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Autore: myki    08/04/2009    4 recensioni
Stavolta nessuna introduzione. Solo le parole che ho scritto, e che potrebbero dire tanto quanto nulla.
"Avevo fame. Fame del mio sangue sulla pelle, del mio dolore che invece si trovava sotto.
Bramavo una vita vera, una vita senza specchi che mi mostrassero chi fossi… e, insieme, tutto ciò che non volevo essere.
Bramavo una vita in cui non avessi bisogno di lacerarmi la carne per sentirmi vivo.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è il mio genere. Non è il mio stile.
Non è la mia storia.
E non sono io.
Ho solo voluto indossare una maschera, calarmi in qualcosa di tanto lontano da me. Solo per comunicare qualcosa che mi appartiene, ma che non ho parole per raccontare.
Spero solo di non confondere anche voi, perchè io, sono già abbastanza confusa.

Spilli

Stringo i denti, cercando di non soffiar fuori neanche un lamento. Chiudo gli occhi, per non vedere di fronte a me il muro bianco, la scrivania coperta di libri, la coperta del letto abbandonata da un lato. Chiudo gli occhi per non vedere quella normalità che mi spaventa, che non desidero, e che vogliono farmi accettare con la forza.

Continuo a spingere il vetro nella mia mano, facendolo affondare nella pelle.

Il dolore non mi spaventa più.

Non c’è più la paura delle prima volte, di quando appoggiavo le schegge trasparenti alla mano ma premevo senza troppa convinzione, pensando solo alla sofferenza che avrei provato.

Adesso non più.

Mentre scavo la pelle con i frammenti della bottiglia poco fa ancora intatta, non ho alcun pensiero. Le fitte si susseguono regolari, ma il dolore cresce a dismisura, e più aumenta, più conficco il vetro all’interno, tornando poi sulla superficie della pelle carezzandola in leggeri graffi.

Il sangue scivola sul polso, e si perde in piccole gocce sul pavimento.

Le gambe si muovono da sole, rispondendo ad un comando che non è il mio. Vado in bagno.

Infilo il braccio sotto la cannella, godendo della sensazione dell’acqua fresca sulle ferite. Porto la mano davanti al viso, osservando più da vicino il nuovo taglio. Profondo, ma non più di altri.

Mi lecco la mano, alleviando le punture che riesco ancora a sentire. Me la passo sul viso, sentendo evidente la differenza con la pelle liscia.

Mi lecco la mano, sentendo il sangue sulla lingua, e la pelle sotto, ancora ruvida, come se tutto quello che ho appena fatto non fosse servito a niente.

Niente.

Niente……

Stringo forte, conficcandomi le unghie nella pelle chiara.

E vorrei gridare, ma non ho più una voce mia.

Mille spilli nella pelle, che spingono verso il basso, senza pietà. Ed io posso fermarli, ma non voglio.

Dita che si schiudono automaticamente, stanche della continua contrazione. Nuovi segni scuri. Di un livore simile a quello dei lividi, i buchi scavati dalle unghie formano una linea non perfettamente orizzontale sul mio palmo.

Mio. Non lo so. Non so più se c’è qualcosa di mio in questo corpo.

È soltanto qualcosa che mi trascino dietro… il peso della mia anima. Lo odio, e lo detesto.

E lo punisco.

I solchi sulla mano sono solo ombre rosse adesso. Frizzano.

Li accarezzo meccanicamente, mentre lo sguardo si perde oltre le piastrelle, oltre il cielo azzurro che, so, vi è nascosto dietro.

Non ho uno specchio. I miei me lo hanno tolto dopo che mi hanno trovato sul pavimento del bagno con le nocche distrutte. Lo avevo tempestato di pugni, lasciando che cadesse a terra con un tonfo. Mi ero divertito a guardare i pezzi lucenti schizzare da tutte le parti, andando a conficcarsi in ogni angolo. Mi ci ero lanciato sopra. Come un assetato.

Avevo fame. Fame del mio sangue sulla pelle, del mio dolore che invece si trovava sotto.

Bramavo una vita vera, una vita senza specchi che mi mostrassero chi fossi… e, insieme, tutto ciò che non volevo essere.

Bramavo una vita in cui non avessi bisogno di lacerarmi la carne per sentirmi vivo.

                                  *

Desidero vivere, e mi consegno alla morte.

E vorrei gridare, ma non ho più una voce mia.

 

 

 

 

Scritta qualche mese fa, in un periodo piuttosto confuso della mia vita, e postata adesso, quando tutto fa meno male. Si tratta di un esperimento, per lo più, ma esprime in immagini quello che provavo, e che non sapevo come comunicare. Ho preso ispirazione dal romanzo che stavo leggendo in quel momento, "La solitudine dei numeri primi" ed ho scritto due strappi di vita. Il secondo, venuto fuori dopo questo in una notte di insonnia, si intitola "Morsi".

A mia discolpa posso dire che i miei protagonisti non sono Alice e Mattia. Che di loro ho preso solo il dramma, e che l’ho trattato come il dramma di ognuno. O come il mio. Ancora non ho deciso.

 

  
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