Silenzio; non un suono disturba il riposo di Hiroshima.
Le fiamme, lente e inesorabili, divorano voraci quel che resta della città. Di palazzi e condomini divorati dalla nube nera, quella mattina, ora non si può che raccogliere i pezzi.
Giappone osserva la strada, accostato ad uno dei pochi muri ancora in piedi. Qualche ora prima, su quell’asfalto, c’era un bambino che giocava con un pallone. Il pallone è ancora lì, afflosciato vicino ai suoi piedi. Del bambino non c’è più traccia, è scomparso assieme al boato della bomba. La desolazione regna su Hiroshima, una città rimasta senza abitanti, senza case, senza niente. Giappone piange, accasciandosi a terra, il braccio rotto, un lembo di pelle che penzola dalla fronte, i capelli color carbone appiccicati alle guancie madide di sudore e sangue. Incapace di pensare, si limita a stringersi contro quel muro di cemento, fissando il vuoto con gli occhi sbarrati. Trema, Giappone, di fronte a quella distesa di polvere. Lente lacrime gli rigano il volto, mischiandosi al rosso del sangue che cola lungo le gote. E intanto Hiroshima brucia assieme alla gente che un tempo l’ha abitata. Persino le fiamme sembrano piangere la città; si stringono alle macerie nel caloroso abbraccio della morte.
Lontano da quel funerale, seduto su quelle che una volta dovevano essere state le fondamenta di una casa, America ride. Col fuoco di Hiroshima si accende una sigaretta, lasciando che il narcotico profumo della nicotina lo avvolga completamente. Sorride al dolore di Giappone, ma non gli si avvicina. Non è disprezzo, quello che prova, nemmeno paura né vergogna. Semplicemente, non vuole andare da lui. Come un fantasma si limita ad osservare, sorridendo, i primi hibakusha che lasciano la città.
Giappone lo vede, ma non ha la forza per alzarsi e andargli incontro. Questa è la fine, si dice, toccando con la punta delle dita l’immacolata divisa che un tempo aveva sfoggiato davanti a tutte le altre nazioni. Con gli occhi scuri puntati su America, Giappone piange, anche se sa di non doverlo fare.
Percependo quel cupo sguardo su di sé, il biondo si fa sfuggire un sospiro, alzandosi. Un ultimo tiro che gli riempie le narici di nicotina e getta la sigaretta a terra. Si sistema la giacca, pronto a lasciare Hiroshima. Prima di farlo, però, si volta verso Giappone e, salutandolo con un cenno del capo, mormora: «Buona fortuna, amico mio. Questa non è la fine.» Per qualche secondo si odono solo i passi della nazione che si allontana, sparendo dietro le nubi di fumo e polvere che le sue scarpe di pelle sollevano. Il silenzio torna a regnare su Hiroshima, la città divenuta cenere, mentre America torna dal suo schieramento, soddisfatto di “aver accorciato la guerra”.
Prigioniero di quel silenzio, Giappone chiude gli occhi, addormentandosi a ridosso di quell’ultimo muro ancora in piedi. Non sa perché, eppure una strana idea si è impossessata di lui: non importa quanto ancora dovrà soffrire, prima o poi Hinomaru tornerà a splendere anche su Hiroshima.
Perché quella non è la fine.