Era Edo: antica era giapponese durata dal 1603 al 1868, prese il nome dal Daimyo di quell’epoca, la capitale era Kyoto. Questa epoca fu caratterizzata da frequenti scontri tra samurai.
BLOOD
BUTTERFLY
Si
viveva di spade, a Kyoto.
Nel
1860 Krang osservava dalla cima di una collina lo
spettacolo sanguinolento che riversava sulle strade della sua città. Da
parecchi anni ormai l’era Edo dimorava in ogni casa, nell’anima di ogni umano,
nel cuore di ogni essere vivente. Nessuno si sentiva in dovere di stare in
disparte e tutti per motivi più o meno futili estraevano le katane
ciarlando minacce al vento.
Lui
era ancora troppo piccolo, suo padre gli aveva detto che una volta compiuti i
dieci anni sarebbe stato pronto, si. Peccato che il suo papà morì prima.
Non
avevi la certezza di esistere a quel tempo, non avevi la certezza di
comprendere il tuo posto nel mondo. In quel periodo, nessuno si preoccupava di
interessarsi al prossimo, impegnati com’erano a trafiggere e stroncare
inutilmente vite umane.
Uno
scempio. Uno spreco. Un sacrilegio. C’erano tante espressioni che venivano in
mente a quel bambino che osservava i cadaveri spiaccicati sul terreno arido,
con quell’espressione di terrore sul volto che sarebbe rimasta in eterno fino a
che le intemperie non avessero angustiato loro il viso, allora sarebbe rimasto
il ghigno dello scheletro a far compagnia ai vermi solitari.
Le
urla che udiva ogni notte non appartenevano quasi mai a corde vocali vagamente
umane, quelle erano urla di bestie tristi, desiderose di un obiettivo per
conciliare e dare un senso alla loro vita. Dare un senso alla loro vita togliendola
agli altri. Quel bambino che sentiva la mamma piangere davanti a una foto
sbiadita di suo marito, biasimandolo per non essersi fermato in tempo, per non
aver pensato all’agonia e al terrore che ora regnava intorno a lei come un velo
trasparente, nero.
Krang entrò silenziosamente nella stanza, il suo
passo da bambino era felpato e cinse in un piccolo abbraccio la sua mamma,
cercando di dare a lei tutto l’affetto di cui era capace. La donna, invece,
singhiozzò sommessamente e lo cullò per tutta la notte, sussurrandogli parole
dolci come solo lei sapeva fare.
Fuori
l’ululato del vento accompagnava l’eco dei passi dei sopravvissuti, che putrefatti
da un odio incancellabile, avevano gettato la loro ingenuità nelle fiamme
dell’inferno e bruciavano, bruciavano, bruciavano.
La
porta di una casa mal ridotta si spalancò, una donna urlante uscì in strada e,
sgolandosi, urlò.
<<
Aiutatemi, aiutatemi per favore, mio figlio sta morendo. Vi supplico qualcuno
mi aiuti!!>>
Si
inginocchiò convulsamente e si mise il volto tra le mani, Krang
la stava osservando dalla finestra polverosa e avrebbe fatto di tutto pur di
aiutarla, ma cosa poteva fare un bambino di nove anni? Si rese conto che
provava per quella donna una pietà immane, una tristezza pari ai grani del
deserto. Sentiva che se il figlio di quella donna fosse morto, lui non se lo
sarebbe mai perdonato e preso da un moto di disperazione gli cadde una lacrima
dai grandi occhi a mandorla. Fu in quell’istante che le sue iridi videro
qualcosa nel tumulto del vento che sollevò polvere ai piedi della donna, una
chiazza si mosse e in un istante scomparve. Fu in quello stesso istante che
davanti alla porta spalancata apparse una piccola boccetta di vetro adornata da
un ornamento sconosciuto, circondata da una cordicella rossa. Lo strano liquido
che conteneva assumeva a tratti un colore verdognolo per poi diventare violaceo.
Krang rimase interdetto per alcuni minuti, con il
labbro tremante e il cuore che batteva all’impazzata, non per la boccetta, ma per
la cosa che vi volteggiava sopra, libera come quel vento che continuava a
soffiare, come gli uccelli che stridevano tra le nuvole minacciose, come
quell’urlo che gli uscì dalla gola.
