente. Rimasero così a lungo, lui in piedi piantando la sua nera spada nel terreno provocando il tintinnio della catenella penzolante dal manico, nel suo macabro silenzio il suo volto si mischiava con le tenebre e il suo corpo era le tenebre. Krang cercò di accumulare tutto quel coraggio che non aveva e lentamente si voltò, ciò che vide lo segnò per il resto della sua vita, impazzì subito dopo.

Riuscì a scorgere il suo volto in un guizzo di luce lunare, vide i suoi occhi senza iridi, due abissi che gli ricordarono i pozzi neri che aveva sognato tempo fa da bambino, quei pozzi neri che lo avevano perseguitato per tutta la vita. Vide il suo ghigno famelico, senza neppure traccia di un dente, la sua bocca sembrava l’entrata per l’inferno, ma ciò che fece fermare la ragione di Krang, non furono ne gli occhi ne il ghigno, ma fu quella solitaria lacrima che gli rotolava sulle guance pallide, emaciate. Krang urlò. Lui si voltò, lo osservò e il suo ghigno s’intensificò, ciò fece perdere completamente il lume della ragione al bambino ormai terrorizzato e incapace di alcun movimento. Lui lo fissò.

<< Hai paura di me?>> chiese con una voce baritonale. << Ti faccio così paura?>>

<< C–C-Chi sei?>> balbettò Krang.

Lui non disse nulla, ma rilassò il suo sorriso, quegli occhi senza sguardo continuavano a poggiarsi su di lui e quella lacrima si liberò dalla sua guancia finendo sul terreno, dove s’impresse una pozza nera e ne uscì la farfalla insanguinata. Krang si sentì morire.

<< Chi sono?>> chiese lui calmo.

Le pupille di Krang erano impazzite.

<< Io sono... la morte.>>

 

 

<< Ehi, ehi, bimbo stai bene?>> chiese preoccupato un addetto alle pulizie del parco, trovando un bambino apparentemente svenuto sulla riva del lago. Egli aprì gli occhi, lo guardò e si alzò, con una faccia completamente priva di umanità. Vide che a pochi passi tintinnava la catenella della nera spada. Si avviò verso di essa disperatamente piano, l’addetto adesso aveva seriamente timore, quell’espressione era tutto fuorché normale . Il bambino si avvicinò, prese la spada, e si voltò verso l’uomo.

<>

In quell’istante l’addetto morì di crepacuore, non resse la vista di quel bambino privo di pupille, con quel ghigno malefico privo di dentatura, e quella lacrima orrenda che gli scorreva nel viso.

Il bambino si trafisse e cadde senza vita nelle acque cristalline del lago, che diventarono improvvisamente rosso scarlatto.

Una maestosa farfalla insanguinata si posò sullo specchio dell’acqua e così rimase per sempre.

  
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