Sopra
quella boccettina volteggiava una farfalla, un enorme farfalla insanguinata.
Il
suo urlo consistette in uno sfregamento di corde vocali, non riusciva a muovere
neanche un muscolo del suo corpo. Intanto la donna aveva smesso di piangere e
stava ora alzandosi dal terriccio, aveva un espressione totalmente vuota e i
suoi occhi sembravano privi di colore. Spento, era anche il suo volto esangue,
sembrava infatti un corpo morto, privo di calore. Krang
non ci pensò due volte, uscì di casa affrontando quel vento gelido, aggirò la
donna immobile ed afferrò la boccetta, nel momento stesso in cui poggiò le sue
piccole dita sul vetro la farfalla insanguinata scomparse o per meglio dire si
dissolse in mille frammenti. Lui non ci badò, era più importante il bambino,
così si precipitò dentro casa e si fermò davanti alla soglia osservando la
creatura sdraiata su quel letto spoglio, privo di speranza alcuna. Il bambino
sorrideva a Krang, gli volgeva uno sguardo pieno di
gratitudine, quasi come se sapesse già quello che doveva fare. Quello sguardo lo
fece tremare da capo a piedi, però non si perse d’animo e corse a donare quel
liquido che rappresentava l’ultima speranza. Avvicinandosi sentì uno strano
odore, pungente e sgradevole, qualcosa di simile al ferro. Sempre
avvicinandosi, non notò la macchia rossa che si estendeva nella piccola coperta
marrone che giaceva sulle gracili gambe del bambino, Krang
non vide nulla. Non pensò a nulla. Lo fece e basta.
Versò
tutto il contenuto nella sua bocca, delicatamente. Le iridi del bambino si
rilassarono, Krang ne fu sollevato, anche le sue
manine smisero di tremare e sembrava stesse bene, sorrideva. Quello, però, fu
il suo ultimo sorriso. Morì qualche istante dopo.
La
boccetta si infranse nel legno del pavimento, le gocce di colore cangiante si
mischiarono ai cocci e a Krang quell’immagine sembrò
un cuore spezzato, proprio come il suo. Aveva ucciso un bambino, aveva rubato
una vita. Così, di colpo si sentì perduto nelle tenebre, perduto nell’oblio di
un incubo. Non riuscì a muoversi fino a che non sentì la presenza nell’atrio
della donna che poco prima si disperava. Lo fissava, senza particolare
interesse, come si fissa un mobile o un tappeto. Lo fissava, ma sembrava
guardare oltre, guardava attraverso Krang, guardava
il suo bambino, il suo bambino morto.
Krang emise un verso strozzato, era sicuro che
la donna avrebbe dato la colpa a lui e Dio solo sa cosa avrebbe potuto fargli. Intanto
la donna si mosse, ma nella direzione opposta a lui, si diresse, infatti, verso
la stanza da letto in cui aveva condiviso innumerevoli notti con suo marito,
dove il loro amore si era consumato, dove avevano concepito il loro bambino. In
quella stanza estrasse dal pavimento la spada di Georg, colui che l’aveva
salvata dal baratro della disperazione, colui che ce l’aveva rigettata senza
pietà. L’estrasse e se la conficcò nel petto, senza una parola, senza un
respiro. Morì, e lo fece in silenzio.
Krang scappò. Corse via, fuggì da quella realtà
che lo aveva sconquassato dal profondo dell’anima. Urlò e pianse e cadde e si
rialzò. Rimase senza fiato e allora si
fermò a contemplare l’immagine rilassata e cristallina del lago, quel lago che
rifletteva gli alberi, il sole, la luna, le stelle, ma anche l’infelicità
dell’uomo.
Dapprima
non lo vide, poi quando i suoi occhi appannati ricominciarono a vedere chiaro,
distinse nel buio di quella notte una sagoma esile, immobile e di spalle. Portava
una lunga giacca nera, stretta in vita e larga immediatamente sotto. I suoi
capelli erano anch’essi neri come il carbone e tutto il suo corpo emanava
mistero. Il vento scompigliò il suo soprabito e Krang
si sentì talmente catturato da quell’uomo che per un attimo desiderò di
rimanere così per sempre. Dopo un tempo indefinito l’uomo si mosse, brandendo
per le mani un oggetto lungo e scuro, Krang pensò
fosse una croce ma non poteva giurarlo, quel pensiero però lo fece
rabbrividire. Lo vide armeggiare con l’oggetto e gli sembrò che lo stesse
piantando nel terreno, così morso dalla curiosità uscì dai cespugli e si
diresse verso di lui a passo svelto. Gli andò dietro e seppe che lui sapeva.
Non ci fu bisogno di domandare nulla.
Capì
allora in quel momento che quella scia nera che le sue iridi avevano percepito,
era lui. Ancora incapace di parlare, il bambino si adagiò alla riva del lago,
osservando le stelle e sperando che dopo la sua morte una di loro lo
accogliesse nella grande famiglia, che si riuniva puntualmente ogni notte. Mentre
l’uomo s’inginocchio davanti a quella croce di fortuna, con quei capelli che
gli coprivano gli occhi e rendevano quel viso famelico, buio e solitario. Krang non poté che piangere per lui.
Si
svegliò nel suo letto, madido di sudore e pensò che tutto ciò che aveva vissuto
fosse stato solo un mero sogno, ricordava chiaramente solo quell’uomo che lo
aveva colpito così profondamente. Scese in cucina e diede un bacio alla sua
mamma.
<<
Buongiorno piccolo, dormito bene?>> chiese dolcemente lei.
<<
Si, mamma.>> mentì docilmente lui.
La
mamma gli volse un sorriso benevolo e tornò alle sue faccende.
<<
Scusa mamma, non ho molta fame stamattina, potresti prepararmi solo una ciotola
di riso?>>
<<
Ma certo, caro.>>
Andò
alla finestra, doveva capire se quello era stato o no un sogno e c’era solo un
modo.
<<
Oh Krang, stamattina si diceva che i vicini sono
stati trovati entrambi morti, il bambino era deceduto a causa di una ferita
d’arma da taglio, e sua madre si era trafitta con la spada del padre, chissà
come deve aver sofferto poverina... che peccato, mi stavano tanto cari.>>
una punta di amarezza toccò le parole della donna che si affrettò a nascondere
gli occhi rossi.
Krang, dal canto suo, rimase senza fiato. Non lo
diede a vedere, questo è certo, ma si sentiva il corpo molle e le gambe
cedergli sotto il peso della consapevolezza che nulla di quello che aveva
vissuto era stato un sogno e Dio solo sa come fosse ritornato a casa quella
notte.
<<
Già, peccato.>> riuscì a sussurrare.
Poi
mangiò di fretta il riso insipido e con una banale scusa uscì di casa. Era
spaventato a morte, ecco com’era. Sentiva che se avesse rivisto quella
gigantesca farfalla sanguinolenta sarebbe impazzito. Ne era praticamente certo.
Allo stesso tempo, però, capiva che se non avesse rivisto quell’uomo il suo
cuore sarebbe impazzito al posto suo.
Si
diresse correndo verso quel lago, cadendo parecchie volte a causa della brina
calata nella notte, si sbucciò le ginocchia, ma non importava. Nulla più aveva
alcuna importanza in quel momento. Non riusciva a spiegarselo, ma la tristezza
che aveva avvertito in quell’uomo quella notte era stata immane, qualcosa che
va oltre l’umana comprensione. Sembrava che quell’uomo non avesse mai sorriso o
gioito in vita sua, non era riuscito a guardare dentro i suoi occhi ma il solo
osservarlo lo aveva agghiacciato, sentiva attrazione e nello stesso tempo
ripugnanza, ma soprattutto, sentiva pietà.
Arrivò
senza fiato e, deluso, vide che il lago risplendeva della luce del sole
mattutino, annoiato dal guardare il mondo ogni santo giorno. Annoiato di vivere
la sua esistenza guardando quella palla girare e girare e girare. Pensava che
quando quella palla azzurra si fosse fermata probabilmente anche lui sarebbe
morto e solo in quel momento il sole sarebbe stato felice.
Krang aspettò per ore e ore, rannicchiato nella
riva ad osservare le libellule volteggiare, i rospi poltrire, i cervi
abbeverarsi, gli scoiattoli correre e traendo dalla loro vita la più pacifica
beatitudine, loro erano liberi, lui no. Non più ormai. Era quasi sera, e il
sole si dileguava, sempre in religioso silenzio, sempre annoiato. Con passo andante anche gli animali del bosco si
ritiravano per la notte e a Krang non venne
assolutamente in mente che la sua mamma fosse in pensiero per lui. Non gli
importava, in quel momento contava solo quell’uomo. Arrivò persino la notte e Krang, stanco ed affamato, stava per addormentarsi, quando
un brivido orribile gli percorse la schiena facendogli rizzare tutti i capelli.
Fu allora che percepì la sua presenza accanto a lui. Fu allora che tremende
sensazioni lo pervasero e fu allora che volle morire.
Non
aveva il coraggio di voltarsi, non aveva il coraggio di muovere neanche un
misero muscolo, respirare era l’unica cosa che faceva automaticamente. Rimasero
così a lungo, lui in piedi piantando la sua nera spada nel terreno provocando
il tintinnio della catenella penzolante dal manico, nel suo macabro silenzio il
suo volto si mischiava con le tenebre e il suo corpo era le tenebre. Krang cercò di accumulare
tutto quel coraggio che non aveva e lentamente si voltò, ciò che vide lo segnò
per il resto della sua vita, impazzì subito dopo.
Riuscì
a scorgere il suo volto in un guizzo di luce lunare, vide i suoi occhi senza
iridi, due abissi che gli ricordarono i pozzi neri che aveva sognato tempo fa
da bambino, quei pozzi neri che lo avevano perseguitato per tutta la vita. Vide
il suo ghigno famelico, senza neppure traccia di un dente, la sua bocca
sembrava l’entrata per l’inferno, ma ciò che fece fermare la ragione di Krang, non furono ne gli occhi ne il ghigno, ma fu quella
solitaria lacrima che gli rotolava sulle guance pallide, emaciate. Krang urlò. Lui si voltò, lo osservò e il suo ghigno
s’intensificò, ciò fece perdere completamente il lume della ragione al bambino
ormai terrorizzato e incapace di alcun movimento. Lui lo fissò.
<<
Hai paura di me?>> chiese con una voce baritonale. << Ti faccio
così paura?>>
<<
C–C-Chi sei?>> balbettò Krang.
Lui
non disse nulla, ma rilassò il suo sorriso, quegli occhi senza sguardo
continuavano a poggiarsi su di lui e quella lacrima si liberò dalla sua guancia
finendo sul terreno, dove s’impresse una pozza
nera e ne uscì la farfalla insanguinata. Krang si
sentì morire.
<<
Chi sono?>> chiese lui calmo.
Le
pupille di Krang erano impazzite.
<<
Io sono... la morte.>>
<< Ehi, ehi,
bimbo stai bene?>> chiese preoccupato un addetto alle pulizie del parco,
trovando un bambino apparentemente svenuto sulla riva del lago. Egli aprì gli
occhi, lo guardò e si alzò, con una faccia completamente priva di umanità. Vide
che a pochi passi tintinnava la catenella della nera spada. Si avviò verso di
essa disperatamente piano, l’addetto adesso aveva seriamente timore,
quell’espressione era tutto fuorché normale . Il bambino si avvicinò, prese la
spada, e si voltò verso l’uomo.
<
In quell’istante l’addetto
morì di crepacuore, non resse la vista di quel bambino privo di pupille, con
quel ghigno malefico privo di dentatura, e quella lacrima orrenda che gli
scorreva nel viso.
Il bambino si
trafisse e cadde senza vita nelle acque cristalline del lago, che diventarono
improvvisamente rosso scarlatto.
Una maestosa
farfalla insanguinata si posò sullo specchio dell’acqua e così rimase per
sempre.